POLIPHEMO 2009 LUIGI TECCE

Che il millesimo 2009 non sia stato facile per nessuno, a Taurasi, lo dimostra il fatto stesso che alcuni produttori (a dir il vero non poi tantissimi) abbiano deciso di non produrlo.
Che i vini di Luigi Tecce non siano particolarmente adatti agli assaggi in batteria, consumati nell'arco di pochi minuti (quando non addirittura secondi...) è pure cosa nota, sono la stragrande maggioranza dei giornalisti a dirlo. 
Eppure sabato scorso a Serino, in occasione di Vendemmia Taurasi, dove si presentavano i campioni, appunto, dell'annata 2009, con chiunque, o quasi, abbia avuto modo di scambiare due parole sul vino di Luigi mi sentivo ripetere sempre le stesse parole. "Hai visto come era strano (?) il vino di Tecce, ma a te è piaciuto ?!", altri in maniera più diretta e secca, direi categorica, si spingevano oltre con affermazioni del tipo "quest'anno il vino di Luigi non mi ha proprio convinto !", i cauti, invece, si limitavano ad un decisamente più diplomatico "quest'anno il Poliphemo non l'ho capito..." . 
Fin qui la cronaca, o almeno un tentativo di raccontare gli umori raccolti intorno a questo vino subito dopo la sessione di degustazione. Adesso mi domando e dico: queste sono reazioni che potrei aspettarmi e mi aspetterei da dei semplici appassionati non troppo smaliziati ma sicuramente non da operatori della stampa specializzati attenti, preparati e "quotati", come la maggior parte dei presenti alla manifestazione. 
Il commento più interessante l'ho ascoltato al buffet dove un produttore irpino (al 90% bianchista), seduto al mio tavolo, mi faceva notare: "il vino di Luigi l'ho già assaggiato tre volte ed ogni volta l'ho trovato diverso, o meglio, ci ho trovato ogni volta qualcosa di diverso...". Ecco un prima vera illuminazione che mi vede finalmente concorde e convinto di non essere, forse, un pazzo folle né il solito bastian contrario per partito preso o, tantomeno, l'unico presuntuoso che crede di capirci qualcosa, nel pensare che il 2009 Taurasi Poliphemo di Luigi Tecce sia un grandissimo vino, ennesima prova riuscita di un genio sensibile e ribelle. "Diverso dai precedenti ?" 
Certo ! 
Ma non è quello che un qualunque vino che rispetti la diversità d'ogni vendemmia dovrebbe sempre essere e non è quello che qualunque degustatore che si rispetti dovrebbe sempre pretendere. E, poi, diciamocela tutta, non è vero che sia così "diverso" dai precedenti. 
I vini di Luigi, tutti, non sono mai leggibili e decifrabili quando ancora freschi d'imbottigliamento ed a mala pena pronti per andare in commercio. Lo stile è quello, strabordante e un po’ arruffato, riservato e sfacciato, contraddittorio, di sempre. I suoi vini hanno bisogno di vetro e di tempo per affinarsi e ritrovare il dettaglio e gli equilibri necessari. Nel Poliphemo, nomen omen, c'è di tutto di più, tantissima roba, forse troppa (?)... La stratificazione è schiacciata al punto tale da risultare confusa e disordinata. 
Ed è questa bagarre anarchica di profumi ed aromi a disorientare più d'ogni altra cosa chi si avvicina a quel bicchiere. Gli strati (nel mio caso le emozioni) si sovrappongo e si comprimono fino a diventare, in questo momento, difficilmente separabili e, soprattutto, distinguibili. I fiori scuri, così fitti fino a risultare carnosi, masticabili, il frutto, ciliegia e amarena, sotto spirito, le ondate balsamiche (veri e propri cavalloni), le sottili infiltrazioni minerali e gli stordimenti speziati. 
Certo qualcuno si starà chiedendo a me chi me lo dice che il tempo rimetterà tutto a posto, in ordine, e se così non fosse ?! Beh allora vorrà dire che almeno Luigi ci avrà provato, avrà avuto ancora una volta il coraggio di osare e di sfidare l'ovvio, lo scontato, il convenzionale, cosa che non possiamo dire, ahimè, di molti suoi colleghi... E, se non altro, avrà avuto il merito (o il demerito.. ) di far muovere d'istinto, almeno al sottoscritto, ancora una volta, la penna e l'immaginazione !

Foto di Mauro Erro

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posted by Mauro Erro @ 13:24, ,


Nerello dell'Etna: uno, nessuno, centomila

Palmento, Etna, Azienda Biondi

Dall'inizio di quest'anno ho deciso di concentrarmi sui vini dell'Etna per cercare di capirne qualcosina in più. Da qualche tempo, ormai, si parla sempre più insistentemente dei vini rossi di questa denominazione come il nuovo paradiso per tutti gli appassionati (ma anche perché no, produttori) di vino. Paragoni spesso impegnativi sono stati spesi per descrivere alcune delle più emozionanti bottiglie degustate. Tra i riferimenti più ricorrenti sicuramente quello che più mi è capitato di sentire, io stesso sono stato il primo ad abusarne, è quello con il pinot nero e più nello specifico con la Borgogna. Parlando, però, con chi di Borgogna davvero ne capisce, il nostro Magister (al secolo Giancarlo Marino, n.d.r.) giusto per fare un esempio, ti accorgi subito, già dallo sguardo (compassionevole), prima ancora di una vera e propria risposta, delle mille perplessità che circondano questa ipotesi tanto affascinante quanto azzardata. Un dubbio, allora, mi assale e mi rendo conto che forse i vini dell'Etna sono il fenomeno enologico più sopravvalutato di tutta la penisola. A corollario di quanto esposto ti arriva, poi, il (solito) Mauro (Erro) a sollevare, qualora ne sentissi il bisogno, un ulteriore interrogativo accessorio, non da poco, il classico domandone da un milione di dollari. Questi vini arrivano sul mercato mediamente a due, tre anni dalla vendemmia (eccezione Calabretta ma sul cui stile c'è poco, a mio parere, da stare a discutere: ossidativo duro e puro, nel senso più nobile del termine, ovviamente) e penso che davvero in pochi abbiamo avuto modo di testare bottiglie con venti e passa anni sulle spalle (per quelle poche che potrebbero reperirsi in circolazione). Ci sarebbe, ancora, da analizzare e distinguere tra i diversi territori ma anche in questo caso siamo lontani anni luce da un attendibile classificazione alla francese ma anche da una semplice individuazione sistematica, più o meno storicizzata, come avvenuto in Langa. Stabilire quali siano le contrade grand cru o, almeno, quelle che potrebbero aspirare semplicemente alla dignità di cru e via dicendo, mi sembra, allo stato dell'arte, un lavoro se non del tutto improbabile, comunque, poco attendibile. Ho citato la terra del nebbiolo ed è questo un altro vitigno a cui non di rado il rosso etneo è stato accostato. Io, scusatemi se mi ripeto, è dall'inizio di quest'anno, che sto cercando di assaggiare quanta più roba possibile, partendo dalle ultime annate fino ad andare a ritroso quanto più possibile attingendo alla mia cantina e alle occasioni che mi si presentano. Brancolo nel buio. La mia conclusione è che c'è tanta, troppa confusione per cercare di fare un po' d'ordine. Per tutta una serie di variabili che è facile immaginare. Diversa esposizione, altimetria, sistema d'allevamento (che non sempre è l'alberello come si pensa) età d'impianto delle vigne. Soprattutto il diverso stile produttivo da cantina a cantina, con differenze talvolta rilevanti, sul risultato espressivo che si vuole raggiungere. Alla fine dei giochi, però, io una mia conclusione provvisoria l'ho raggiunta in attesa di essere smentito. Da giovane il nerello assomiglia, effettivamente, ad alcuni pinot della Borgogna, una Borgogna minore mi verrebbe da sottolineare... Certo è che nonostante la forte corrispondenza di sensazioni anche nelle migliori interpretazioni rimane piuttosto lontano dalle vette borgognone ma anche da alcuni semplici "village" dove il manico può fare la differenza e che differenza... Il profilo olfattivo di piccoli frutti rossi, fresco floreale ed insistente mineralità, avaro di tannino, o se preferite generoso di tannini già risolti, abbinato ad una scalpitante acidità gioca un ruolo determinante in questo parallelo di eleganza e beva trascinante. Col trascorrere degli anni, anche pochi anni, subito si nota, tuttavia, un primissima divergenza evolutiva. Il Nerello etneo tende velocemente a terziarizzare al naso pur conservando al palato buona freschezza e succo. Il profilo vira, repentinamente, verso un ventaglio aromatico più speziato, fenolico e balsamico avvicinandosi sempre più al nebbiolo piemontese. Anche la tenuta a bottiglia aperta rivela, non di rado, una simile progressione piuttosto brusca e sbrigativa. Insomma un vino-vitigno dalle due facce e due velocità. Questo atteggiamento non può che indurmi a sospettare sulla longevità presunta ed attesa di alcune etichette. Cautela è d'obbligo!

Fabio Cimmino
ah

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posted by Mauro Erro @ 09:06, ,


Che brutta razza questi degustatori...

Contestualizzare o decontestualizzare: questo è il dilemma!

Ultimamente mi ritrovo continuamente a dibattere su un' annosa e per molti diventata, ormai, noiosa questione. Quando valuto un vino devo contestualizzare o decontestualizzare?! Se non altro per dare un senso al mestiere (non retribuito sia ben chiaro) di noi degustatori. Andiamo un attimo ad esaminare quali sono gli eventuali fattori di (de)contestualizzazione oggettivi e soggettivi, e quanto i primi possano considerarsi tali o meno senza sollevare obiezioni.

Fattori (potenzialmente) oggettivi:
- Metro di valutazione (scala centesimale, ventesimale, chiocciole, altro): possiamo considerarlo parametro uniforme a meno che non si voglia soggettivarne l'impiego. Della serie Tizio non sa come si usa la tal scala, Caio addirittura l'ha trasformata a proprio uso e consumo. Mi fermo qui.
- Lo stesso identico vino: dobbiamo solo trovarci nello stesso tempo e nello stesso luogo a bere dalla stessa bottiglia. Cambia il lotto? Fregato! Non sai come la bottiglia è stata conservata? Fregato! Oggi il tuo palato o quello del tuo collega non sono sintonizzati oppure uno dei due non è in giornata (può capitare e come se capita)? Fregato!
- Denominazione, forte e/o debole: su questo potremmo facilmente trovarci d'accordo. Un Brunello non è un Lambrusco. Contestualizzare in questo caso è d'obbligo.

Fattori soggettivi (mi scateno..).
- Esperienza del degustatore: ma quanti vini ha bevuto Tizio nella sua vita?! E quali?! Di quella denominazione, poi? Di quel produttore, invece? E quanti millesimi negli ultimi vent'anni (giusto per darci un possibile e credibile limite temporale) di quella stessa denominazione, di quello stesso o altri produttori?!
- Istruzione del degustatore: Tizio non ha mai aperto un libro sul vino, figurarsi su quella tale denominazione piuttosto che su quel determinato territorio. Caio rabbrividisce di fronte ad un testo di chimica o di geologia. Storia e geografia un ricordo delle elementari. Tizio non ha mai sfogliato un manuale di degustazione neanche per pura curiosità. Caio le riviste le sfoglia e basta, e per di più quelle sbagliate... Tizio legge solo i blog primi in classifica, internet è la sua bibbia. Caio non legge e basta...
- Formazione del degustatore: c'è chi ha avuto un cattivo maestro, chi ha avuto un eccellente maestro, chi un maestro non lo ha mai avuto... Il più pericoloso è proprio lui: l'autodidatta. Il percorso formativo di ciascun degustatore è e rimane fondamentale. A che punto siamo, come ci siamo arrivati e dove stiamo andando?! Cosa beviamo tutti i giorni da persone "normali" e non da degustatori. Cosa ci piace o ci piacerebbe bere tutti i giorni.
- Talento del degustatore: merce rara. Ne conosco davvero pochi ed io, per inciso, non mi considero tra questi. Il talento in ogni caso va coltivato, leggi allenato. Non significa essere infallibili, anzi i più talentuosi spesso quando sbagliano rischiano di farla davvero grossa
- Forma psico-fisica del degustatore: vi sarete resi conto che ci vuole poco a far sballare i fattori oggettivi (rileggi sopra alla voce fattori oggettivi/stesso identico vino) basta, infatti, anche solo questo a cambiare la prospettiva per vedersi rimbalzare e ribaltata la questione...: "Ma io e Tizio siamo sicuri che stiamo degustando lo stesso vino...?"
- Gusto personale del degustatore: inutile girarci intorno perché per quanto uno possa sforzarsi di mantenere il massimo della obiettività alla fine darà più peso a taluni parametri piuttosto che altri. Non è sempre e solo una questione di buona o di cattiva fede, di essere schierati o meno, ma dipende il più delle volte (siamo ottimisti) anche solo dalla propria sensibilità personale. Non mi riferisco, solo, al percorso formativo di cui sopra. L'acido, il salato l'amaro, il dolce (lasciamo perdere l'umami...), l'alcol non li percepiamo tutti allo stesso modo, si tratta di un limite fisiologico scientificamente provato che influenzerà in modo determinante e decisivo il nostro giudizio a seconda della valenza che diamo ad ognuna di queste sensazioni.

Come dice il mio amico Mauro (Erro), ma allora di che cavolo stiamo parlando?

Aria fritta?! (Magister docet)

Fabio Cimmino

P.S. Chiedo scusa a Tizio e Caio ma pure a Mauro ed il Magister per averli tirati in ballo...
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posted by Mauro Erro @ 07:56, ,


Missione Inaki Aizpitarte

foto tratta da scattidigusto.it

Ci sono due cose che non sopporto.
- La gente che mi dice che sembro un vecchio perché esco poco, rifuggo la mondanità e non amo i luoghi particolarmente affollati. Ero così già a vent'anni quando evitavo le discoteche e gli eventi di piazza, già allora mi accusavano di senilità precoce, figuratevi adesso che ho 40 anni.
- La gente che mi dice che è una cosa impossibile quando può essere solo semplicemente complicata o difficile.
Lo Chateaubriand di Inaki Aiziparte mi ha messo di fronte ad entrambe.

Luogo iperaffollato e trendy. Mangiare per soli 50 euro i piatti di un famoso chef stellato non è una cosa solita.
Aperto solo la sera, con prenotazioni praticamente all'infinito: "impossibile" improvvisare!
Devo elaborare un piano.
A pochi metri dallo Chateubriand c'è Le Dauphin, il bistrot che, invece, apre anche a pranzo. La tattica è la seguente: arrivare presto a Le Dauphin, qui la prenotazione non è d'obbligo, sedermi ad un tavolo, fare amicizia con uno (oppure una, meglio) degli addetti al servizio e farmi raccomandare per un tavolo la sera.
Sabato mattina: Parigi, Avenue Parmentier. Mi assicuro che alle 12.30 ci sia un posto apparecchiato al banco-bar de le dauphin per mangiare qualcosina, scegliere più vini al bicchiere per accompagnare le portate e, raggiungere il giusto stato d'animo.

Eccomi seduto a spulciare menu e carta dei vini. Nel frattempo si siede accanto a me una giornalista o blogger, presumo, o semplicemente un’appassionata, che non smetterà di prendere appunti per tutta l'ora seguente, durante la durata del pranzo. Carina. La lascio alle sue note ed evito di importunarla. Ogni tanto tento di sbirciare i suoi fogli, mi sembra che scriva in inglese, ma il suo aspetto è chiaramente d'impronta mediterranea. Forse americana (U.S.A.), ma di qualche origine italiana (o America latina?!), mi piace pensare che sia così...
Il menu prevede due primi e due secondi, poca cosa. Vorrebbe, forse, essere solo un’anteprima di quello che si può assaggiare allo Chateubriand? Per capire, insomma, se insistere o lasciar perdere? No, non proprio. Uno dei due primi ed uno dei due secondi sono piatti “creativi” o comunque, anche se attinti dalla tradizione, completamente rivisitati, talvolta, fino ad essere stravolti. Gli altri due sono dei piatti classici di più facile lettura ed approccio. Scegliere tra quest'ultima categoria ti farebbe quasi arrivare alla conclusione che te ne potevi rimanere comodamente a casa, scegliere tra la categoria “creativi” potrebbe lasciarti un po' troppo spiazzato. Evitate, in ogni caso, se ci capitate, di provare tutto, perché alla fine vi costa lo stesso o di più dello Chateaubriand e non ne vale assolutamente la pena.
Nel frattempo comincio a chiedere come fare per imbucarmi per la cena a Le Chateaubriand. Mi dicono che uno dei ragazzi in sala fa il doppio servizio, spostandosi di sera all'altro locale. Cerco di lavorarmelo. Ecco che scopro che c'è un secondo turno in cui non c'è bisogno di una vera e propria prenotazione. Non capisco bene, ma mi fido. Mi dice di arrivare alle 21.30 ed io, puntuale, mi presento a quell'ora.
Lo spettacolo che mi trovo davanti è devastante: i tavoli sono tutti pieni, ancora i prenotati “ufficiali” del primo turno, mentre lungo il bancone bar sono assiepate almeno una trentina di persone, che diventeranno poco a poco sempre di più, fino a raggiungere il numero massimo dei settanta coperti che può ospitare il locale. Sbevazzano e schiamazzano festosamente. Vedo il ragazzo dell'ora di pranzo servire ai tavoli, gli lancio uno sguardo e lui parla con chi si occupa di gestire il flusso del secondo turno. Devo aspettare. Non meno di 40 minuti. Ma, man mano che il tempo passa, comincio a capirci qualcosa in più. La tentazione di dileguarmi è forte. Poi mi dico: ma che sono davvero diventato un vecchio brontolone noioso, ma che ca..o ho da fare tutta la serata? Chiedo un bianco della Loira al bicchiere senza scegliere produttore o etichetta, tanto a pranzo a Le Dauphin la carta dei vini l'avevo già ampiamente testata: c'è solo roba buona. Il bianco, pur senza entusiasmare, mi conferma la sensazione positiva di una selezione intelligente ed abbastanza centrata. Comincio a guardarmi intorno. Ci sono molti giovani, l'atmosfera è allegra, belle ragazze, un clima decisamente diverso dai soliti stellati che si può essere abituati a frequentare o ad immaginare. Ormai ho deciso, rimango.
Nel frattempo si iniziano a liberare i tavoli del primo turno e cominciano a prendere posto quelli del secondo, in ordine di arrivo. Un signore di chiare origini asiatiche fa il pazzo perché non aveva capito che il secondo turno funzionasse così. Le sue proteste non servono a nulla: viene invitato a calmarsi e a bere qualcosina; i parenti e gli amici che sono con lui, lo convincono a farsene una ragione. Io cerco, invano, l'imbucata. Si libera un tavolo per quattro, ma loro sono solo in tre, "yankees". Chiedo di occupare il quarto posto libero promettendo che non darò alcun fastidio, tanto il menù è uguale per tutti ed il vino ognuno lo sceglie da sé e paga il suo. Niente da fare, mi dicono che forse li raggiungerà un amico. Prima di andar via, alla fine dei giochi, lancerò una sbirciatina al loro tavolo e, se non sarà arrivato nessuno, probabilmente sarò tentato di andargli incontro e fargli una sparata. Fortunatamente desisterò: perché rovinarsi la serata?...Stì americani...

Passa ancora una mezz'ora. Sono ormai trascorse da un po’ le 23.00, finalmente si libera un tavolo tutto per me. Mi si avvicinano con la carta dei vini e mi chiedono se ho qualche intolleranza. Capirò solo dopo. Essendo un menu fisso, se si ha qualche intolleranza, sono previste delle portate di riserva. Un consiglio: se riuscite a dare un'occhiata al menu prima di sedervi a tavola e notate che qualche portata proprio non vi piace, dite che siete intolleranti, potrebbe succedere che l'alternativa sia di vostro maggiore gradimento (lo so, sono il solito napoletano).
Scelgo il Pinot Nero di Binner, Alsazia biodinamica, si rivelerà una grande boccia sia da sola che nei successivi, ripetuti, abbinamenti ai piatti. Il servizio della bottiglia non è dei più ortodossi: travasato velocemente in un decanter, viene tappato con una mano e brutalmente centrifugato, metodo barbaro, ma efficace: la carbonica scompare, il vino si apre. Tavola spartana e servizio decisamente informale in linea con lo stile del locale. Voglio solo sottolineare che a Parigi spendere 50 euro per una cena (vini esclusi) è quasi la regola. Quindi che Le Chateaubriand sia uno stellato molto atipico, c'è da aspettarselo.
I piatti come a le dauphin si alternano tra sperimentazione, anche molto spinta, e classici molto lineari, corretti, ben eseguiti. Porzioni giustamente minimaliste. Alcune combinazioni sono sconvolgenti, accostamenti di sapori che al solo pensiero mi fanno storcere il naso, ma che una volta sulla lingua convincono per l'insospettabile armonia d'insieme, vera e propria sinfonia di sapori. I piatti più semplici, talvolta, rischiano l'anonimato, ma è la freschezza delle materie prime a fare la differenza. Penso che, in ogni caso, si tratti di una giusta alternanza per andare incontro ai gusti di tutti. Qui c'è gente nor-ma-le, tanta bella gioventù, in cerca, sì, di un'esperienza diversa ed originale, ma, anche, anzi soprattutto, di trascorre una piacevole serata.
Mettersi, quindi, a disquisire o confrontare il giudizio sui singoli piatti di Inaki mi sembra piuttosto improbabile: molti piatti vengono cambiati ed il menu aggiornato continuamente, quindi, mangiare le stesse cose diventa coincidenza rara. Il giudizio d'insieme rimane molto positivo. Sono stato bene! Questo conta.
Insomma, alla fine, 50 euro spesi più che bene, andarci almeno una volta nella vita, anche se si è solo di passaggio a Parigi, ne vale sicuramente la pena.

Fabio Cimmino
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posted by Mauro Erro @ 00:27, ,


Modena o Parigi? Che la "Verita-S”tia a Napoli ?

Dopo qualche anno che mi interessavo attivamente al vino, partecipando a degustazioni su degustazioni, valutando vini e sparando sentenze (e cazzate) varie, ebbi la malaugurata idea di iniziare a girare per i ristoranti e recensirli. Ho sempre pensato che, per essere dei critici affidabili nel campo della ristorazione, si debbano avere caratteristiche ben diverse da quelle di un degustatore di vini. Probabilmente mi sbaglio. O allora vorrà dire che mia moglie è l'eccezione che conferma la regola. Mi spiego, se avete la pazienza di leggermi sino in fondo.

Il vino abbisogna di studio e conoscenze, tante. Molto spesso sembra quasi che un assaggiatore sia allo stesso tempo un agronomo, un enologo, un geologo, deve saperne un minimo di geografia e di storia. In realtà un bravo degustatore dovrebbe almeno avere un’ infarinatura di tutte queste materie. Dunque, assaggi tanti, ma anche tante letture di approfondimento e momenti di confronto, a 360°, con operatori del settore. Capire se uno chef sappia cucinare o meno, se sia bravo o meno, secondo me richiede altre doti, molto più saldamente legate al proprio vissuto. Sicuro di attirarmi critiche (ma anche di molto peggio, fate pure), non ho paura di confermare la mia convinzione che se sei cresciuto a “sofficini” e “4 salti in padella” difficilmente, anche con tutto l'impegno e la pratica possibile, potrai diventare un intenditore di cucina. I sapori ed il gusto si sedimentano nel corso degli anni. Si presuppone che, a meno che uno non sia miliardario, passeranno un bel po' di anni prima che tu possa iniziare a frequentare certi ristoranti. Col vino è leggermente diverso. Fino ad una certa età te lo fanno solo assaggiare, in occasione delle feste o per qualche accadimento speciale. A 18 anni tendi ad un bere meno consapevole e disincantato (perifrasi iperbolica degna di nobel per la letteratura) poi, per una via o per un'altra, ti appassioni al vino in maniera sempre più seria e cronica, raggiungendo e (spesso) oltrepassando i confini del fanatismo. Non puoi perderti una degustazione, un vino, una serata, devi provare di tutto di più, altrimenti stai male...
Girare per ristoranti richiede tempo innanzitutto, sei tu a muoverti, non è la bottiglia a venire da te (a meno che non ti chiami Maometto...). Ed a meno che non lo fai per professione esclusiva, oppure non hai una cippa da fare, il tutto diventa molto più complicato. Ma diciamo che, seppure rientri in una delle prime due categorie (aggiungo che devi trovarti un lauto finanziatore-editore o avere il portafoglio gonfio), più di 600/700 ristoranti in un anno non potrai mai visitarli (2 al giorno, tutti i giorni !!!) . Secondo me è più realistico pensare a circa 300/400. Un degustatore di vino anche semplice, ma accanito appassionato (il sottoscritto come molti altri che conosco), può arrivare tranquillamente, senza esagerare, a 2000 etichette all'anno. Se degusta per una guida o per una rivista di settore penso che questi numeri possano diventare notevolmente più importanti e la forbice tra degustatore di vini e critico gastronomico tende ancora ulteriormente ad allargarsi. Senza dimenticare il fattore economico: una boccia da 1000 euro la puoi sempre dividere con gli amici, una cena o un pranzo non proprio...
Se pensate che sia per questo che ho deciso di non dedicarmi più a scrivere di ristoranti, siete, però, fuori strada; l'ho fatto perché ho capito ben presto che gli chef sono molto più permalosi e presuntuosi dei vigneron, quindi, meglio starne alla larga. Nel frattempo mi sono perso…

Cosa c'entra mia moglie? Beh, lei è una di quelle che ne capisce di cucina perché ha avuto la fortuna, da sempre, di mangiare bene, fin da bambina, lo stesso, più o meno, dicasi per il sottoscritto. Non parlo di semplice cucina casalinga, alla buona, ma di materie prime eccellenti, freschissime; ricette della tradizione e non, eseguite magistralmente, innanzitutto con amore, senza l'autoreferenziale cerebralità di alcuni piatti stellati. Per intenderci se va da Gennarino (Esposito, Torre del Saracino, Vico Equense) e da Don Alfonso (Don Alfonso 1890 , Sant’Agata sui due Golfi) e ti dice che le piace più il primo piatto del secondo, te lo sa motivare con dovizia di dettagli e di efficaci osservazioni, senza bisogno di una terminologia tecnica e, soprattutto, senza ricorrere alla banalità del gusto personale (ed in questo è anche più affidabile di molti critici che, invece, al gusto personale ricorrono spesso e volentieri per giustificare le proprie improbabili scelte). Ed anche da grandi, io e Rosangela, abbiamo cercato di non perdere le buone abitudini. Solo prodotti di qualità estrema, preparati nella maniera più semplice possibile. Se usciamo per andare al ristorante ne deve valere, davvero, la pena. Vogliamo vivere un'esperienza diversa ed appagante. Ci sono quasi, non vi preoccupate, non vi arrendete...

In questi primi quattro mesi dell'anno ho girato un po' di ristoranti e vorrei soffermarmi su tre di loro in particolare: Massimo Bottura (Osteria La Francescana di Modena), Inaki Aizpitarte (Le Chateubriand e Les Fleurs a Parigi) e Gianluca D'Agostino (Veritas di Napoli). Il primo mi ha detto che non capivo il panino con la mortadella sifonata perché sono campano (suppongo, allora, che lui non potrà mai capire la mozzarella di bufala campana ?!), ma rimane il numero uno in Italia, con 150 euro (vini esclusi) e con la sua cucina fai un viaggio oltre i confini dell'ignoto, ne vale, sempre e comunque, le pena (io non sono permaloso, almeno non tanto...).
Il secondo gestisce un locale trendissimo a Parigi, strapieno di gente e frequentato da bellissime ragazze (bonus): con soli 50 euro (vini esclusi) mangi in uno stellato e ti passa la paura (le critiche che ho letto da più parti mi sembrano ingenerose, ma ci tornerò presto con un racconto più dettagliato).
Gianluca D'Agostino invece? Chi era costui?
Io e mia moglie abbiamo trascorso una piacevolissima serata, mangiato discretamente bene, bevuto una bella bottiglia (io) e pagato il giusto (peccato solo che il menù sia piuttosto limitato: dopo che ci sei tornato due volte rischi che non ti rimanga altro da provare, ma per il momento va bene così, un passo alla volta è meglio del passo più lungo della gamba).

Se pensate, adesso, che il titolo fosse esageratamente e dichiaratamente provocatorio, ci avete preso solo in parte.

Fabio Cimmino


Dopo le polemiche per le premiazioni del 50 best restaurant's di San Pellegrino; letti gli interventi di Vizzari, Bonilli e Andrea Petrini, ho chiesto a Fabio di dirmi il suo punto di vista e spero che presto ci invii il racconto dell'esperienze più "fresche", Chateubriand innanzitutto.

Al di là delle inflessioni nel proprio vissuto, non mi pare che il succo del discorso sia molto lontano da quello di Petrini che potete leggere qui. Non voglio entrare nel merito della classifica, dei parametri adottati, credo sia poco interessante stabilire con il misurino chi sia meglio di chi o di cosa secondo un linguaggio condiviso che via via si adegua nel tempo.
Si è sempre abituati a trattare il cibo (e il vino) in maniera molto autoreferenziale e il web è perfetto strumento di risonanza in questo. Ci si dimentica, invece, che cibo (e vino) sono legati ed espressioni delle nostre abitudini e costumi, talvolta le suggeriscono, altre volte si adeguano. In seguito alla crisi mondiale stanno cambiando le nostre abitudini, noi, si sovvertono valori e principi. Avviene anche nel mondo dell'enogastronomia.
Noi i cambiamenti preferiamo capirli cercando poi di gestirli, piuttosto che subirli. (m.e.)
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posted by Mauro Erro @ 08:15, ,


Consigli per lo stappo: Spatlese 2008

L'ardesia dell'Altenberg, foto tratta dal sito Enodelirio

Ultimamente ho ripreso a bere un po' di riesling. E' arrivata la primavera, presto ci troveremo catapultati nell'estate. Ed il Riesling tedesco rimane, durante la stagione, un porto sicuro dove approdare. Eppure nutrivo qualche perplessità personale originata da un progressivo, lento, disamoramento per la tipologia. Una sensazione che mi ha confermato anche Mauro (Erro nda). Mi diceva che di recente non riusciva a berne più tanto come prima, almeno con la stessa voglia. Calo di desiderio che io ho iniziato ad avvertire con l'apertura delle prime bottiglie. Ho attaccato subito con degli auslese 2008. Lo so: un infanticidio. Scelta, però, per me, obbligata. Sempre meglio allontanarsi dai 2009 "torcibudella" in fieri ed evitare di sacrificare bottiglie più vecchie, probabilmente più pronte ma di cui ho minore disponibilità di cantina. Quattro produttori diversi, tre della Mosella (per la cronaca Jos.Prum, Fritz Haag e Von Othegraven) ed uno, probabilmente il più sereno, delicato ed elegante, della Ruwer (sempre per la cronaca Karthauserhof). Vini, come da premessa, ancora molto, troppo, giovani, carichi di zuccheri e generosi d'acidità viperine. Piuttosto squilibrati, o meglio scomposti, difficili da mandare giù con quella facilità che contraddistingue, o dovrebbe, i teutonici riesling. Dopo qualche giorno mi sono fermato, meglio lasciar perdere. In mezzo a tutti quegli auslese faceva capolino un Spatlese 2008, l'Altenberg Grosse Gewachs (Grand Cru se vi suona più familiare) di Von Othegraven. E mi sono detto: ho fatto 30 facciamo 31 così le ho tirato il collo. La bottiglia è letteralmente svanita dalla mia tavola prima ancora che avessi finito, o forse iniziato.., di cenare. Nei ricordi del mattino dopo ho anche avuto il dubbio di essermici attaccato a canna o di essermela, più semplicemente, sognata... Fortunatamente il vuoto era ancora lì, in cucina. Estate 2011, spatlese 2008.

Fabio Cimmino
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posted by Mauro Erro @ 14:17, ,


L'archetipo del vero Taurasi

"Io sono così come sono, nel bene e nel male."
Carlito Brigante

In ordine sparso.

Coincidenza cosmica. Mi piace assai quest'espressione anche se può apparire esagerata ed inappropriata. L'altra sera decido di stappare la ...esima bottiglia di Taurasi Riserva 1997 Etichetta Bianca di Mastroberardino. Nonostante ne abbia ancora in cantina preferisco continuare a conservarle e le compro in un piccolo bar-enoteca che mi dice di averne prenotate un numero indefinito alla Mastroberardino, ma che preferisce farle rimanere da loro in cantina, ritirandole un po' alla volta. Mi pare una saggia idea. La stessa sera rivedo per la ...esima volta Carlito's Way. Per me uno dei più grandi film di sempre. Adoro Al Pacino con tutta la coda polemica che, ogni volta, segue alla visione di un suo film, sotto le coperte con mia moglie. Lei schierata dalla parte Robert De Niro, io per il mitico interprete di Scarface. Un modo per fare la pace, tanto poi, lo si trova sempre... ;-)

La trattoria di provincia. Qualche anno fa mi trovavo in una nota trattoria della provincia di Napoli. Il vecchio proprietario mi disse che aveva solo due vini. Uno sfuso prodotto da lui e la Riserva 1997 Etcihetta Bianca di Mastro. Era anche l'unico vino in bottiglia che bevesse che non fosse il suo. Mi sono chiesto, già allora: ci sarà un motivo?

Vino artigianale e vino industriale. Non c'è dubbio che Mastroberardino possa essere considerata a tutti gli effetti una cantina industriale. E allora ?! La sua Etichetta Bianca 1997 ha tutte le caratteristiche di una bottiglia artigianale. Innanzitutto non è facile trovarne una bottiglia uguale ad un'altra. Complice, sicuramente, il trascorrere del tempo che sembra agire su ogni singola bottiglia con risultati disomogenei ed altalenanti ma sempre sopra la media. Ed anche per quella strana alchimia che è timbro caratteristico e distintivo dei grandi vini. Questo non fa eccezione.

Curva evolutiva. A che punto è il vino? Le ultime due bottiglie che ho stappato mi hanno regalato sensazioni molto differenti. La prima ancora molto giovane, dal colore delicatamente scarico, vivo e trasparente, contratta nel suo incedere al naso, fresca ed astringente nella risoluzione al palato. Direi più o meno all'apice organolettico della sua curva evolutiva. La seconda, l'ultima, quella dell'altra sera, decisamente più evoluta, fin dal colore più cupo e denso. Direi già in una fase discendente, decadente nel senso più nobile del termine. Che volete da me, sarò "necrofilo", "sarcofago" (licenze poetiche, non mi correggere Mauro...) ma mi è, comunque, piaciuta molto e l'ho bevuta, ugualmente, con grande soddisfazione.

Chiosa: istruzioni per l'uso. Cercate di procurarvene una bottiglia (20-25 euro in enoteca) e comprate oppure noleggiate il dvd di Carlito's Way. Provate e fatemi sapere.

Fabio Cimmino
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posted by Mauro Erro @ 10:41, ,


A.A.A. cercasi termine italiano per tradurre l'anglofono "wine-scouting"

Prendo spunto dall'ultimo brillante post di Mauro sulla lingua italiana per lanciare un appello a tutti i saggi e colti bevitori che frequentano questo ed altri enoici blog.

Ci pensavo mentre dibattevo all'arma bianca sul tema della "scoperta".

Che cosa significa scoprire un vino... Secondo alcuni trattasi di "una boiata"...

Non per il sottoscritto almeno nei termini che intendo io.

Sono d'accordo che "nessuno va in giro per le campagne a casaccio a cercare la novità come si cercano i funghi e c’è sempre una dritta, un’occasione, una coincidenza, un passaparola scatenante" ma se la prima parte di siffatta sentenza può apparire scontata, la seconda non lo è assolutamente
o, almeno per me, lo è molto meno.

E' una "boiata", forse, identificare la scoperta con il meccanismo che sopra ho ricordato virgolettato. Questo sì. Dilemma: se vado a mangiare in un trattoria abruzzese e l'oste mi indica una cantina dove fanno un ottimo trebbiano che conosce solo lui , vado l'assaggio penso che effettivamente mi trovo di fronte ad un grande vino, lo propongo all'attenzione di colleghi, esperti e qualche guida... e , caso
mai, quello diventa pure produttore italiano dell'anno... ho fatto una scoperta oppure la scoperta l'ha fatta l'oste ?

Impostata in questi termini mi sembra la famosa questione dell'uovo e la gallina...

Quello su cui dovremmo soffermarci, invece, è cosa intendiamo per "scoperta". E qui torna ancora una volta in gioco la lingua italiana ma non solo. Lo scienziato pure non scopre nulla. Partendo da un'intuizione (che ci sia di mezzo il caso o la fortuna poco importa, l'intuizione l'ha pur sempre
avuta oppure no?) si limita a spiegare quelli che sono dei fenomeni naturali. Così, a mio, parere un degustatore di rango riconosce quando lo incontra sulla sua strada il grande vino (aggiungo, anche senza andare, per forza, in pellegrinaggio sul territorio).

Un degustatore di rango,...però!

Non il degustatore medio che mi fa tanto di mediocre o semplicemente pensa di essere un degustatore ma non sa neanche cosa voglia dire farlo in modo serio e "professionale".

Non uno dei tanti per intenderci, io parlo di quello con la marcia in più, che non hanno bisogno "di dritte, concidenze o passaparola".

E' quello che scopre il grande vino attraverso un approccio profondamente sistematico (di bevute, innanzitutto, ma anche e, soprattutto, di studio) a vitigni e territori, una metodicità condita ed esaltata dalla propria sensibilità personale. Il degustatore, ad un certo livello, deve avere una
dota innata, la famosa aurea di cui si discuteva anni fa sul forum della rivista Porthos, quell'intuzione, assolutamente, non comune a tutti.

Che poi un abbaglio, una svista, una "toppata" clamorosa la possano prendere tutti, anche i "maestri" o presunti tali, è pacifico, scontato, umano.

Io, in questo senso, preferisco da sempre parlare di wine-scouting ma ancora non ho trovato il termine italiano che possa rendere, con lo stesso dono della sintesi, il senso prefettamente uguale.

I suggerimenti sono benvenuti. Le critiche pure.
Ma nel frattempo non mancate di farci pervenire le vostre ultime "scoperte"...

Fabio Cimmino
a

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posted by Mauro Erro @ 11:15, ,


La gioia del vino

Più so e più so di non sapere. Più penso di capire, più penso di non aver capito. Qualche anno fa ero intenzionato a diventare il più grande esperto di vini campani. Poi mi sono reso conto che non ci sarei potuto mai riuscire. Al di là delle limitate capacità personali (di tempo e di palato), per un semplice motivo. Stavo scoprendo Barolo, Brunello, il Pinot Nero e la Borgogna, il Riesling e la Mosella. No, non avrei mai potuto rinunciare a tutto quel ben di dio. Non potevo rimanere concentrato esclusivamente sui vini della mia regione e rinunciare a colmare la mia sete (in senso letterale e non) di conoscere e cercare di approfondire tutto il resto. Disperdersi e naufragare nel vino "altro". La gioia della scoperta, ogni giorno nuova, ogni giorno inaspettata. Una conferma dalla mia ultima, ennesima, trasferta parigina. Già la prima sera dal mio amico Armand, in uno dei miei ristoranti preferiti, tra i più carini ed accoglienti della Butte aux Cailles, nel 13° arrondissment. In realtà, a pensarci bene, non era la prima sera, il giorno prima avevo sbevazzato allegramente e con una certa soddisfazione (da cui forse l'amnesia) tra Les Fleurs (a pranzo) e Le Chateaubriand (la sera, dopo un' estenuante fila) i due locali del momento, entrambi sotto la direzione dello chef basco Inaki Aizpitarte. Il Bugey-Cerdon di Bottex, un delizioso ma non ben identificato, Touraine rouge base gamay, il Morgon di Foillard e per chiudere, in bellezza, dopo l'intermezzo-aperitivo con uno Cheverny blanc della Loira, una splendida bottiglia di Pinot Nero alsaziano, millesimo 2008, di Binner. Arrivo la sera dopo con voglia di Borgogna dal mio amico Armand che mi dissuade da un costoso Chambolle e, dopo avermi fatto assaggiare il Quincy di Rouzè (Sauv Blanc) ed l'Irancy (Pinot Noir) di Cantin, si convince a stapparmi il 1er Cru La Fussiere, mirabilis annata 2005, di Marc Bouthenet. Mi assicura che sarà più accessibile non solo nel prezzo ma anche nella beva, anche se ancora giovane pure questo, rispetto allo Chambolle che volevo "infanticidizzare" (neologismo con copyright). Appelation, per me, sconosciuta, Maranges è stata una rivelazione. Un vino duro che farebbe storcere il naso ed ancor più le papille all'amico Roberto*. Quanta bellezza ci può essere, però, nella durezza scolpita nel dna di un rosso come questo. Durezza che significa solidità, compostezza (a modo suo, ovviamente), rigidità non fine a se stessa. Il naso non è monolitico, ma vive, nel trascorrere dei minuti, regalando le vibrazioni necessarie a non far calare mai l'attenzione o perdere l'interesse. Anzi ti costringe a ritornare continuamente al bicchiere ed immergerci le narici nella speranza di coglierne nuove sfumature e sensazioni. Ed ogni volta, anche in minima parte, sempre ripagati da quel gesto. Al palato scorre scontroso, sì, proprio così, acido e fresco, verticale e profondo. Qualcuno parlerebbe di stratificazione, in perfetta corrispondenza e sintonia, aggiungo io, tra naso e bocca. La bottiglia finisce, il sogno no. Arriva subito dopo una bottiglia di Armagnac di fini anni ottanta, o forse primi novanta, "basta che siano passati almeno 15 anni" mi spiega Armand. I giorni successivi continuano le bevute, le serate, le scoperte. I vini biodinamici serviti al Tandem (altro incantevole bistrot della Butte) con produttori che, quasi tutti, hanno rinunciato alle loro appelation. VDT, vini da tavola, con nomi curiosi ed etichette stravaganti. He-ho, uvaggio bianco ed improbabile, quanto acido e nervoso, della Loria, Les Tetes de Chats, pinot nero, a pieno titolo, di Borgogna, dallo stile beverino e audace. Ogni tanto capita anche qualche bottiglia meno fortunata ed interessante, ma quando si cerca di provare cose sempre nuove ci può stare, è normale. Fino all'ultimo giorno sono stato tentato di tornare da Armand a comprare un po' di bottiglie di quel Maranges. Per portarle in Italia e riassaggiarlo, semmai, insieme a qualche amico Recchia**. Per condividerla con le persone a cui voglio bene. Perché alla fine altrimenti che senso avrebbe tutto questo. Ho desistito. Troppa la paura di rimanere deluso e rovinare quello splendido ricordo (oppure semplicemente quel "film" che mi ero fatto). Ma appena rientrato a Napoli ero già pentito di quella mia non scelta. Non si può rovinare un ricordo. Ed eccomi alla ricerca dei recapiti del produttore per vedere di procurarmene qualche cassa. Penso ad Armand, così come tanti altri personaggi della Butte (Pascal dell'Avant Gout Cote Cellier giusto per fare un altro nome) che ho incontrato e continuo ad incrociare nel mio peregrinare. Mi hanno aiutato a trovare un'altra conferma: si può fare a meno di facebook e dei tanti blog vinosi perché la gioia della scoperta quando la vivi per strada e sulla tua pelle ha decisamente tutto un altro gusto.

Fabio Cimmino

*Roberto Erro
**Mauro Erro & Giancarlo Marino
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posted by Mauro Erro @ 11:02, ,






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