Segnalazione: i vini anfora
sabato 31 maggio 2008
Anche in questa sede voglio ringraziare per la disponibilità e per le informazioni fornitemi Josko Gravner, Alessandro Sgaravatti e Gabrio Bini. Un particolare ringraziamento ad Antonio (che vedete ritratto in foto) e Daniela di Gruttola (Cantina Giardino, Campania).
posted by Mauro Erro @ 10:04, ,
Viaggio nelle langhe: Teobaldo Cappellano
venerdì 30 maggio 2008
Il cielo padano, come ogni buon pregiudizio vuole, è plumbeo, minaccia pioggia. Da Modena si cerca ossessivamente una risposta dal meteo, come uno sterile esercizio di divinazione, prosaico e per lo più inutile. Forse pioverà per tutti e tre i giorni di permanenza nelle Langhe. Del resto la mia prima visita langarola dovrebbe restituirmi un’atmosfera più intonata ai posti, più novembrina che primaverile. E sarà così. Poco male, dunque…
Apre una porta: “Prego, la cantina è tutta qui”, come per dire: scusate se è poco. Cappellano è uno di quei viticoltori che vive sulle barricate, uno di vedetta: Baudelaire avrebbe parlato di avanguardia, eppure a pensarci il paragone non soddisfa… Baldo Cappellano, il presente, e Augusto, il futuro dell’azienda di famiglia, sono più prossimi a quella idea di rivalutazione, di riciclo, di riutilizzo, di riduzione, di ricontestualizzazione, a quelle “8 R”, insomma, che Latouche individua quali uniche strade per realizzare l’utopia concreta di un mondo giusto, sereno, solidale, in un equilibrio virtuoso tra uomo e uomo e tra la nostra specie e ciò che la circonda: guardare avanti partendo da ciò che è già sotto i nostri occhi.
Liberare il vino dalla schiavitù di un alienante processo industriale: questo il progetto non scritto di Baldo. Restituire alla natura i suoi cicli, in una prospettiva che vede l’uomo quale parte del tutto, un attore tra i tanti, e non il despota di un regno di cui si è appropriato indebitamente.
Partendo da qui forse si comprende meglio l’afflato rivoluzionario del progetto di Cappellano e di altri vignaioli che come lui credono in un vino che sia emblema della differenza, dell’inassoggettabile, del rispetto per la natura. Non è primitivismo, ma la semplice riscoperta di un dono, il vivere la vita da un’angolazione diversa.
Possono l’atto della vendemmia e quello della vinificazione significare tanto? La risposta è sì. Un macrocontesto non può non tenere conto del micro: in tale dimensione il valore di un gesto è incommensurabile.
Non dichiarano la loro azienda biologica o biodinamica, ma nei fatti sono anche di più: una semplicità e una naturalezza di ritorno nella concezione del lavoro in vigna e in cantina ne fanno degli alfieri non solo della tradizione, che è già cultura, ma dell’equilibrio naturale. Ecco, loro esplorano quell’area di contiguità tra il fatto naturale e quello culturale, inaugurando un dialogo permanente.
“Cosa vi faccio assaggiare? Vediamo…” E intanto Augusto ci mostra le vasche per la fermentazione, le botti – grandi, è ovvio – dove il vino riposa dopo quasi 30 giorni tra fermentazione e macerazione. Spilla da una di esse un po’ di liquido, granato, non del tutto assestato nel colore e non un campione di limpidezza (ma è dalla botte e mi sorprenderei dell’inverso!). è il Piè Rupestris ’05 Otin Fiorin, dal vigneto Gabutti. Un barolo piuttosto maschio, dai toni non certo accomodanti. È la china il primo ricordo, il rabarbaro, erbe amare, su un fresco fascio di viola non del tutto sbocciato: scontroso, chiuso e non ancora “fatto”. Lo si avverte soprattutto al palato, dove l’alcol risulta non del tutto integrato, mentre le durezze del vino sono accentuate (specie nel tannino ancora troppo tenace). Ad ogni modo è un vino che sosterà ancora molto in botte prima di essere imbottigliato, prima di diventare Barolo. Più rilassato il 2004, ugualmente campione di botte. Già al naso ha maggiore definizione e, dietro le erbe amare e il tono terroso, si rivela pian piano un frutto piacevole: in bocca ha lunghezza e determinazione; senza imporsi, lentamente percorre la lingua, pur facendo intravedere la sua indole mai doma e il passo ribelle e scalpitante della gioventù. Eppure la continuità tra i due è nell’architettura che predilige i contrasti e i chiaroscuri, un profondo intimismo gotico, giocato tra ritrosia e apparizione, anziché l’esuberanza e la celebrazione di un frutto troppo spinto, un barocchismo che purtroppo contraddistingue molti dei vini della nostra epoca. Si tratta di un nettare che seppur molto giovane e spigoloso (l’anima di Serralunga si avverte da un miglio lontano) rivelano toni principalmente terziari. E qui è il fascino di questo splendido campione delle Langhe.
A questo punto Augusto passa al Pié Franco ’04 Otin Fiorin, da varietà nebiolo (rigorosamente con una sola b, come vuole Baldo) michet. Il piede franco per il nebiolo è stato impiantato nell’89 laddove non ci sono terreni in prevalenza sabbiosi: un capriccio? una sperimentazione? Fatto sta che il Pié Franco esiste ed è seducente. Granato netto. Naso completamente diverso dal Rupestris. Appena più dolce e, permettetemi, più ampio: alla terrosità della viola si sostituisce il tratto vellutato della rosa, un sibilo di liquirizia e ancora la china, accenni di balsamicità, ma soprattutto canfora (un tratto che trovo in molti rossi da piede franco – e nella mia regione ce ne sono ancora tanti –, sarà una mia fantasticheria, un ingannevole condizionamento…). Al palato è coerente, declinando la sua meravigliosa architettura in una misurata eleganza, avvolgendo il palato in modo più carezzevole, con frutta e spezie a donargli complessità e morbidezza ad un tempo, pur esibendo nel finale un tannino ancora selvaggio: è di sicuro più pronto del Rupestris e già godibile ora, ma, complice anche l’annata, ha una lunghissima vita avanti.
Prima di congedarci Augusto ci fa assaggiare il Barolo Chinato: un crescendo magistrale e una degna chiusura della prima visita. Anche qui il colore è il granato del barolo, con qualche riflesso più squillante. Ma il protagonista è l’olfatto: naso che regala emozioni, con un sentore di alchermes riconoscibilissimo (volgarmente potremmo dire: zuppa inglese). Un rincorrersi di cannella, chiodi di garofano, vaniglia… che ritornano anche al palato, caldi ma mai banali, chiudendo con un’eleganza e una pulizia da manuale.
È ora di pranzo e prendiamo congedo da Augusto. Gli scriveremo presto, questa la promessa (e magari passiamo prima possibile a trovarlo ancora).
posted by Mauro Erro @ 18:25, ,
Spigau Crociata 2002 (Pigato), Le Rocche del Gatto
giovedì 29 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 10:44, ,
Elucubrazioni vinose
mercoledì 28 maggio 2008
Sarà banale dirlo, ma un contadino non necessariamente fa il vino più buono del mondo, così come la grande azienda non necessariamente fa il peggiore. Ma ciò ha veramente importanza? No! Un degustatore valuta (o almeno dovrebbe) ciò che nel bicchiere gli si presenta, e racconta ( o almeno dovrebbe) le impressioni che bevendo ha tratto. Le informazioni riguardanti il vino, l’azienda, gli strumenti e le pratiche di cantina adottate non devono inficiare le valutazioni che un bevitore esprime: un degustatore deve solo prenderne atto. Così come i discorsi riguardanti il mercato, il numero di bottiglie vendute o discorsi riguardanti la piacevolezza. Se devo valutare un vino perché dovrebbe interessarmi quante bottiglie vende o se quel vino piace o meno? E poi, piace a chi? Il vino deve essere buono? Si. Nella sua semplicità questa affermazione appare quasi banale. Ma lo è veramente? La piacevolezza è un discorso assai spinoso e, almeno per quanto mi riguarda, poco interessante: discernere e discutere di gusto, una valutazione prettamente estetica, ha poco senso.
La Coca Cola è buona o meno? Così come far diventare un vino piacevole (per chi non si è ancora capito, immagino che un vino sarà piacevole per alcuni, e meno per altri) espressione di un territorio è altrettanto insensato. A chi verrebbe mai di chiedersi se la Coca Cola è una bevanda di territorio? Ho difficoltà ad immaginare orde di appassionati iscriversi ai corsi per diventare degustatore di bevanda analcolica.
Molti ad esempio confondono il discorso del territorio o terroir per dirla alla francese con una sorta di idealtipo preesistente dai tempi degli antichi romani, contrapponendo a quest’idea, una di natura mutevole, dinamica, legata al gusto e al mercato. Nulla di più sbagliato. L’esistenza o meno di una tradizione non ha nulla a che vedere con il discorso di territorio o terroir, ma tutt’al più è inerente ad un discorso che riguarda le pratiche di trasformazione dell’uva per farla diventare vino adoperate dall’uomo. Il terroir, e per terroir si intende l’insieme di fattori pedoclimatici, quindi per esser più chiaro, le particolari condizioni climatiche di una zona e la composizione dei suoi terreni, non esiste e non può esistere in funzione del mercato. Esiste o meno. Per fare un esempio, non è l’utilizzo di botti grandi o barrique, né tantomeno l’utilizzo di lieviti indigeni o selezionati a rendere il Barolo un vino di territorio, ma è il territorio in se e per sé che rende il Barolo un vino diverso da qualsiasi altro nebbiolo piantato altrove. Il discorso di territorio implica il concetto di unicità. L’esistenza o meno di una tradizione precedente è un discorso fuorviante, anche perché nulla vieta di scoprire nuovi territori ove la vite non è mai esistita. Allo stesso modo, non sono i volumi di vendita a stabilire l'esistenza del territorio. Tanto per fare un esempio di un vino di cui ultimamente ho letto spesso e su cui si apre spesso un dibattito fuorviante è il Terra di Lavoro di Fontana Galardi, che nella versione 2005, ha appena conquistato la nomination per il miglior vino rosso degli Oscar del Vino di Bibenda-Ais Roma: che il Terra di Lavoro possa essere un vino piacevole e che sia un vino acclamato da buona parte della critica e premiato dal mercato dovrebbero essere fatti di cui prendere atto. Fatti non opinabili. È opinabile che in virtù di questo, questo vino divenga un vino di territorio. Se nel bicchiere non avverto caratteristiche organolettiche riconducibili al concetto di territorio, quel vino piacevole o meno (non sono io a doverlo stabilire) diviene l’esercizio stilistico di una capace enologo replicabile in ogni dove.
D’altra parte rimango talvolta spiazzato da certe affermazioni. La settimana scorsa ho avuto modo di introdurre una serata dell’A.I.S. Napoli sui vini anfora. Durante la degustazione uno dei sommelier affermava, non so quanto consapevolmente, di una presunta particolarità di uno dei vini. Cavalcando discorsi filosofico-spirituali o sotto il vessillo della naturalezza (presunta) un degustatore non può e non deve far passare ciò che è un palese difetto per particolarità. Un difetto è un difetto, punto. Per non parlare dei lieviti selezionati. I lieviti selezionati rappresentano un problema laddove alterano palesemente le caratteristiche varietali di un vitigno. L’altro giorno durante la manifestazione Vitigno Italia, un rappresentante commerciale di un’azienda campana mi chiedeva di saggiare un vino e dirgli cosa ne pensavo. Si trattava di un uvaggio di Fiano e Greco in pari percentuali. Davanti a questi vini parlare di tipicità, varietali e quant’altro può essere assai complicato, ma se al naso avverto l’impianto aromatico di una moscato, e al palato le note vegetali che posso ricondurre ad un Sauvignon blanc non posso esimermi dal chiedere come l’enologo sia riuscito nell’impresa di far diventare fiano e greco due vitigni aromatici.
In conclusione (per modo di dire, il discorso è fin troppo ampio) ad un degustatore e comunicatore, onestà a parte, bisognerebbe chiedere uno spirito critico che lo porti ad abbandonare qualsiasi convinzione già acquisita ed un approfondimento, una curiosità maggiore, uno studio tecnico-scientifico costante, evitando prese di posizione o certezze assolute perché è di vino che si parla, e bisogna ricordarsi come scritto da Fabio Rizzari che Il giudizio di gusto espone più di altri al ridicolo potenziale, e rivela più di altri la nostra fragilità. Chi accetta di correre questo rischio ha un atteggiamento più rilassato e libero, non ostile verso gli altri. Il rischio di essere traditi dal proprio lato imbecille è sempre dietro l’angolo, e non conosco un singolo degustatore professionista che non abbia scritto qualche cazzata sparsa.
Ora non rimane che chiedersi per i prossimi europei: Cassano si o Cassano no?
Nel frattempo Seven nation army, sperando che sia di buon augurio…..po…po po po po po….po.
posted by Mauro Erro @ 12:06, ,
Terra di Rivolta Riserva 2003, aglianico del Taburno, Fattoria La Rivolta
martedì 27 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 12:02, ,
Fontalloro 2001, Fattoria di Felsina
sabato 24 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 11:03, ,
Barolo Riserva 1967, Giacomo Borgogno
martedì 20 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 12:33, ,
Viaggi virtuali e non: segnalazione
giovedì 15 maggio 2008
Da abbinare a Drive dei Rem.
P.S. In foto (tratta dalla Carta delle Unità delle terre di Barolo, Regione Piemonte, anno 2000), le formazioni geopedologiche.
posted by Mauro Erro @ 09:29, ,
Vintage Tunina 2004, Jermann
mercoledì 14 maggio 2008
La primavera, Manu Chao.
posted by Mauro Erro @ 12:02, ,
Morellino di Scansano Riserva 2004, I Botri di Ghiaccio Forte
lunedì 12 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 12:27, ,
Barolo Riserva 1961, Giacomo Borgogno
venerdì 9 maggio 2008
Per me, che all’epoca avrò avuto neanche vent’anni, La nascita di Venere era poco più di un’immaginetta su di un libro di Storia dell’arte della grandezza di una decina di centimetri di spazio rubati alle parole che avrei dovuto imparare per l’interrogazione del giorno dopo. Un’immagine salvifica, un risparmio di una manciata di notizie da dover memorizzare: bella, sì, ma poco più. Un rettangolo di sette centimetri per tredici che, pur spiaccicando il viso al libro, molto non ti mostrava. Mai avrei immaginato, ritrovandomela innanzi, fosse alta quanto me, e larga quasi tre metri. Una parete. Mai avrei immaginato che contrariamente a quando spiaccicavo il viso al libro sarei stato costretto a fare dieci passi indietro per poterla ammirare nella sua pienezza, per metter a fuoco i particolari, per guardarla nella sua incommensurabile bellezza. La nudità di Venere esaltazione della bellezza e al tempo stesso della purezza dell’anima. Venere abbracciata dalla ninfa Clori, simbolo della fisicità dell’atto amoroso e sospinta dal soffio di Zefiro, il vento fecondatore. Lei, al centro del dipinto, quale elemento mediano e di equilibrio nell’esperienza amorosa tra passione fisica, esaltazione dei sensi e purezza spirituale, elevazione dell’essenza.
Ho ricordato quest’esperienza, quando lo sguardo si è posato sul calice ove vivo e brillante, fluente il Barolo riserva 1961 di Giacomo Borgogno, si mostrava. Si è soliti attribuirmi un carattere estroso, una lasciva indole poetica nel racconto dell’esperienza di bevute, nondimeno, sono consapevole che talvolta è facile lasciarsi andare, proporre, in maniera esuberante, innumerevoli descrittori organolettici che spaziano da improponibili frutti o fiori bianchi o spezie orientali introvabili: un'inutile esibizione egocentrica. Eppure, in questo caso, avverto la difficoltà della penna di riuscire a star dietro al vino, il vino che, a me non avvezzo al tecnicismo, mi dimostra - quasi una rarità - cosa possano significare etilici termini gergali come ampio, nei profumi che dinamici si sono succeduti in orizzonti infiniti, e eccellenti nella qualità della loro franchezza e nitidezza: ad uno ad uno si sono proposti corteggiandomi. Dal colore integro, immutato e senza alcun cedimento, di un rosso granato, tanto intenso, che seppur nella differenza cromatica, ricordava l’antico pompeiano, che mi lasciava incredulo, al susseguirsi di profumi caldi e straripanti, generosi, di frutti rossi ancor presenti e vivi e croccanti, alle note di agrumi, alle spezie ove spiccava inizialmente il finocchietto e poi declinate in numerose sfumature; pepe nero, liquirizia, leggeri accenni balsamici, il ritorno d’amarena. Ed alla fine al palato dove non resistendo più, crollando a quell’intenso corteggiamento, lo versavo con una certa bramosità: largo e pieno, pur non rinunciando ad una freschezza inspiegabilmente ancor presente, rigoroso come solo un Barolo nella sua massima espressione può essere, facile da bere, dal tannino elegante e lunghissimo. Del piccolo peccatuccio veniale, di quell’acidità e del tannino che nel finale leggermente andavano via per conto loro, avrò l’idea di una ruga su di un viso bellissimo.
Dieci passi indietro per capire esperienze uniche: la passione fisica, l’esaltazione dei sensi e il nutrimento spirituale. Stairway to Heaven.
P.S. Il Barolo Riserva 1961 di Giacomo Borgogno è stato affinato in solo cemento: niente legno.
posted by Mauro Erro @ 12:21, ,
Di palo in frasca: segnalazione
giovedì 8 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 18:54, ,
Dolmen Colli del Limbara (Nebbiolo in prevalenza) 2000, Cantina di Gallura
posted by Mauro Erro @ 11:16, ,
Ingannevole è “l’intenditore” più di ogni altra cosa, (o pseudo tale, o blogger e affini)
martedì 6 maggio 2008
Il fatto: è sabato 3 maggio, quando girovagando per il web mi imbatto sul sito di Luciano Pignataro in un comunicato stampa (che lo sia, che sia un comunicato stampa lo si evince dal tono, e solo da quello, e visto che non è firmato, molti potrebbero, fraintendendo, attribuirlo alla penna stessa del giornalista de “Il Mattino”) ove, per sommi capi, si parla di un associazione (divini assaggi), di una serata da loro organizzata, della presentazione del nuovo magazine della suddetta associazione (32 pagine a colori, e poi dicono che la carta stampata giace in un coma profondo e irreversibile), fino ad arrivare alla conclusione che di seguito riporto virgolettandola:
Cordialmente, Mauro Erro.”
Ora, mi meraviglia, conoscendo il suo senso della misura e dell’equilibrio, che Luciano Pignataro abbia pubblicato il comunicato così com’era a meno che o non l’abbia letto (cosa che ritengo probabile, gli sarà sfuggito) o ne condivida le considerazioni finali.
Ma la parte divertente viene adesso. Un paio di giorni dopo torno sul blog dell’associazione per vedere se il sig. Zarra ha risposto alle mie considerazioni: no non ha risposto. Anzi, per meglio dire, il post non c’è proprio più, è stato sostituito dallo stesso comunicato in cui è tagliata la parte finale, e da un altro di prostranti scuse al comune di Capaccio-Paestum, al sindaco e ad una serie di consiglieri (citati uno ad uno). Beh, ognuno è libero di fare ciò che vuole con il proprio blog, per carità, sarà giudicato per quello che fa e che scrive (purché si sappia), ma il punto sta proprio qui. A parte il fatto, che oggi su quello stesso blog sono sparite anche le prostranti scuse, visto che il comune di Capaccio-Paestum ha, giustamente, pensato di adire alle vie legali (il nuovo link è questo, dopo ravvedimento, il sig Zarra che ironicamente alla lettera del Comune rispondeva "grazie, grazie, grazie" dal sito ha spostato la lettera pervenutagli qui ammetendo l'errore), il punto non è nel fatto in se di cui potrebbe anche fregarcene un H, dell’associazione Divini assaggi i cui ragazzi saranno anche ben motivati e volenterosi (forse solo un po’ presuntuosetti e inesperti), ma nell’utilizzo che si fa di un blog, o meglio su cosa è e cosa dovrebbe essere un blog. Una volta discutendo con Aldo Fiordelli, giornalista, sul suo blog (consumazione obbligatoria) a proposito di Velenitaly e affini, Aldo mi scrisse questa sua considerazione: “La stampa enogastronomica da questa vicenda dovrà trovare il coraggio per fare un esame profondo del proprio ruolo.” Va da sé che questa frase già l’ho sentita innumerevoli volte, e quel benedetto esame di coscienza o non c’è stato o non ha portato ad alcun cambiamento. Ciò che trovo interessante è l’affermazione di chi crede che “il blog, la rete, internet è il futuro”…”è la democrazia”… “è la libertà tanto agognata”…considerazioni che portano ad esempio il New York Times a decidere che tra qualche anno sarà solo sul web e on-line….Ma il mondo dei blogger eno-gastronomici cosa ha portato di veramente nuovo rispetto alla stampa specializzata (molti di coloro che fanno parte della stampa specializzata hanno anche un blog), quale nuova linfa, cosa di migliorativo mi chiedo, o è solo uno strumento, forse anche potente, visto in prospettiva, che può essere usato da chiunque pseudo-esperto-intenditore-"scrittore-scribacchino"-egocentrico-presuntuoso-snob-
enoradicalchic- che se la canta e se la suona da sé?
Nel frattempo, come gli Inglesi amano dire, Dio salvi la regina ed i blogger. Centro di gravità permanente.
posted by Mauro Erro @ 11:06, ,
Tramonti bianco, Costa d'Amalfi 2007, Azienda Agricola San Francesco
lunedì 5 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 11:42, ,
Vitovska 2005 anfora, Az. Agr. Vodopivec
sabato 3 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 10:52, ,
Nebbiolo di Donnas, Vallée d’Aoste 2004, Caves Cooperatives de Donnas
venerdì 2 maggio 2008
posted by Mauro Erro @ 11:15, ,
Sagge parole
giovedì 1 maggio 2008
ed ogni altra cosa simile,
se recano piacere,
se no salutatemeli tanto.
Epicuro
"Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo e una delle cose naturali del mondo portata alla massima perfezione, e offre un maggior campo di gioia e apprezzamento di qualunque altra cosa puramente sensoriale che si possa acquistare. Si può passar tutta la vita con grande gioia a studiare i vini e a perseguire l'educazione del proprio palato, e via via il palato diventa più educato e più capace di apprezzamento e si accresce continuamente la gioia e l'apprezzamento del vino anche se magari si indeboliscono i reni, incomincia a dolere l'alluce e a irrigidirsi le giunture delle dita fino a che, proprio quando lo sia ama di più, il vino viene assolutamente vietato. [...] Tutti i nostri corpi si consumano in un modo o nell'altro e si muore, e io preferirei avere un palato che mi dia la gioia di godere pienamente un Chateau Margaux o un Haut Brion, anche se gli eccessi a cui mi sono abbandonato per conseguirlo mi hanno procurato un fegato che non mi consente di bere Richebourg o Corton o Chambertin, piuttosto che avere i ferrei intestini della mia fanciullezza quando tutti i vini rossi mi riuscivano amari tranne il Porto, e il bere consisteva nel processo di buttar giù abbastanza roba da sentirsi eroici. Naturalmente si tratta di evitare di dover rinunciare completamente al vino proprio come, con l'occhio, si tratta di evitare di diventar cieco. Ma in tutte queste cose ha gran parte la fortuna, e nessuno può evitare la morte con questi sforzi, o sapere a quale uso può reggere una parte del suo corpo finché non l'ha provato".
di Ernest Hemingway, da Morte nel pomeriggio, edito da Mondadori.
posted by Mauro Erro @ 10:51, ,