Great British Beer Festival 2012


Ormai è andata: il Great British Beer Festival 2012 si è concluso e, in tempi di giochi, ci sembra giusto commentare il medagliere. Partiamo dai numeri, 800 tra real ales, ciders e perries, raggruppate per zona di produzione in uno degli stand dislocati lungo la vecchia stazione Olympia a Londra. Un numero impressionante, segnale del lavoro svolto fino ad ora dal CAMRA, associazione di appassionati nata nel 1971 e che oggi conta più di 130 mila membri, con l’unico scopo di preservare le Real Ale ed i pub che le servono dall’omologazione del gusto, dalla crisi economica e da una delle più alte tassazioni sulla birra in europa, responsabile secondo ultime stime della chiusura di circa 12 pub alla settimana. Ad oggi la Gran Bretagna può vantarsi di circa 900 birrifici e 5.500 real ales prodotte e sembra, fortunatamente per gli appassionati, che il trend sia in crescita. 
Venendo ai premiati, ci sarebbero molte considerazioni da fare sulle birre che hanno guadagnato il podio assoluto. Non ho avuto la fortuna di assaggiare la No 9 del birrificio Coniston, una barley wine da 8,5 ABV che rilancia uno stile meno considerato e nella scelta dei publican che dei consumatori (vale la pena sottolineare come il costo finale della birra dipenda dalla gradazione alcolica). Chi ha avuto modo di assaggiarla (Luca Giaccone, ndr) mi ha parlato di una certa immatura dolcezza che il tempo dovrà mitigare, ma le premesse ci sono tutte. Secondo posto per la Trawlerboys Best Bitter di Green Jack, una BB ambrata da 4.6 ABV, dove le note maltate ben evidenti si fondono con un fruttato da luppolo, prima che l’amaro completi il sorso. Al terzo posto, ancora una birra che conduce a delle riflessioni, la American Pale Ale di Dark Star, una birra da 4.7 ABV con l’utilizzo di lieviti e luppoli americani e Maris Otter come malto base ed il risultato è sorprendente (ma forse anche il podio). Se al naso infatti esplodono le note agrumate, resinose e balsamiche del luppolo, in bocca queste sono domate, seppure evidenti, e declinate secondo quell’eleganza che appartiene alle birre inglesi e manca a quelle americane, fatte le dovute eccezioni. Una birra dall’essenza inglese anche se di sembianze americane, a dimostrazione che la potenza è nulla senza controllo. Forse la lezione che ci offre vale il podio. Tra le altre ho apprezzato la Ruby Mild di Rudgate, vincitrice nella categoria Mild Ale (stile che apprezzo molto) anche se alquanto atipica data la sua potenza alcolica (4.4 ABV) e soprattutto d’amaro, decisamente sopra le righe dato lo stile, ma efficace nel contrastare le note maltate di inizio sorso. Riesce laddove molti hanno fallito, la Windsor & Eton brewery con la loro Conqueror Black IPA, una birra di tutto rispetto, di soli 5 ABV, complessa e aromatica, nata dall’utilizzo di 5 qualità di malto con luppoli Summit e Cascade, a fondere le note tostate con quelle donate dai luppoli, senza che l’amaro la renda poco bevibile e le note tostato-affumicate la facciano sconfinare in altri stili (ammesso che questo esista). 
Dalle black IPA alle porter/stout il passo è breve e tra le altre ho il dovere di segnalare la Bottle Wreck del birrificio del West Sussex Hammerpot, una porter compiuta e godibile da 4.7 ABV, ricca di note tostate (cioccolato e caffè) a sostenere una piacevole scorrevolezza del sorso, mentre non mi ha convinto del tutto, seppur buona, la Umbel Magna di Nethergate, porter da 5 ABV con l’aggiunta di coriandolo: la spezia infatti in qualche modo domina la bevuta, essendo percepibile e a inizio sorso e quando il retrolfattivo sopraggiunge. In perfetta forma, entrambe “canoniche” ed entrambe a premio, la Town Crier (golden ale) di Hobson e la Stormstay (strong bitter) di O’Hanlon’s. Non mi ha convinto invece la Hebden’s Wheat di Little Valley e questo mi è capitato anche con altre birre di frumento inglesi, che soffrono probabilmente il confronto con le cugine continentali. In generale, la qualità media mi è sembrata molto alta e non sono incappato in fregature. Buono anche il flusso di persone allo stand nostrano, dove a “tenere botta” c’erano le birre di Birrificio del Borgo, Baladin e L’olmaia. Affollato - devo dire - anche lo stand made in USA. Questa volta dico no. Tra la selezione di ciders and perries, ho particolarmente apprezzato rispettivamente Cornish Orchards e Butfor Organics. Un bel modo per chiudere la giornata. E il festival.
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posted by Mauro Erro @ 09:32, ,


Ale-ympics (come salvarsi dai giochi)


Ormai i giochi sono iniziati, l’occhio del mondo punta su Londra e lo farà per i prossimi giorni, lei risponde col botto. Il cineasta di Manchester Danny Boyle - suo il merito di aver rivitalizzato il cinema inglese con quel capolavoro di Trainspotting - era alle prese con un compito difficile: quello di gestire la cerimonia d’apertura delle olimpiadi 2012. E a detta d’altri, pare ci sia riuscito.
D’accordo, non sono Aldo Grasso, ma a me, quella dell'altra sera, è parsa una di quelle cose più inguardabili di sempre. Si inizia bene, il count-down mette l’acquolina in bocca. Ma forse era meglio non finisse mai. Si dispiega un flusso frammentato (e a volte frenetico) di memorie contadine e storie di minatori che si scoprono forgiare i cerchi olimpici, passando dalla rivoluzione industriale alla cultura pop, dai Clash ai Prodidy. Scontato ad un certo punto l’arrivo di Mary Poppins, stravagante il tributo al NHS (il sistema sanitario nazionale), trash sua maestà che si lancia col paracadute sullo stadio olimpico. Ormai è fatta, la lunghissima sfilata degli atleti ha inizio e ci si risolleva solo quando la Vezzali guida il gruppo nostrano, in completo Armani, a dire al mondo che lo stile è un’altra cosa. Ormai è fatta, iniziano i giochi. E se siete a Londra per i giochi, forse conviene sapere che le misure di sicurezza sono ai massimi livelli, per cui nel parco olimpico non potete portarvi dietro più di 100 millilitri d’acqua e un panino piccolo. Ma non temete, a saziare la vostra fame ci penseranno le centinaia di punti di ristorazione all’interno del parco, cui però è stata vietata la vendita di patatine fritte. McDonald ha l’esclusiva. Pazienza. Io piuttosto, ho deciso di stare alla larga da Stratford e dal suo parco olimpico. Preferisco allontanarmi, chissà che non ci sia qualcosa di meglio altrove. The Eleanor Arms, pub nella lista CAMRA, e il più vicino al parco olimpico. Cinque birra a pompa, tavolo da biliardo e spazio all’esterno sul retro. Scelgo la Dry hopped Spitfire, la si può bere solo qui. Il publican mi dice che compra luppolo neozelandese - il più bitter che ci sia - e lo aggiunge alla storica Spitfire. Il risultato è molto migliore della birra madre. Mi allontano ancora un po‘ per raggiungere il Palm Tree, piccolo pub resistito negli anni. Ogni tanto c’è musica dal vivo, ma io preferisco rilassarmi su una panchina del parco in cui il pub è immerso. Mi scolo una Proud of Oxford della Oxford Ales Brewery, una golden ale da poco più di 4° alcolici con una nota finale citrica e rinfrescante. Per trovare qualcos’altro di buono, bisognerà uscire dalla zona. Mi godo in diretta il trionfo italiano del fioretto al The Snooty Fox, pub nella zona di Newington che insieme ad altri 4 vicini ha organizzato lo Ale-ympic - festival con 50 ale tra cui alcune one shot “olimpiche”. Tra le altre, nota di demerito per la Flaming Games della Dowton brewery (cask sfortunato?), ma il resto valeva il biglietto della metro. Purtroppo per voi, era l’ultimo giorno, ma non temete perché la città saprà come salvarvi dai giochi anche nei prossimi giorni. In attesa del gigantesco GBBF che si terrà dal 7 all’11 agosto, lunedì 6 c’è qualcuno che si è messo in testa di fare un pub crawl. Quasi quasi mi aggrego...
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posted by Mauro Erro @ 13:16, ,


The Bree Louise, Londra


Era la festa dei banchieri, oggi è la festa di tutti (o quasi). Bank Holiday continuano a chiamarla e così la metropolitana funziona a singhiozzo, un singhiozzo che non lascia respiro of course, ma sono costretto a scendere ad Holborn, il resto del tragitto lo percorro a piedi. Il cielo è grigio da questi parti: è stato l’Aprile più piovoso dal 1910 e quest’inizio di Maggio sembra non dare tregua. La pioggia cade fina, da fastidio più che creare disagio, anch’essa a singhiozzo, stavolta più grossolano. Si ferma, riprende, poi si ferma ancora e le foglie degli alberi, un po’ sui rami, un po’ per terra, incorniciano un paesaggio che ricorda l’autunno più che la primavera. Metto il cappello, non ho voglia di aprire l’ombrello, e m’incammino lungo il percorso che mi porterà a Euston Road. Si tratta di pochi isolati, quei pochi isolati che i londoners avrebbero fatto sotto-terra, nelle viscere traforate di una città enorme, dove dietro l’angolo capita di incontrare qualcosa che vada la pena essere visto. Le case vittoriano sfilano ordinate, coi loro mattoncini rossastri e le finestre senza imposte, i giardini antistanti agli ingressi e i due, tre piani al massimo a concedere ancora cielo allo sguardo. Arrivo a Euston Road (è lì che ho appuntamento per una mostra: http://www.wellcomecollection.org/) e il paesaggio cambia: alla fine della strada iniziano ad affacciarsi edifici più imponenti, vetro e metallo, dalla fattura evidentemente più recente. Imbocco una traversa, i grattacieli mi tolgono aria, almeno oggi non ne ho voglia. Basta girare l’angolo. 


Il Bree Louise è una public house di onorata carriera. Sei birre servite a pompa, undici a caduta e la cucina è aperta da mezzogiorno alle nove, senza interruzione. Grossa lavagna appesa al muro, tra acquerelli e maglie di rugby, pochi e grandi tavolacci, capita di sederti vicino a qualcuno, a me capita una coppia vivace che preferisce bere cider. Ordino da mangiare e da bere. Windsor&Eton, Knight of the Garter, una pale ale da 3,8%. L’ingresso è morbido, miscela di sensazioni biscottata, miele e una spiccata nota fruttata che vira verso una sensazione amaricante che si sovrappone ad un lieve ritorno tostato. Alla fine la bocca resta asciutta con una nota scura e persistente che gratta delicatamente la lingua ed invita ad un altro sorso di nettare morbido e fruttoso. Finisce così, velocemente. Ma l’ambiente è così, avventori che entrano e che escono, scambiano qualche chiacchiera al bancone o ai tavoli, lasciano fuori i problemi o li portano dentro per affogarli in una pinta, per affrontarli insieme all’oste. Ho avuto la mia dose di luppolo, ma non ci penso ad andarmene via: ho trovato un posto dove passare qualche ora, magari leggendo o chiacchierando, ma alla fine mi decido. Prendo una mild e prendo a scrivere. Branscombe Vale Brewery, Mild da 3,7%, bassa carbonica, nera e impenetrabile con assenza completa di schiuma. La declinazione delle sensazioni tostate è talmente soffice da lasciare senza parole: in un lungo grande sorso mi pare di percepire milioni di cose, come milioni di foto in bianco e nero che scorrono uno dietro l’altra a formare un lungometraggio muto d’altri tempi. C’è il toffee e la china, la radice ed il cioccolato, l’armonia e la persistenza, il buono e il cattivo, sole-luna, la dimostrazione che le frazioni della nostra anima possono convivere in equilibrio. Vengo richiamato all’ordine, gli avventori urlano di gioia e goliardia, siamo pur sempre in un pub, mica al tempio sacro. 
Ok guys, give me another pint!

The Bree Louise
69 Coburg Street Euston, London.
Pub dell’anno 2009/10 CAMRA.
Orari - Lun-Sab: 11-ora tarda
Dom: 12-22.30

Sconti per membri del CAMRA, lavoratori del NHS e studenti.

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posted by Mauro Erro @ 09:13, ,


Sulle birre campane, riflessioni e degustazione

A margine del percorso di approfondimento sui territori tradizionali della birra (Birroir ©) condotto in collaborazione con l’AIS Napoli, la serata dedicata alla birre campane caduta durante la Settimana della Birra Artigianale, offre lo spunto per alcune riflessioni.
Il vivo fermento che sta animando il panorama nazionale con oltre 350 micro-birrifici sparsi per lo stivale, caratterizza in pieno anche la scena regionale tra solide conferme e piacevoli scoperte. Le sperimentazioni con l’uso di ingredienti del territorio e con l’utilizzo dei legni fa da contraltare alla voglia di creare anche birre dalla più facile beva, in modo da cercare una più larga diffusione tra i consumatori. Questo dinamismo è il perno di un movimento regionale mosso dal cuore e dalla passione per un’arte artigiana che però non appartiene alla nostra tradizione. Serve quindi maggiore cultura e studio dei modelli di riferimento, insieme ad una maggiore consapevolezza dei processi produttivi. Uno dei problemi che infatti è stato più volte sollevato in ambito nazionale è quello della stabilità dei prodotti e della variabilità tra le bottiglie. Si tratta in fondo di affidabilità e questo è un dovere cui i produttori non possono sottrarsi, considerando infine il problema dei prezzi medio-alti (ma questo è un problema comune a livello nazionale, ben più complesso e relativo alla tassazione del prodotto birra). Il problema culturale esiste a onor del vero anche per chi dovrebbe fare da tramite tra i produttori ed i consumatori, perché è ormai passato il tempo delle birre rosse o doppio-malto. E tutto questo sta avvenendo a velocità altissime. È finita una birra. Se ne stappa un’altra.


Amber Doll del Birrificio Karma. Già il nome evoca morbidezza e rotondità, per una birra ad alta fermentazione che si caratterizza per l’aggiunta di miele di castagno. Bottiglia sfortunata (con una nota acida come da contaminazione) per una birra che altre volte abbiamo trovato discreta, pur nella sua semplicità.

Gairloch del Birrificio dell’Aspide. Ottima prova per questa birra del giovane Vincenzo Serra, che insieme alle sorelle forma un ottimo parco di produzione, assolutamente da seguire nel tempo. Una scotch ale centrata, in stile e con buona caratterizzazione personale. I malti sono ben declinati: l’ingresso morbido e caramellato viene contrastato efficacemente dall’amaro dei luppoli. La chiusura è nuovamente dominata dai malti, con note tostate che ritornano in retrolfattivo a concludere un sorso molto piacevole.

Mirone del Birrificio Sorrento. Campione di botte e giudizio finale da rimandare a quando la birra sarà pronta. L’anteprima comunque promette bene. Il colore ambrato è lucente e striato da sfumature ramate. Se dapprima il naso è dominato da evidenti note da legno, man mano queste si affievoliscono e lasciano campo a sensazioni agrumate e note da ossidazione nobile. Al palato c’è buona tensione e discreta materia, ma il sorso deve ancora trovare la corretta progressione, non aiutato dall’effervescenza, decisamente bassa. Il tempo ulteriore di maturazione (e una rifermentazione?) potranno completare l’evoluzione di questa birra intrigante e dal sorso impegnativo.

Noscia del Birrificio Maltovivo. Anche questa volta in splendida forma, la birra di Luigi Serpe colpisce in termini di bevibilità, eleganza ed equilibrio. Il naso è intenso e dominato dalle sensazioni dei luppoli aromatici, con note agrumate, floreali, resinose e balsamiche. Buona corrispondenza col palato, dove si aggiungono anche note tostate dei malti caratterizzanti. Ce la ricordavamo più amara e cazzuta, ma in queste ultime interpretazioni non rinuncia comunque nulla in termini di aroma e complessità.

Birra con la sorba del Birrificio Il Chiostro. Primo esempio di birra a fermentazione mista prodotta in Campania, con l’aggiunta di un frutto reietto del territorio: la sorba. La pratica di fermentare la sorba con il grano per produrre cerevisiae veniva già descritta da Virgilio e Simone Della Porta riprende questa antica usanza, centrando il colpo. L’acidità e le sensazioni da bret dominano il quadro: il sorso scorre via veloce, grazie ad una acidità citrica sottile e tagliente. Egregia interpretazione dello stile.

Pubblicato in contemporanea su AisNapoli.it

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posted by Mauro Erro @ 09:25, ,


Gli uomini preferiscono le belghe

Se c’è una cosa interessante del movimento mondiale della birra artigianale è la sperimentazione. Sperimentare vuol dire innanzitutto conoscere: conoscere tutto quello che c’è prima, tutto quello che è stato fatto fin’ora per poi innovare, cambiare qualcosa, appunto sperimentare. Questo dinamismo è anche alla base del successo e della crescita del mondo birraio: produrre nuove birre significa invogliare un assaggio curioso. Assaggiare nuove cose significa scolpirle nella memoria, se l’assaggio è degno di nota, per cui mi ricorderò di quel birrificio belga dal nome impronunciabile che ha osato usare l’indivia come amaricante al posto del luppolo (la Wit Goud di Hod ten Dormaal).
Oppure quell’assaggio finirà nel dimenticatoio.

Passato un po’ di tempo dal Villaggio della Birra, ritorno su quella nota stonata in calce ai miei appunti.
La manifestazione giunta alla sua sesta edizione, prevede una sorta di cocktail di benvenuto, con l’hoppy-hour del venerdì: un pre-villaggio con 8 birre alla spina, tra esclusive e nomi conosciuti. Minimo comun denominatore: luppolo, what else?
È curioso vedere come i birrai belgi si confrontino con il luppolo. La tradizione belga ha sempre magnificato la fermentazione, dando lustro ai lieviti e alla rifermentazione, ponendo il luppolo a danzare nel gioco delle parti con i malti.
L’esaltazione totemica del luppolo come bussola del percorso di birrificazione spetta agli americani. Che hanno ora il vantaggio di muovere un mercato che inizia a farsi importante.
E così la brasserie d’Achouffe produce la Chouffe Houblon: destinata al mercato statunitense ha riscontrato più fan in Europa, al di fuori del Belgio ovviamente.
Questione di palato e di abitudine a bere. Loro, gli americani, si bevono le loro, stilisticamente perfette, birre extra-hopped. Noi, appassionati bevitori affezionati al Belgio e alla scoperta del luppolo, restiamo affascinati dalla Houblon: una birra che è spessa, piena di tutto, e che in gola lascia una spiacevole sensazione balsamica e pungente. Richiama un altro sorso, di acqua. Una birra che, potendo scegliere, non sceglierei.
Poi bevo anche la Valeir Extra (Contreras Brouwerij), la Bink Blond (Kerkom Brouwerij), la Sainte Hélène Simcoe (Brasserie Sainte Hélène), la Bastogne Pale Ale (Brasserie de Bastogne) e la Hop Ruiter (Schelde Brouwerij).
Per diritto di cronaca mi ero appuntato tutti i nomi, perché gli assaggi sono finiti quasi tutti nel dimenticatoio, quello spazio della memoria gustativa dove rinchiudi quelle birre che proprio non vuoi vedere più in giro. Birre anche ben fatte, ma il Belgio? Dov’è?
Mi resta la sensazione che, con le dovute differenze, i belgi sanno fare meglio le loro birre. Dovrebbero puntare su questo, piuttosto che battere un percorso già solcato dai birrifici americani e dove, non v’è alcun dubbio, sono padroni. In questo caso, dovrebbero fare un passo indietro.
E poi gli uomini preferiscono le belghe, quelle vere, non quelle rifatte, tutte IBU e frutta tropicale.

in foto: Marie Gillain

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posted by Mauro Erro @ 15:43, ,


98 birre a 2

A volte resto affascinato dalle sproporzioni.
Prendi Berlusconi. Ci fu Noemi, poi la D’addario e poi Ruby. Centinaia di intercettazioni, il copioso ricorso a questo strumento, criminoso per qualcuno, che ha svelato un’agenda fitta di appuntamenti, incontri e vernissage nelle notti fugaci di Palazzo Chigi. Mille personaggi, faccendieri, impresari, escort, le ragazze dell’olgettina, facce nuove, vecchi giornalisti leccaculo in un vortice immobile. Lui, super-B, è ancora lì e non molla.
Nel frattempo ci fu il caso Marrazzo. Un video che ti ritrae a parlare con un trans: un vortice che stavolta fa parecchi danni. Ci fu lo scandalo, le strumentalizzazioni, una ragazza morta, le dimissioni, la tragedia personale. Un po’ di tempo dopo poi la Cassazione si pronunciò: Marrazzo fu vittima di un’imboscata. Ma tanto chi se lo ricorda?
Sproporzioni di un paese chiamato Italia.
E poi penso al mercato della birra qui da noi.
C’è l’elefantiaca quota dominata dai colossi della birra: un 98% che spaventa, perché rasenta il totale. Il dato buono è che la piccola fetta che spetta al mercato della birra artigianale è in crescita, nonostante la crisi economica mondiale, nonostante l’Italia figuri agli ultimi posti come consumo di birra. Circa 30 litri il consumo medio annuo contro gli oltre 100 litri della Germania e loro non sono i primi. Condividiamo questa chiusura di classifica con i cugini d’oltralpe.
Già, i francesi.
D’altronde noi (e loro) produciamo vino. Per cultura, affinità, tradizione e storia, produciamo e beviamo vino. La birra si affermerà molto dopo nella storia del nostro paese. E se questi aspetti mancano al mondo della birra, parlo di una cultura come quella che invece hanno paesi come il Belgio, la Germania, l’Inghilterra e via dicendo, potendoli solo imitare, perché poi 30 litri sono pur sempre 30 litri, non potendo puntare quindi sull’aspetto culturale, come invece è per il vino, la partita si gioca sul solo piano edonistico. Maroni avrà fatto pure il suo tempo nel mondo del vino, ma in quello della birra ha la possibilità di reinventarsi.
Se la partita infatti si gioca sul solo campo del gusto, la birra artigianale ha vittoria facile.
Perché la birra artigianale è sproporzionatamente più buona.
ah

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posted by Mauro Erro @ 07:26, ,


Osteria La Via di Mezzo, Buonconvento, Siena

Cucina: tradizionale

Proposte: a la carte, 30/35 € vini esclusi

Plus: la passione e la simpatia dei gestori

Abbiamo bevuto: Chianti Classico Le Trame 2008, Podere Le Boncie


Lungo la Via Francigena, da Canterbury fino a Roma, al pellegrino capita di sostare in borghi dominati dalla quiete, dove il sole detta i ritmi di una giornata che trascorre lenta, silenziosa e fiera. Buonconvento è un piccolo comune all’interno del circondario delle crete senesi, laddove le colline spoglie abbracciano la visuale. L’orizzonte viene interrotto talvolta da biancane e calanchi a regalare un’immagine suggestiva, talvolta da un pugno di costruzioni, chiese e mura, che riportano alla mente visioni di epoche lontane, quando ancora si andava a cavallo.
Il paese offre poco, una passeggiata piacevole e breve al riparo della cinta muraria. Alla via Soccini, una volta era nominata come via di mezzo, sorge l’omonima osteria, sosta obbligata per il pellegrino pagano che in quell’area deve tributo alla sua pancia con cibo e vino. Nata da 5 anni, da tre è in gestione ad un giovane e promettente duo che fa della cucina di territorio il suo stemma di riconoscimento, non disdegnando alcune puntatine dal sapore decisamente più moderno. Lo chef è giapponese (ed io storco il naso), ma mi assicura Gianni, uno dei due gestori, “è più toscano di me”, vive da 14 anni in Italia e da altrettanti cucina, anche come secondo in stellati ristoranti del capoluogo toscano. Non l’avessi saputo, non l’avrei mai detto. I piatti mi sembrano genuini, succulenti, sanguigni.
La carta si compone di una parte “fissa” tradizionalmente divisa in antipasti, primi e secondi, che vengono cambiati a seconda della stagione, e di una “mobile”, dalla più rapida rotazione, subordinata alla disponibilità dei prodotti al mercato e all’estro dello chef.
Noi abbiamo iniziato alla grande con uno sformatino di melanzane e formaggio e con un misto di affettati e formaggi locali; grande prova dei primi con la pasta fatta a mano (pici zucca e pecorino e tagliatelle al ragù bianco di cinghiale); esaltanti i secondi con cacciagione offerta in abbondanti porzioni (faraona alla cacciatora e coniglio arrosto morto).
Il menù prevede anche classici come la ribollita o la fiorentina e qualche offerta dal gusto più esotico. Noi abbiamo tentato con successo con il dessert: semifreddo al thè verde con crema di fagiolo azuki.
Carta dei vini esile, con toscana in prevalenza: a saper scegliere, accanto a nomi importanti e affidabili, si becca qualche grande bottiglia a prezzi d’enoteca.

Osteria La Via di Mezzo
Via Soccini 53, Buonconvento (SI)
0577 806320
www.osterialaviadimezzo.com

Carte di credito: Visa e Mastercard.
Orari di chiusura: aperto pranzo e cena, chiuso il lunedì; 2 settimane di ferie a Febbraio e Novembre.
Come arrivare: usciti da Siena percorrere la strada Massetana Romana e poi la stradale Cassia in direzione Buonconvento.
ah

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posted by Mauro Erro @ 07:59, ,


Guezerie Tilquin


A volte i sogni si realizzano, ma perché succeda c’è bisogno di pazienza, tenacia e tanto coraggio quanto il sogno è grandioso. Avere in mente di creare una guezerie, ai tempi d’oggi, quelli dove la birra industriale fagocita il mercato, è un sogno mastodontico.
Il sognatore: Pierre Tilquin, classe 1974, laurea in bio-ingegneria e dottorato di ricerca in statistica e genetica, con una passione smodata per la fermentazione spontanea. Ha lavorato 6 mesi per due dei maggiori produttori di lambic, Cantillon e 3 Fonteinen: “Ho imparato tanto da questi due produttori, e visto le cose da differenti prospettive. È stata un’esperienza notevole, la mia idea è di prendere il meglio dei due mondi”. Kuaska (Lorenzo Dabove) ci scherza su e dice che lo hanno cacciato, perché stava rubando tutti i segreti della fermentazione spontanea in tempi brevissimi.


Il sogno: aprire una guezerie. Tecnicamente, Pierre Tilquin non produce birra, ma fa il tagliatore, ovvero assembla lambic di altri produttori, messi a maturare in borri di legno nei locali della sua Guezerie. Il progetto nasce nel 2009, quando i lambic dei birrifici Boon, Cantillon, Girardin e Lindemans iniziano la loro maturazione. Nel 2011 vede la nascita la Oude Gueze à l’Ancienne, gueze da lambic di 1 e 2 anni. È Pierre Tilquin a decidere quando e quali lambic assemblare. “Dovremo aspettare il 2012 per avere una old Oude Gueze, da lambic di 1, 2 e 3 anni. Per quanto riguarda Cantillon, userò il suo lambic solo dopo 3 anni di maturazione, non prima e infatti sono l’unico a cui Cantillon concede il suo lambic. Il lambic di Boon posso usarlo dopo 1 anno, quello di Girardin and Lindemans dopo 1, 2 o 3.” Qualcuno avanza una critica per aver messo la sua gueze in fusto, ma lui si difende: “Se avessi messo la mia gueze in una nabucodonosor (bottiglia da 15 litri, ndr) nessuno avrebbe avuto da ridire nulla” .
La birra: Oude Gueze à l’Ancienne. Classici sentori da fermentazione spontanea, ma non eccessivi e pungenti, piuttosto sussurrati e in piena armonia: carte da gioco vecchie, sentori animali, ma anche vegetali e floreali. In bocca è accattivante, il sorso scorre come un guizzo sulla lingua, acidità citrica che pulisce e rinfresca, secchezza come cornice. Da bere, bere, bere: è verticale, ma non una lama. Niente a che vedere con una Cantillon bevuta giovane. Una gradazione alcolica pari a 6,2% per la versione in bottiglia, tra i 4 e i 5 per la versione alla spina, meno estrosa e con più carbonica della sorella maggiore.

Il mercato: A inizio secolo si potevano contare più di 180 tra produttori e assemblatori di lambic, oggi circa una decina. Anche in Belgio, patria storica della birra, quella di stampo industriale copre il 70% del mercato, dove tra l’altro il lambic è presentato come un prodotto dolce, arricchito fino all’inverosimile di sciroppi alla frutta. L’ultimo assemblatore si è aperto in Belgio nel 1997, quasi 15 anni fa. Il mercato del lambic ha sofferto molto, si è rischiata la scomparsa di una tradizione. Ora forse si vive un periodo più tranquillo, grazie alle esportazioni soprattutto, quelle in Italia sono tra le maggiori. Pierre Tilquin avrebbe voluto aprire la propria Guezerie a Bruxelles, ma i fitti sono troppo alti e l’investimento iniziale notevole: “tutte le mie botti vengono dai produttori di vino francesi: 150 dalla regione del Medoc e St. Emilion, le ho pagate 70 euro l’una, e le altre 72 costano 60 euro l’una, vengono dalla regione dell’Hermitage”. Ed apre in Vallonia, è il primo e unico, grazie ai sussidi che raramente vengono concessi nelle Fiandre e all’intervento di investitori come Gregory Verhelst del Birrificio La Rulles. Così inizia l’avventura, nel 2009, con più di 800 ettolitri di lambic messi a maturare: ci vorranno almeno due anni prima che la sua prima gueze veda la luce, prima che parte degli investimenti possano rientrare. E arrivò la primavera del 2011: buon per lui, buon per noi.

Glossario:
Guezerie: produttrice di gueze.
Gueze: blend di lambic di differenti età.
Lambic: birra a fermentazione spontanea composta da almeno il 30% di frumento non maltato.

Credits:
Belgian Beer and Travel

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posted by Mauro Erro @ 11:55, ,


Appunti sparsi dal Villaggio della Birra

Buonconvento, Siena

Giunto alla sesta edizione, il Villaggio della Birra è l’ottima manifestazione organizzata dai tipi del TnT Pub in quel di Bibbiano (Buonconvento, Siena). Quest’anno diciannove piccoli birrifici, quindici dal Belgio e quattro italiani, per una proposta davvero interessante. Di seguito qualche nota veloce, in attesa di più meditate riflessioni.


La sorpresa: Wit Goud di Hof Ten Dormaal. Ho sempre pensato che la birra dia il massimo nella semplicità dei suoi quattro elementi (acqua, malto, lievito, luppolo). Ogni altra aggiunta, in genere, regala risultati non sempre esaltanti. In questo caso l’uso di indivia aggiunge secchezza alla coda del sorso. E ne invoca un successivo. Scorrevole.

L’assaggio istruttivo: Babel di Foglie d’Erba. Versioni preparate in esclusiva per il Villaggio. Una ricetta comune, quella della Babel. Tre Pale Ale differenti per il solo utilizzo dei lieviti (americano, belga, irlandese). Perché oltre il luppolo c’è di più.

Il nome: Lion à Plume. Questo piccolo e giovane birrificio racchiude già nel nome un sogno e fonde i simboli (il gallo e il leone) delle due principali regioni del Belgio (Vallonia e Fiandre, sull’orlo di una crisi di nervi e di una guerra civile) in un unica potente immagine: il leone con le piume. Perché la pace bisogna prima immaginarla. E bere la sua Carioca, blanche che sostituisce alle spezie le note agrumate dei luppoli americani, aiuta. Utopia.

La conferma: De Ranke. Anche alla spina le sue creature sono spaventosamente buone. Perché l’amaro c’è, ma il lievito di più. Da bere ad occhi chiusi, senza indugi, senza ripensamenti. Un nome da imparare a memoria. Must.

La rivelazione: Guezerie Tilquin. Piccoli sogni si realizzano. Prima prova per Pierre Tilquin ed è amore. La sua storia merita uno spazio tutto suo. La sua gueze, la birra che ho bevuto di più. Tutte le volte che la mia lingua chiedeva una pausa di degustazione. Colpo di fulmine.

Da tenere d’occhio: Hoftrol. Birra da 6.2% ABV del birrificio ‘t Hofbrouwerijcke fermentata con brettanomiceti. Sul sito ufficiale mi pare di capire che la Hoftrol “classica” non preveda l’uso di questo ceppo di lievito. Quella assaggiata al Villaggio mostrava una acidità domata e i sentori sussurrati da bret a impreziosire una buona struttura. Promettente.

Il personaggio: Jef Van den Steen. Ha la barba lunga e grigia. Veste una camicia aperta su una canottiera bianca. Ovviamente in pantaloncini. Salta come un grillo e dice che la birra deve essere amara, perché quella dolce fa ingrassare: e fa sfoggio della sua silhouette, mostrandosi di profilo. Istrionico.

Transformers: si legge Italia, si beve Belgio. Fermentazione e maturazione per 4 mesi in tini di rovere per la Madamin, ulteriori 12 mesi di barrique per la Madama Brun-a. Sentori vinosi, punte lattiche, una morbidezza piacevole fa da contraltare alle note da bret, e poi ancora acetico e astringenza. Ottimo tributo alle flemish ale di Valter Loverier del birrificio piemontese Loverbeer. Intelligentemente sour.

Fuori posto: le versioni (ultra) hopped preparate (alcune) in esclusiva per il Villaggio. Ne assaggio diverse, non me ne piace nessuna. Ecco lo spunto per una futura polemica. Un degustatore inesperto (ovvero libero da condizionamenti) dopo averne bevuto solo 30 cl, mi ha detto: “mi brucia la lingua”. Tanto ingenuo quanto geniale. Nota stonata.

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posted by Mauro Erro @ 07:30, ,


Zaplet, Belgrado (Serbia)

Cucina: Tradizionale/Internazionale

Proposte: a la carte, 20/25 € vini esclusi

Plus: 15 dessert presenti in carta

Abbiamo bevuto: Malvasia istriana Kozlovic 2010, Malvasia Istriana Coronika 2010.

La cucina serba, prevalentemente incentrata sulle carni ed avara di innovazione d’ingredienti o di metodo di cottura, dopo qualche giorno può stancare, soprattutto se la serata è dominata da una calura che il tramonto non ha stemperato. Carni alla griglia, zuppe, salse, fritti ripieni, peperoni in abbondanza, per un tripudio del gusto che si addice più ai freddi mesi invernali, quando capita anche di vedere la neve a Belgrado, piuttosto che affermarsi a conclusione di una giornata calda e afosa.
Fa piacere allora scoprire, nel ripetitivo panorama gastronomico della capitale serba, lo Zaplet. Ai fuochi Milos Maravic, giovane chef che guarda attentamente alla sua terra, ma con un occhio rivolto lontano, verso i maestri sacri francesi e italiani.
70 coperti divisi in più sale, ben arredate ed accoglienti, nonostante il minimal imperversi; d’estate qualche tavolo all’aperto per un’altra trentina di sedute, avvolte tra finte pareti e foto in sequenza, luci gialle e basse, per uno scorcio privato di cielo, comunque intimo nonostante le auto che circolano al lato.
Il menu, dinamico già nella grafica, viene rivisto ogni 3 mesi e spazia dai piatti della cucina tradizionale serba alle carni, divise per tipologia, alle zuppe (deliziosa quella di legumi con prezzemolo e pinoli) e al pesce (ottimo il polipo grigliato con patate bollite e cipolle rosse). Colpisce la leggerezza dei fritti e la semplicità dei piatti, sempre ben riusciti, mai sofisticati. Anche per quelli iscritti alla categoria classical Serbian, per cui mi aspettavo sapori decisi e strutture più che robuste, la mano di Milos Maravic ammorbidisce tutto e ingentilisce piatti che altrimenti farebbero fatica a trovare spazio in una carta del genere.
Azzardoso l’entree di benvenuto, con aglio sotto olio e una crema di cipolle.
Gentile il richiamo alla cucina povera domestica con il cuoppo di patate fritte ad accompagnare il maiale ripieno.
Tutta da esplorare la carta dei dessert con ben 15 proposte (superba la raspberry brownie).
Carta dei vini abbastanza ampia, ma disordinata. Prevale il territorio, poi l’Italia (con scelte non sempre indovinate), la Francia e il Nuovo Mondo: noi siamo andati in Istria bevendo discretamente a prezzi più che corretti. Da evitare i vini dolci serbi a bicchiere.

Ristorante Zaplet
Kajmakcalanska 2, Beograd.
(+381) 11 2404 142

Carte di credito: tutte.
Orari: sempre aperto, a cena fino alle 00.30; chiuso il lunedì. Prenotazione richiesta.
Come arrivare: prendete un taxi, da qualsiasi parte della città vi costerà pochi euro. Preferite la compagnia Pink Taxi: (+381) 065 9802 907.

Roberto Erro
Ah

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posted by Mauro Erro @ 08:56, ,


Un po' bitter


All’inizio le Pale Ale non erano per niente luppolate e per questo motivo si distinguevano dalle beer. Poi vennero i mercati esteri, le colonie e la Compagnia delle Indie. La birra doveva reggere un viaggio marittimo di 4-6 mesi per raggiungere il mercato indiano. Ed ecco nascere le India Pale Ale (IPA), abbastanza luppolate perché la differenza categoriale tra beer ed ale finisse nel dimenticatoio. Le Pale Ale di stampo Inglese finirono per indicare un certo gusto bitter. Tanto bitter da finire in etichetta.
Nel frattempo ci furono i Padri Pellegrini e Wall Street: le Pale Ale prodotte negli Stati Uniti, lungo la via della madre inglese, aggiunsero corpo e luppoli americani, dagli aromi più potenti e dall’amaro più aggressivo. Nasce un nuovo stile, le American Pale Ale (APA) che stanno a indicare un certo gusto un po’ più bitter. Talmente bitter da scomparire dall’etichetta. Si equivalgono, in termini di grado d’amaro, alle IPA inglesi, ma non a quelle americane, con cui condividono invece il profilo aromatico. Merito dei luppoli americani, che esaltano ai massimi livelli, le caratteristiche organolettiche delle piante inglesi. C’è il boom (o la moda?) delle birre ultra-hopped, della APA che si confondono con le IPA, purché dentro ci sia Cascade e Amarillo, e alle birre inglesi resta l’anima del gusto bitter, l’eleganza dei suoi luppoli, la leggiadria del suo amaro.
Le APA/IPA conquistano i mercati europei e in un certo modo monopolizzano la produzione e i consumi dei bevitori di birra artigianale. La deriva modaiola sfiora il fanatismo, le AiPiei (spelling alla romana per IPA) sbancano. E le EiPiEi (spelling alla romana per APA) non sono da meno, tant’è che Opperbacco - birrificio teramano di cui ho parlato qui- ne produce una e la chiama proprio così, EiPiEi: la birra non mi convince, l’amaro troppo sulle righe, aggressivo, sovverte la scia di beva, apparendo caotico, disordinato, fuori posto. Mi rifaccio la bocca con la Bitter di Ridgeway - Camra says this is a Real Ale - malto Maris Otter e luppoli Challenger e Boadicea che donano raffinatezza ed eleganza. Mi convinco, forse preferisco le inglesi.
Poi bevo Yakima Red di Meantime. Luppoli dello stato di Washington per una birra inglese. C’è scritto in etichetta ovvero c’è scritto Yakima e io dovrei sapere che la Yakima Valley si trova nello stato di Washington, che da lì vengono i 5 luppoli utilizzati e qual è il loro profilo aromatico per non rimanere spiazzato dalla birra. Mi dovrei aspettare una sorta di APA, ma il grado alcolico è basso (4,4 % alc) e i malti sono quelli inglesi. E alla beva infatti non è un’APA, ma neanche una bitter inglese. Ed ora come la chiamo? American bitter?
E la Double Dog (Double Pale Ale) di Flying Dog - birrificio statunitense dalle mille colorate etichette - che cos’è? Una APA o già è un’IPA?
Sono un po’ confuso: sarà che tu vuò fa l’americano, come diceva Carosone, che gli americani sanno vendersi e che hanno puntato sulla potenza (come successe nel boom enologico di qualche anno fa) e che poi nessuno sa davvero una Pale Ale inglese o una IPA a cosa debba corrispondere?
Sugli stili birrai mi piace citare l’intervento di Marco Tyrser Pion sul suo blog: penso di non essere in grado di aggiungere altro.
Su queste parole chiudo e brindo.
Con una Summer Lightning di Hop Back Brewery.
Ecchissenefrega di quanto sia bitter.

Roberto Erro

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posted by Mauro Erro @ 00:20, ,


Le guerre della birra, il Reinheitsgebot e tutto quanto...

Beer street and Gin Lane, William Hogarth

Sull’Editto della Purezza (Reinheitsgebot) e sul contesto socio-economico della Baviera del 16° secolo in cui lo stesso vide la nascita, ho espresso le mie personali considerazioni in un recente articolo. Intendevo dire che la birra tedesca è buona, ma il merito non è del Reinheitsgebot.
Mi sono ignoti i motivi per cui, quando si parla della storia della birra, quella tedesca venga ad essere oggetto della discussione solo a partire dal 16° secolo e dalla promulgazione dell’Editto della Purezza nel 1516 (fatta eccezione agli accenni alla cultura brassicola monastica) e non si consideri come la birra venisse prodotta in quelle regioni probabilmente dal 1000 a.C.
Ai tempi dell’Editto della Purezza quindi si produceva birra in Germania da più di 2000 anni: il Reinheitsgebot segna uno spartiacque in quanto dal quel momento in poi le birre a bassa fermentazione iniziarono la loro ascesa fino a coprire attualmente più dei 2/3 del mercato tedesco. È doveroso ricordare però che all’inizio le lager (birre a bassa fermentazione) fossero scure e quindi completamente differenti da come le conosciamo noi oggi: ci vollero più di 200 anni e l’invenzione della refrigerazione, la diffusione del malto Pils, l’isolamento dei lieviti da bassa fermentazione e l’utilizzo di acque con minore durezza, a far sì che le lager fossero birre dalla gradazione cromatica e profilo organolettico vicini a quelli moderni.
Nella storia della birra tedesca quindi il rapporto di forza tra birre ad alta e a bassa fermentazione è sicuramente appannaggio delle prime, nonostante la produzione attuale. E sta in questa storia millenaria, nella tradizione e nella capacità di ri-adattarsi ai tempi, la qualità della birra tedesca oggi.


A partire dal 12° secolo (circa 400 anni prima del Reinheitsgebot), l’aristocrazia feudale, soprattutto nel sud della Germania, iniziò ad introdursi nel mercato della birra spiazzando la produzione monastica. I feudatari iniziarono ad aprire le proprie Hofbräuhaus (birrifici di corte) e a patto che si mostrassero caritatevoli - pagando ovviamente un’ingente tassa - potevano ricevere una licenza che li individuava come “birrifici secolari”, con risultati - in termini di birra prodotta - non sempre soddisfacenti. Nelle regioni a nord della Germania invece la storia fu scritta in altro modo: a partire dal tardo medioevo e fino all’inizio dell’era moderna, si rafforzò un’alleanza commerciale tra le città dell’Europa Settentrionale e che affacciavano sul mar Baltico, che decretò l’ascesa sociale di una classe mercantile in contrapposizione a quella nobiliare della struttura feudale. A differenza di quanto successe a sud, questa classe mercantile si confrontò con gli altri mercati e questo indusse uno sforzo in termini di ricerca, innovazione e qualità. La classe mercantile apprese quindi i segreti della produzione di birra e raggiunse i livelli monastici.
I birrai nel sud della Germania usavano orzo, frumento, riso, segale, ma anche piselli e fagioli; quanto al luppolo, erano note le sue capacità nella produzione di birra già dal 8° o 9° secolo, ma i birrai continuavano a utilizzare un’infuso di erbe e radici, ma anche sale, fuliggine o uova per migliorare le loro birre e coprire eventuali difetti. La qualità della birra cominciò a calare e con essa il consumo pro-capite. Federico I fu probabilmente uno dei primi a legiferare in materia: nel 1156, in seno al primo codice cittadino, il Justitia civitatis Augustensis sviluppato per la città di Augsburg, si sancì che “un birraio che produce birra cattiva o la prezza in maniera ingiusta verrà punito e la sua birra distrutta o distribuita gratis ai poveri”. La punizione era rappresentata da una multa di 5 fiorini e alla terza multa la licenza poteva essere sottratta. Nel 1293 (più di 200 anni prima del Reinheitsgebot), il consiglio cittadino di Nürnberg emanò un’ordinanza per cui era possibile nella produzione della birra, l’utilizzo di solo malto d’orzo. Nel 1351, nella città di Erfurt fu emanata un’ordinanza che limitava la produzione della birra a due cotte annue e sancì la regola per cui la vendita di birre alle città vicine doveva essere subordinata alle leggi e alle tassazioni vigenti nelle città di destinazione.
E ancora, già a partire dal 1250, quando la città di Regensburg ricevette da Federico II il privilegio di produrre birra, la produzione aumentò a dismisura a scapito della qualità fino a quando nel 1433, complice un disastro raccolto di frumento e orzo, fu consentita l’importazione di birra che era stata vietata nella città fino ad allora. 10 anni dopo però i raccolti furono di nuovo sufficienti per la produzione brassicola cittadina: la classe “dirigente” della città nominò il medico locale Konrad Megenwar come ispettore ufficiale di birra. Nel 1443 (73 anni prima del Reinheitsgebot) egli vietò l’utilizzo di semi, spezie e radici nella produzione di birra.
Nel frattempo a Dortmund la classe mercantile stava sempre più rafforzandosi: grazie al privilegio concessogli il 22 Agosto del 1293 dal Re Adolfo di Nassau, i birrai di Dortmund, che sedevano anche tra le fila del consiglio comunale, promulgarono differenti leggi cittadine che rendeva il privilegio concesso loro dal Re, un monopolio, operando un sistema di tassazione che favoriva i produttori locali danneggiando invece il mercato delle importazioni dalle regioni vicine. Le città di Münster, Bielefeld, Hamm e Minden si comportarono di conseguenza, bandendo le birre di Dortmund dai loro territori ed in più assoldarono mercenari per danneggiare le botti di birra prodotta a Dortmund. Si racconta che Dortmund fece lo stesso e che i suoi mercenari erano soliti finire il nemico annegandolo nella birra di cui era stato preposto a guardia. Nel 1472 i cittadini borghesi di Dortmund riuscirono a mantenere questo privilegio grazie ad una ordinanza cittadina e lo mantennero valido per l’intera regione fino agli inizi del 20° secolo, quando Dortmund contava 150 mila abitanti, 30 birrifici e rappresentava il centro di produzione brassicola più grande d’Europa.
Chissà che Guglielmo IV non stesse pensando agli avvenimenti di Dortmund e a tutte le leggi promulgate non solo nella città di Baviera anni addietro, quando sottoscrisse l’Editto della Purezza.

Più di 300 anni dopo quegli avvenimenti, in Baviera scoppiò un’altra guerra della birra. Fu a dire il vero più una rivolta popolare, a dimostrazione dell’importanza che la birra assumeva (e assume) nella cultura agricola tedesca. Riporto di seguito un’articolo apparso nel 1844 sulle pagine del The Northern Star, a firma di Fred Engels, quello che con Marx fu autore de Il Capitale.

La birra di Baviera è la più celebrata di tutte quelle prodotte in Germania e, di conseguenza, i bavaresi sono abituati a consumarne grosse quantità. Il governo ha appena aggiunto una tassa di 100s per birra e questo ha innescato una rivolta durata più di 4 giorni. I lavoratori riunitisi in grandi masse hanno sfilato per la strade, assalendo le taverne, fracassando le finestre, rompendo le attrezzature e distruggendo tutto ciò che era nel loro raggio d’azione, per vendicarsi contro l’aumento di prezzo della loro bevanda preferita. I militari si rifiutarono di montare a cavallo e caricare i rivoltosi. La polizia era invece ben più odiata dai lavoratori, più volte sconfitta e maltrattata dai rivoltosi. Solo grazie all’intermediazione dei militari, che da un lato condividevano i motivi della rivolta e caldeggiavano le azioni dei rivoltosi, dall’altra garantivano la sicurezza del palazzo reale, le stazioni di polizia non furono occupate. Il secondo giorno della rivolta (il 2 Maggio del 1844, ndr) il Re, che stava festeggiando un matrimonio in famiglia, fu preso ostaggio in un teatro insieme ai suoi illustri ospiti. La stampa francese (differentemente da quella tedesca, probabilmente editata sotto censura) scrive che il Re ordinò all’esercito di caricare la folla e che questa si rifiutò. In ogni caso, il Re fu obbligato a ridurre il prezzo della birra da 10 a 9 kreutzers grazie ad un’ordinanza. Se le persone hanno creduto di poter indurre il governo a modificare un sistema di tassazione, ben presto impareranno che possono fare lo stesso per questioni più importanti.

In conclusione, per chiarire ciò che forse è stato frainteso: oggi, la birra tedesca, in termini di stili e qualità prodotta, può dirsi una delle eccellenze mondiali, ma il merito non è dell’Editto di Purezza. I meriti sono in una storia secolare di un paese che più volte e a più riprese, secoli prima del Reinheitsgebot, ha tentato di regolamentare la produzione e vendita della birra, anche (o soprattutto) per interessi economici.
Ma è vero anche che la birra in Germania rifugge la semplice idea di appartenenza al mondo del beverage e storicamente assume connotazioni altre, di alimento, dell’alimento tedesco per antonomasia, più di quanto non faccia una qualsiasi altra pietanza.
Una rivolta popolare ce l’ha insegnato.

Roberto Erro
ah

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posted by Mauro Erro @ 09:27, ,


L'Editto della Purezza è una boiata


Ai tempi della Riforma Luterana, che spirò dalle terre mitteleuropee agli inizi del 16° secolo, il territorio noto come Ducato di Baviera si estendeva - da sud verso Nord - dalle alpi alla Franconia, per un’estensione minore di 40 Km quadrati. Il ducato di Baviera vide la luce grazie ad Alberto IV il Saggio e alla sua legge sulla primogenitura del 1806, in cui l’Alta e la Bassa Baviera (due regioni geograficamente divise dal corso del Danubio) vennero politicamente unificate. I due figli Ludovico X e Guglielmo IV ressero in comune il territorio fino alla loro morte avvenuta rispettivamente nel 1545 e 1550.
Si deve a loro due - ed in particolare a Guglielmo IV - ciò che è passato alla storia come Editto della Purezza (Reinheitsgebot). Promulgato nel 1485 per la sola città di Monaco, capitale di Baviera, l’Editto della Purezza venne sottoscritto il 23 Aprile 1516 in Ingolstadt e specificava che produzione di birra in tutta la Baviera era tassativamente vincolata dall'uso dei seguenti ingredienti: orzo, luppolo ed acqua (non si faceva cenno ai lieviti, che allora erano sconosciuti).
La critica birraria moderna vede nell’Editto della Purezza il primo tentativo di regolamentare la produzione della birra, preservandone la qualità. Ciò è minimamente vero. Furono molti e vari i motivi che indussero Guglielmo IV a queste azioni.
La Baviera è con l’eccezione della parte alpina, complessivamente una regione d’altopiano e di bassa montagna con una media di 400-600 metri sul livello del mare, in cui la popolazione era votata prevalentemente alle arti agricole. Anche successivamente la Baviera fu solo marginalmente interessata dalle Rivoluzioni Industriali, con lo sviluppo di piccole e medie imprese più adatte a territori prevalentemente agricoli per tradizione. Ancora oggi in Baviera rimane importante la coltivazione di orzo e luppolo (1/3 della produzione nazionale di birra).


Guarda, i signori e i prìncipi sono l'origine di ogni usura, d'ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell'acqua, degli uccelli dell'aria, degli alberi della terra. E poi fanno divulgare tra i poveri il comandamento di Dio: "Non rubare". Ma questo non vale per loro. Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente; ma per costoro, alla più piccola mancanza, c'è la forca.

Thomas, Müntzer, Confutazione ben fondata, 1524

La Baviera ereditava dal basso medioevo una struttura rurale straziata da grosse diseguaglianze civili ed economiche e con una tensione sociale che scoppiò, ben oltre la Baviera, nel 1525 con la Guerra dei Contadini. Trecentomila contadini insorti ed una rivolta che rifletté un malcontento che radicava le sue cause nelle strutture delle classi sociali in Germania e nelle loro mutue relazioni, che relegavano i contadini al più basso strato della scala, dopo i plebei.
In più in quegli anni i raccolti di frumento erano stati disastrosi, facendo aumentare la richiesta e conseguentemente i prezzi del grano, del pane e della birra. Produzione della birra che era saldamente nelle mani delle potenti corporazioni della classe media. La spinta a questa regolamentazione, con la sottoscrizione dell’Editto della Purezza, venne quindi a causa dei raccolti disastrosi di grano le cui basse rese soddisfavano a malapena la domanda del pane e con l’introduzione quindi dell’orzo come elemento obbligato nella produzione della birra. In più l’aumento dei prezzi, e il conseguente aumento del malcontento popolare, necessitava l’introduzione di un calmiere: il prezzo massimo per un maß (circa un litro) di birra era 2 Pfennig d'argento, tanto quanto 10 uova, quando ad esempio un pollo costava 4 Pfennig e un falegname guadagnava circa 24 Pfennig al giorno.
A difesa delle corporazioni invece, venne istituita a Monaco una commissione comunale al fine controllare la qualità ed l’igiene del processo produttivo. I produttori dovevano però anche prestare giuramento, non essere figli illegittimi e non aver compiuto adulterio. I sofisticatori di birra venivano regolarmente puniti. Guglielmo IV, concedendo il privilegio come una prerogativa speciale, riuscì anche nell’intento di conferire alla birra bavarese un marchio di qualità.
Nel corso dei secoli l’Editto della Purezza venne adottato da tutti gli stati tedeschi. Ancora oggi la "Biergesetz" (Legge per la Birra, ndr) tedesca, che regola a sua volta la produzione della birra in Germania, si basa fortemente sull’Editto della Purezza ed i produttori bavaresi non lesinano la affiliazione al Reinheitsgebot per intendere che la loro birra è buona.
Ma lo è davvero?
E poi, l’Editto della Purezza, cosa ha significato davvero?


1. Di per sé l’Editto della Purezza non è sinonimo di qualità. Anche l’Heineken è prodotta secondo l’Editto della Purezza.
2. Alcuni produttori di birra utilizzano additivi chimici tanto l’Editto della Purezza non lo vieta. Possibili i trattamenti pesticidi e fertilizzanti ai cereali e il trattamento delle acque prima del loro utilizzo.
3. L’Editto della Purezza ha inibito la spinta brassicola in termini di sperimentazione di nuovi stili. Considerando l’alto numero di birrifici presenti in Baviera, la varietà di stili di birra prodotti è irrisoria rispetto alle numerose tipologie di birra sviluppatesi in un territorio piccolo come il Belgio.
4. L’editto della Purezza era, per fortuna, una legge regionale e all’epoca la Baviera non comprendeva la Franconia e le città di Bamberga e Norimberga, i cui birrifici oggi rappresentano il 50% di quelli bavaresi. Il Reinheitsgebot fu esteso all’intera Germania solo nel 1906 come prerequisito per l’unificazione tedesca. Fu caldamente osteggiato dai birrai delle regioni a nord, perché lo intendevano, a giusta ragione, come un monopolio.
5. L’estensione dell’Editto della Purezza all’intero territorio tedesco ha decretato la morte di alcuni stili di birra tradizionali in altre regioni della Germania.

Motivi sufficienti, per quanto sopporta la mia pancia, per dire che in fondo l’Editto della Purezza è una boiata.
Se ne facciano una ragione i critici moderni.
Pazienza, morto un Buddha se ne fa un altro.

Roberto Erro

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posted by Mauro Erro @ 09:22, ,


Il vino (e il referendum) ai tempi di internet

tratta da Repubblica.it

Che sia stato un voto di pancia, v’è poco dubbio.
Poco meno di 30 milioni di Italiani sono andati alle urne. Dicono sia poco meno del 57%, ma in realtà il dato è concretamente più alto: ci sono gli infermi, gli invalidi, il sommerso degli abbandonati a se stessi, tutti quelli dove il digitale è un’illusione e il tg1 è un monopolio, i barboni.
Circa 30 milioni sono andati a votare.
Dopo Fukushima.
Dopo un silenzio assordante dei media tradizionali. Dopo che il web, divinità delle piccole cose, alfa e omega di una democrazia intellettuale tutta da rifondare, ha nei giorni precedenti la tornata referendaria, innescato un effetto domino delle coscienze. Tutti a votare sì. O almeno il 95% e oltre.
Un 95% a cui, secondo le stime fornite dallo speciale di Mentana su La7, ha contribuito una fetta consistente dell’elettorato di centro-destra, circa il 40%. Ha ragione Di Pietro quando afferma che questa del referendum non è una vittoria del centro-sinistra, ma degli Italiani tutti.
Italiani che hanno ascoltato (poco) le ragioni del sì e del no, ma che - soprattutto - hanno scelto canali di informazione altri. È finito il Berlusconismo perché è finita la televisione. Tra una Rai sull’orlo di una crisi di nervi ed una Mediaset asservita alle logiche del bunga bunga, l’unico vincitore è Dio Internet, senza limiti e senza fili.
Ma internet è un contenitore e gli Italiani di contenitori sbrilluccicanti ma privi di contenuti, ne hanno fin sopra i capelli. È passato il tempo del Drive-in e anche Striscia ha iniziato a stancare. Cosa è accaduto quindi?
Che gli Italiani hanno percepito i contenuti, hanno dato autorevolezza alle voci del web e alle informazioni condivise dal basso, screditando il Minzolini di turno.
Ci vogliono anni per costruire un impero e 5 minuti per distruggerlo.
La velocità con cui lo tsunami internet si sta abbattendo sulle nostre teste è impressionante.
Ma venendo ai fatti nostri, sta succedendo la stessa cosa per il mondo del vino?
Dico la mia.
Se per la birra artigianale la
partita in corso si gioca tutta sul web, essendo i canali tradizionali adoperati solo per la massiccia pubblicità dei colossi industriali, per il vino siamo indietro di molti pixel. Dopo la neo-rivoluzione 2.0 della critica enogastronomica, che forse ha portato sul web tanti contenuti quanto gossip, le guide continuano a farla da padrone, le riviste pure, i produttori appresso a loro, e i consumatori - eterni confusi tra un click e l’altro - che in fondo in fondo venerano la Dea Carta, perché ciò che è stampato su essa ha più valore di mille parole che scorrono a ritmo di mouse.
Parola di Maroni. Il guru, non il ministro che ha espresso 2 sì.
Ma poi, si domandavano i tipi di Intravino, c’è ancora qualcuno disposto a leggerlo?
Così è, se vi pare.
E quorum fu.

Roberto Erro

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posted by Mauro Erro @ 01:29, ,


Sulle birre acide: Oerbier di De Dolle Brouwers

Land of Cockaigne, Bruegel il vecchio


L’aceto (e quindi gli acetobacter) lo conoscete tutti.
Lo yogurt (e quindi i lactobacilli) pure.
Il Brettanomyces lo avrete incontrato più e più volte nelle vostre sempre più frequenti degustazioni di vino, nonostante nessuno vi abbia mai presentato.
Chi vi manca, forse, è il Pediococcus.
Insomma, anche se ci stiamo per addentrare in un discorso un po’ complicato - quello della fermentazione mista delle birre - potete tranquillizzarvi, perché in fondo, anche se non lo sapete, conoscete già tutto.
Si dice fermentazione mista quel processo per cui, avvenuta una “normale” fermentazione primaria ad alte temperature con inoculo del lievito, la birra subisce una serie di passaggi successivi ad opera degli organismi sopra citati il cui risultato è un aumento non tanto del grado alcolico quanto dell’acidità: si dice mista perché è appunto, alcolica e acida.
Questo tipo di fermentazione è tipico delle Flemish Sour Ale (Red Flemish Ale o Oud Bruin sono sinonimi), birre tipiche delle Fiandre belghe che ebbero massimo splendore tra il 16° e gli inizi del 19° secolo, prima che l’avvento delle lager (birre a bassa fermentazione) e dell’industrializzazione (leggi omologazione del gusto) ne decretò la quasi scomparsa.
La fermentazione mista è costituita da passaggi successivi ad opera e nei tempi del metabolismo dei differenti organismi implicati. Semplificando si può dire che:
- avvenuta la fermentazione primaria, il successivo passaggio è quello di una fermentazione lattica ad opera dei lactobacilli che dura da 2 a 18 settimane;
- segue una terza fermentazione in cui il Pediococcus produce a partire da zuccheri complessi (e quindi non fermentescibili) nuovi zuccheri semplici e da questi ancora acidità. All’attività del Pediococcus si sovrappone quella del Brettanomyces che, grazie alla nuova disponibilità zuccherina, inizia la sua lenta fermentazione che può durare fino a 6 mesi;
- gli elevati livelli di acidità prodotta (e la tensione di ossigeno che tende ad aumentare) inibiscono sia il Pediococcus che i Brettanomyces fino alla morte degli stessi. In questa fase finale una quarta fermentazione ad opera dell’Acetobacter degrada via via l’alcool con la produzione di acido acetico. Quest’ultima fermentazione viene arrestata quando il produttore ritiene opportuno tramite l’imbottigliamento (per riduzione della tensione di ossigeno).

De Dolle Brouwers

Il birrificio De Dolle si trova ad Esen, piccolo villaggio di 2000 anime nelle Fiandre Occidentali. Il suo primo edificio risale al 1835: il birrificio venne fondato da un medico, Louis Nevejan, che la gestì fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1882. Allora la proprietà passò alla famiglia Costenoble, che la gestì per tre generazioni fino al 1980 quando l’attività si interruppe.
Si deve al genio e alla caparbietà di Kris Herteleer la rinascita di un birrificio che oggi rappresenta una delle migliori espressioni della produzione brassicola belga: nel suo portfolio, ovviamente, una birra acida, l’Oerbier.

La Oerbier (che in fiammingo significa “originale”, “dalla fonte”) è una birra di 9 gradi alcolici prodotta in quantità limitata a partire (almeno nelle produzioni iniziali) da un blend di 6 tipi di malto, tre varietà di luppolo e aggiunta di zucchero candito. I risultati della fermentazione mista sono evidenti e si offrono come note aspre, acetiche, vinose, terrose e selvagge che, perfettamente in linea con lo stile, ricordano i tratti peculiari delle sour ale fiamminghe (vedi le birre prodotte dai tipi della Rodenbach - da cui il mastro birraio ha mutuato i lieviti per un bel po‘ di tempo). Eppure l’Orbier non si pone come semplice “fotocopia” delle più famose birre acide: differentemente dalla Rodenbach Grand Cru - il prototipo delle flemish ale - ma anche dalla Duchesse de Bourgogne, l’Oerbier si mostra meno docile, più rustica e spigolosa, cazzuta, presenti, ma non eccedenti le note dolci da malto e legno. Meno tonda sicuramente rispetto alle cugine cui siamo abituati, ma con una personalità da fare invidia e una innata capacità di sfidare il tempo, capacità che regalerà emozioni a chi avrà pazienza.
Chi ha già bevuto questa birra più volte ed in particolare i “millesimi” - non più in circolazione - pre-2000, avrà notato come il suo profilo organolettico sia cambiato: le ragioni di ciò le lascio ad una lettera datata tra il 2005 e il 2006 e già apparsa qui, scritta dal pugno del mastro birraio di De Dolle, Kris Herteleer.


Cosa è successo alla Oerbier dal 2000 in poi?

In quell’anno la nostra fonte di lieviti venne meno: i tipi della Rodenbach avevan deciso di non fornire più lieviti per motivi pratici o organizzativi. Ormai da decenni diversi birrifici si rifornivano da quelli della Rodenbach per i lieviti: i Trappisti di Westvleteren l’hanno usato per un po‘ prima di utilizzare quelli dei monaci di Westmalle per dei problemi avuti con spunti acidi nelle birre. [...]
I lieviti di Rodenbach sono speciali: contengono differenti tipi di batteri Gram + e Gram -, qualcuno dice anche Brettanomyces, mentre qualcun’altro nega, per paura che questo venga collegato alle loro birre. I mastri birrai sostengono che una birra non può essere “pulita” e al contempo “acida”, ed è per questo che questi lieviti non hanno nessun tipo di impiego nelle birre a bassa fermentazione.
Fornire i propri lieviti ad altri birrifici è un gesto di cavalleria o quanto meno di solidarietà: sanno che i piccoli birrifici non hanno gli strumenti necessari per coltivare i lieviti. Ma c’è anche un che di orgoglio nel dare i propri lieviti ad altri: se un birraio non ama le tue birre, certo non sarà interessato ai tuoi lieviti.
Gli americani dicono che il più grande onore per una birra è il tentativo di copia.
In ogni caso, la Rodenbach ci scrisse e ci avvisò che a partire dal Dicembre del 1999 non ci avrebbe dato più i suoi lieviti. [...] Feci delle prove: usai altri tipi di lieviti per la cotta di Oerbier, ma i risultati furono tutti poco convincenti. Pensai quindi che l’unica soluzione fosse quella di riutilizzare i vecchi lieviti, ma quello che successe ha del sorprendente:
- l’alcool della oerbier aumentò da 7.5% a 10.5%
- la rifermentazione ebbe ovviamente dei problemi dovuti all’alcol
- era cambiato anche equilibrio delle acidità. I batteri erano scomparsi: avevamo isolato un lievito puro e potentissimo.
[...] Mettemmo l’oerbier “special reserva” in botti di legno con l’intenzione di lasciarla lì per almeno 2 anni. Il tempo l’avrebbe solo potuta migliorare, credevamo. Ad oggi non una singola bottiglia di Oerbier è risultata cattiva. [...]
Nel frattempo stavamo studiando come si producevano le birre in Belgio e in Inghilterra nel 19 ° secolo ed eravamo interessati al metabolismo dei Lactobacilli, del Pediococcus e dei Brettanomyces. Grazie ad un ragazzo (probabilmente inviato dal cielo) che stava lavorando nel campo dei lactobacilli usati per il pane, riuscimmo ad installare un fermentatore per coltivare i lieviti, lieviti che avevamo ricavato da 8 vecchi kegs di Stille Nacht (altra birra prodotta da De Dolle che prevedeva i lieviti di Rodenbach per la rifermentazione, ndr) fatteci mandare indietro dagli Stati Uniti. I kegs erano molto vecchi e quindi la birra aveva il giusto e antico equilibrio di lieviti e batteri. Questa per noi non fu una semplice coincidenza. Ci mettemmo così a ri-coltivare quei lieviti.
Il sapore della Oerbier cambiò: era più secca e più pesante; anche l’equilibrio dei malti cambiò, perché la Malteria Huys chiuse i battenti. E così lavorammo anche su questo e per quanto riguarda gli spunti acidi, mettemmo in pratica quanto appreso dagli studi dei processi birrai del 19° secolo, ovvero aggiungere acidità ad una birra soprattutto grazie all’acidità lattica. [...]
Qual è stata la reazione dei consumatori? Innanzitutto se ne sono accorti tutti, ma molti di loro hanno apprezzato l’equilibrio giocato sull’acidità più che sulla dolcezza (mia madre preferiva le versioni più dolciastre. Dice che le servirà del tempo prima che si abitui alle nuove!!). In ogni caso, dobbiamo avere la libertà di essere piccoli produttori e fare ciò che crediamo debba essere una birra.
Ora la Oerbier è di 9 gradi alcolici (1.5 in più in confronto alle vecchie versioni) ed è anche più secca, per via dei lieviti più potenti. L’acidità è pressapoco la stessa.
Per quanto riguarda l’invecchiamento, non riesco ad immaginarmi nessun tipo di problema.

Roberto Erro
ah

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posted by Mauro Erro @ 00:54, ,


Non chiamate Ale tutte le birre ad alta fermentazione


Il termine Ale, con cui oggi erroneamente si intendono tutte le birre ad alta fermentazione, deriva dall’inglese antico alu, che in origine indicava birre non luppolate in contrapposizione alle continentali beer - caratteristicamente luppolate - che dal 15° secolo in poi iniziarono ad essere importate in Inghilterra.
Dall’inizio del 18° secolo in poi i birrifici inglesi aggiungevano un po’ di luppolo a tutte le birre prodotte, così che il termine ale stava ora ad indicare birre sì luppolate, ma non tanto quanto le beer. Nel 1773 l’Enciclopedia Britannica definiva il termine ale come “prodotto di fermentazione del malto che si differenzia dalle beer per il solo fatto di avere una quota consistentemente inferiore di luppolo”. Nel 18° secolo quindi i birrai inglesi usavano il luppolo come unico conservante, ma in proporzioni molto differenti tra le beer e le ale, con un rapporto di 4 a 1. La differenza tra le ale e le beer era in qualche modo definita anche in termini di legge: prima dell’Atto delle misure e dei pesi del 1819, a Londra una botte di beer era di 36 galloni, mentre per le ale era di soli 32 galloni.
La classificazione delle birre nell’Inghilterra vittoriana del 18° secolo quindi prevedeva questa grossa distinzione:

Beer (molto luppolate)
- Keeping beer - alcoliche, pensate per durare lunghi periodi (9-12 mesi):
a) March beer - brassata alla fine della finestra produttiva ideale
b) October beer - brassata all’inizio della finestra produttiva ideale
c) Amber keeping beer - brassata con malti amber
d) Butt beer - invecchiata in botte (butt). Le stout erano di questo tipo
- Small beer - poco alcoliche, ideali per il consumo immediato

Ale (poco luppolate, varie in potenza alcolica, ma sempre meno alcoliche delle versioni più forti delle Keeping beer. Venivano consumate appena avvenuta la chiarifica, dopo circa 3-4 mesi di sosta in botte.)
- Brown Ale
- Amber Ale
- Pale Ale

modificata da “London & Country brewer”, 1736

Fatte queste premesse appare chiaro come ciò che noi intendiamo oggi come Pale Ale ha poco o nulla a che fare con ciò che bevevano allora, che le Porter erano delle beer e non delle ale, perché molto luppolate, che tutte le varietà di ale diffuse in quel periodo in Inghilterra (Burton, Windsor, Dorchester) erano chiamate così perché poco o per nulla luppolate.
Ciò che succede in seguito, con la rivoluzione industriale e l’invenzione di strumenti che affinarono il processo produttivo della birra, quali il termometro e l’idrometro, è sostanzialmente una deriva semantica del termine ale. Tra la fine del 18° secolo e per tutto il 19° secolo, lo sviluppo della rete ferroviaria inglese e la crescente offerta di strumenti capaci di meccanizzare il processo produttivo, determinò un aumento dell’offerta destinato a soddisfare non solo il consumo nazionale, ma capace anche di sopportare la crescente domanda nelle colonie inglesi: si passa dai circa 400 mila ettolitri totali prodotti nella sola Londra nel 1750 ad oltre 1 milione di ettolitri nel 1782 per poi raddoppiare ancora nel 1823.
È necessario considerare il ruolo che ebbe Londra come capitale economica del mondo: l’aumento ragguardevole delle esportazioni verso i nuovi mercati tra cui l’India e le modifiche sociali che caratterizzarono il passaggio della città londinese dalla dimensione rurale e agricola fino a divenire città industriale. Le radicali trasformazioni sociali con l’urbanizzazione delle campagna, il crescere della popolazione cittadina, il formarsi di una nuova working class e una ridistribuzione - ancora molto iniqua - del denaro, determinarono considerevoli cambiamenti nella vita quotidiana della città e con essa del modo di mangiare e bere. Non ultimi si modificarono i termini che a queste attività facevano riferimento. Nacquero o si delinearono stili di birra così come li conosciamo oggi.


Londra, 1800

Nel 1880 nella Cyclopaedia of practical receipts and collateral information in the arts si legge: “le numerose tipologie di birre in commercio possono essere in due grosse famiglie, le Ale e le Porter, essendo le prime generalmente di colore ambrato, mentre le seconde molto più scure grazie all’uso di malti tostati”. Allo stesso modo l’Oxford English Dictionary nel 1884 definiva le ale come tutte birre che avessero colore chiaro.
Facendo un ulteriore salto temporale, siamo nel 1926, H.W. Fowler, nel Dictionary of Modern English Usage, afferma come ormai i termini beer e ale siano interscambiabili, avendo perso quindi ogni riferimento al significato primitivo circa la luppolatura.
Martyn Cornell, degustatore e storico delle birre inglesi, ci offre un ottimo esempio per capire quanto detto fin’ora. Immaginate di intendere le 2 famiglie di birre esistenti in Inghilterra nel 18° secolo - le ale e le beer - come due fiumi che scorrono parallelamente, il primo dei quali costituito da birre inizialmente non luppolate e negli anni via via sempre più luppolate. Da questo fiume - quello delle ale - deriveranno le mild e le old ale, mentre dal secondo - quello delle beer - stout e porter. Nel tempo, con la pratica di luppolare più o meno consistentemente tutte le birre, questi due fiumi si sono avvicinati fino ad un punto di sovrapposizione, le pale ale, poco luppolate nel 18° secolo e più consistentemente luppolate nel 19°, dopo il successo delle Pale Ale preparate per il mercato indiano, con quote maggiori di luppolo in modo da “sopportare” il lungo viaggio fino ai porti indiani.

Nel 19° secolo quindi una grossolana classificazione delle birre prodotte a Londra prevedeva una distinzione dovuta maggiormente al colore e in misura minore alla luppolatura ed è in questo periodo che si crea la confusione semantica di cui oggi, ereditiamo, le conseguenze terminologiche.
Si commercializzavano infatti in Inghilterra:
- le bitter beer (pesantemente luppolate, di colore bruno-ambrato). I produttori iniziarono però ad inserire in questa categoria le Pale Ale (di colore quindi più chiaro) prodotte per il mercato indiano e quindi abbastanza luppolate da fuoriuscire da quella che il secolo precedente veniva etichettata come la famiglia delle ale
- le ale: continuavano ad essere così definite le birre poco luppolate e sopravvivono ai giorni nostri come mild e old ale
- le porter: pesantemente luppolate, alcoliche e scurissime grazie all’impiego massiccio di malti tostati.
Questa grossa distinzione rende conto del fatto di come mai avete sentito parlare di una porter come di una ale, anche se rappresenta un esempio di alta fermentazione: nel corso del tempo il termine beer scomparve per essere assorbito dal termine ale. Le bitter e le pale ale identificavano la stessa categoria di birra, differenziandosi eventualmente per il colore, mentre le India Pale Ale iniziarono ad essere identificate come la versione extra-hopped (ultra-luppolate, ndr). Nel tempo, con la nuova capacità di utilizzare acque meno dure e quindi quote minori di malti tostati, le bitter e le pale ale conversero anche sul colore, indicando il termine brown ale le versioni più scure.
Questa storia rende conto del perché le birre al alta fermentazione di Dusseldorf si chiamino altbier e non alt-ale; questa storia ci spiega perchè oggi una mild ale è poco luppolata, mentre la pale ale no e così via.
Insomma, smettetela di chiamare una qualsiasi alta fermentazione di un qualsiasi paese, una ale.
O raccontatemi i motivi per cui, oggi, ale significa birra ad alta fermentazione.
Con buona pace dell’ottimo Michael Jackson.

Roberto Erro
ah

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posted by Mauro Erro @ 00:45, ,






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