CARO AMICO (TI) SCRIVO
mercoledì 18 gennaio 2012

Caro Mauro,
come avrai notato un po’ di tempo è passato dalla mia ultima visita su questo blog, come autore/coautore con il poliedrico Polini, ma vari eventi accaduti nell’ultimo anno mi hanno allontanato da questo piacevolissimo diletto.
Molte potrebbero essere le motivazioni da addurre per giustificare questa sosta forzata, ma quella che ritengo più valida è legata al fatto che credo che una persona non debba scrivere se non quando abbia davvero qualche cosa che valga la pena scrivere. Ed io, sinceramente, in questi mesi, nonostante qualche idea e qualche spunto abbozzato ed abbandonato in non so quale pen drive, non avevo molto da trasmettere, da commentare e soprattutto da condividere. Questo è sempre stato lo spirito che mi ha animato: condivisione di informazioni, di sensazioni, di pensieri, ma anche di semplici indirizzi o appunti. Tutte le volte che Gianluca ed io abbiamo qui scritto, lo abbiamo fatto per proporre le nostre esperienze a chi aveva il piacere o, quanto meno, la pazienza di leggere. Ed è per questo che, a parte a qualche svarione grammaticale che sempre può sfuggire, ogni volta che abbiamo iniziato a mettere le dita sulla tastiera abbiamo prima pensato, ponderato, considerato e soprattutto studiato e valutato le fonti, anche quando le informazioni che davamo erano autorevoli, poiché provenienti dagli stesso mastri birrai. Sì, perché se qualcuno se ne fosse dimenticato o si fosse distratto, qui è di birra che si parla. Il problema nasce quando si passa dal parlare allo sparlare, quando si raggiunge quell’overdose di informazione che, al posto di incrementare l’interesse del fruitore, lo porta ad una nausea da abuso.
Pur non scrivendo di birra, in questi mesi, ho continuato a leggere nel web sulla birra, ma mi sono trovato sempre più costretto a dover effettuare screening molto restrittivi per poter discernere tra l’informazione e la bufala, per capire se si trattava di sensazionale scoperta (di birrificio, di prodotto, di sapiente utilizzo di materia prima o ancora di tecnica brassicola) o solo mera, ma massiva, operazione di marketing. Si parla di Rinascimento della Birra Artigianale Italiana quando ancora molti, compresi alcuni “esperti” del settore, vivono in un medioevo nozionistico e per giunta errato.
Qui non è in discussione la realtà produttiva artigianale nazionale, ma le informazioni che circolano su di essa e sul mondo della birra in generale. La crescita del movimento italiano è un dato di fatto, ma per poter favorire ulteriormente il suo sviluppo e far uscire la birra definitivamente dal suo status di prodotto di nicchia è necessario continuare a coinvolgere le persone, ad accendere le loro curiosità, ma soprattutto ad educarle e formarle al piacere della bevuta senza mai cadere in facili populismi, in imposizioni di etichette e di mode e, soprattutto, senza mai diffondere informazioni grossolanamente sbagliate solo per poi vantarsi di averlo detto/scritto per primi.
Chiunque è in grado e, soprattutto, libero di scrivere, ma è importante che lo faccia con cognizione di causa e consapevole del fatto che un suo parere, una sua considerazione e una sua informazione può forviare tanti neofiti che da poco hanno fatto capolino in questo fantastico mondo.
Eppure, con l’andazzo degli ultimi tempi la birra artigianale sta diventando schiava di se stessa e dei clichè che le stanno appiccicando addosso. Non è vero che tutta la birra artigianale è buona: ci sono in giro dei prodotti di livello mediocre e talune birre sono addirittura improponibili. Se ogni prodotto che esce viene sempre e soltanto elogiato, un giovane bevitore quando si troverà a bere quel prodotto, peraltro non apprezzandolo, crederà che quello è il livello delle “buone” birre artigianali provocando uno sgradevolissimo effetto domino verso altri neofiti. Se si continua a dire che solo Tizio o Caio producono ottimi prodotti i nuovi discepoli di Gambrinus cercheranno in maniera spasmodica sempre e soltanto quelli senza nemmeno preoccuparsi di sapere se, nel raggio di qualche decina di chilometri da casa loro, esista un birrificio che valga la pena di essere visitato. E’ giusto sperimentare, ma è impensabile che ogni birra prodotta con l’utilizzo di qualche materia prima autoctona di supporto debba per forza essere bucolicamente idilliaca.
Così come sarebbe opportuno e giusto informare tutti quelli che vorrebbero fare i mastri birrai , che la birra non è fatta solo di malto, luppolo e Co., ma purtroppo anche di autorizzazioni, accise, lotte con i fornitori, logistica e pubbliche relazioni.
Lo stesso discorso potrebbe estendersi alle informazioni presenti sul web in merito alla produzione brassicola internazionale. Che senso ha parlare di IPA o AiPiEi - altrimenti qualcuno non capisce di cosa stiamo parlando - dall’IBU improponibile, quando molti non sanno ancora cosa significhi IPA e IBU. Impazza il Vintage, ma, a parte pochi illuminati, molti publicans corrono il rischio di riempirsi la cantina di prodotti che nel tempo troveranno la morte organolettica. Ci si dedica a fare pronostici su quale stile impazzerà nel corso dell’anno, ma ancora oggi mi cadono le braccia sentendo o leggendo di doppio malto.
Spero quindi che l’anno che verrà (e che è già iniziato) porti prima di tutto un poco di buon senso e, soprattutto, ridia un minimo di etica e coscienza professionale a chi le recensioni le fa per mestiere, avendo più rispetto per chi, come me, si ritaglia qualche minuto nel corso della giornata alla ricerca di qualche notizia brassicola che meriti di essere letta e che possa poi trasformarsi in una birra che meriti di essere bevuta.
Francesco Immediata
Caro Francesco, queste tue considerazioni non mi stupiscono, perché questi argomenti, quelli che riguardano l’informazione e il livello di approssimazione di coloro deputati a svolgere questo ruolo, sono vecchi quanto e più l’invenzione della stampa di Gutenberg.
Quanto al movimento della birra artigianale italiana e all’ambiente posso renderti partecipe di alcune considerazioni frutto della mia recente esperienza al servizio della nuova Guida delle birre di Slow Food dove ho notato il riproporsi dei soliti cliché già visti, in passato, in un ambiente a me più familiare come quello del vino. Mode, conflittualità, approssimazione sia in chi produce sia in chi racconta, sono passaggi, step, attraverso cui bisogna passare in un processo in cui pian piano si accresce sempre più la propria consapevolezza. Uno stile riproposto all’infinito o un luppolo neozelandese a me ricordano le discussioni che un tempo si facevano intorno la barrique. È normale che sia così.
Ma c’è di che essere ottimisti per due ordine di motivi: il primo riguarda la forma. La gran parte dell’informazione brassicola oggi si svolge sul web dando l’opportunità di una maggiore interazione, di un continuo vaglio critico da parte del lettore che sempre deve essere sollecitato all’intervento anche quando ci si trova davanti all’esperto o sedicente tale. Molto meglio di un’informazione calata dall’alto e dell’ipse dixit.
Il secondo, invece, attiene ai contenuti: la moda, se proprio vogliamo chiamarla così, sta avvicinando a questa bevanda e questo movimento tanti giovani talenti, appassionati curiosi che viaggiano e si specializzano, degustatori competenti e penne brillanti.
Loro, voi, sarete il futuro. Per cui si può star tranquilli e avere pazienza ché l’orizzonte sarà sempre più sereno. (me)
foto tratta dal blog La via dei Fatti - Aforisma
ah
come avrai notato un po’ di tempo è passato dalla mia ultima visita su questo blog, come autore/coautore con il poliedrico Polini, ma vari eventi accaduti nell’ultimo anno mi hanno allontanato da questo piacevolissimo diletto.
Molte potrebbero essere le motivazioni da addurre per giustificare questa sosta forzata, ma quella che ritengo più valida è legata al fatto che credo che una persona non debba scrivere se non quando abbia davvero qualche cosa che valga la pena scrivere. Ed io, sinceramente, in questi mesi, nonostante qualche idea e qualche spunto abbozzato ed abbandonato in non so quale pen drive, non avevo molto da trasmettere, da commentare e soprattutto da condividere. Questo è sempre stato lo spirito che mi ha animato: condivisione di informazioni, di sensazioni, di pensieri, ma anche di semplici indirizzi o appunti. Tutte le volte che Gianluca ed io abbiamo qui scritto, lo abbiamo fatto per proporre le nostre esperienze a chi aveva il piacere o, quanto meno, la pazienza di leggere. Ed è per questo che, a parte a qualche svarione grammaticale che sempre può sfuggire, ogni volta che abbiamo iniziato a mettere le dita sulla tastiera abbiamo prima pensato, ponderato, considerato e soprattutto studiato e valutato le fonti, anche quando le informazioni che davamo erano autorevoli, poiché provenienti dagli stesso mastri birrai. Sì, perché se qualcuno se ne fosse dimenticato o si fosse distratto, qui è di birra che si parla. Il problema nasce quando si passa dal parlare allo sparlare, quando si raggiunge quell’overdose di informazione che, al posto di incrementare l’interesse del fruitore, lo porta ad una nausea da abuso.
Pur non scrivendo di birra, in questi mesi, ho continuato a leggere nel web sulla birra, ma mi sono trovato sempre più costretto a dover effettuare screening molto restrittivi per poter discernere tra l’informazione e la bufala, per capire se si trattava di sensazionale scoperta (di birrificio, di prodotto, di sapiente utilizzo di materia prima o ancora di tecnica brassicola) o solo mera, ma massiva, operazione di marketing. Si parla di Rinascimento della Birra Artigianale Italiana quando ancora molti, compresi alcuni “esperti” del settore, vivono in un medioevo nozionistico e per giunta errato.
Qui non è in discussione la realtà produttiva artigianale nazionale, ma le informazioni che circolano su di essa e sul mondo della birra in generale. La crescita del movimento italiano è un dato di fatto, ma per poter favorire ulteriormente il suo sviluppo e far uscire la birra definitivamente dal suo status di prodotto di nicchia è necessario continuare a coinvolgere le persone, ad accendere le loro curiosità, ma soprattutto ad educarle e formarle al piacere della bevuta senza mai cadere in facili populismi, in imposizioni di etichette e di mode e, soprattutto, senza mai diffondere informazioni grossolanamente sbagliate solo per poi vantarsi di averlo detto/scritto per primi.
Chiunque è in grado e, soprattutto, libero di scrivere, ma è importante che lo faccia con cognizione di causa e consapevole del fatto che un suo parere, una sua considerazione e una sua informazione può forviare tanti neofiti che da poco hanno fatto capolino in questo fantastico mondo.
Eppure, con l’andazzo degli ultimi tempi la birra artigianale sta diventando schiava di se stessa e dei clichè che le stanno appiccicando addosso. Non è vero che tutta la birra artigianale è buona: ci sono in giro dei prodotti di livello mediocre e talune birre sono addirittura improponibili. Se ogni prodotto che esce viene sempre e soltanto elogiato, un giovane bevitore quando si troverà a bere quel prodotto, peraltro non apprezzandolo, crederà che quello è il livello delle “buone” birre artigianali provocando uno sgradevolissimo effetto domino verso altri neofiti. Se si continua a dire che solo Tizio o Caio producono ottimi prodotti i nuovi discepoli di Gambrinus cercheranno in maniera spasmodica sempre e soltanto quelli senza nemmeno preoccuparsi di sapere se, nel raggio di qualche decina di chilometri da casa loro, esista un birrificio che valga la pena di essere visitato. E’ giusto sperimentare, ma è impensabile che ogni birra prodotta con l’utilizzo di qualche materia prima autoctona di supporto debba per forza essere bucolicamente idilliaca.
Così come sarebbe opportuno e giusto informare tutti quelli che vorrebbero fare i mastri birrai , che la birra non è fatta solo di malto, luppolo e Co., ma purtroppo anche di autorizzazioni, accise, lotte con i fornitori, logistica e pubbliche relazioni.
Lo stesso discorso potrebbe estendersi alle informazioni presenti sul web in merito alla produzione brassicola internazionale. Che senso ha parlare di IPA o AiPiEi - altrimenti qualcuno non capisce di cosa stiamo parlando - dall’IBU improponibile, quando molti non sanno ancora cosa significhi IPA e IBU. Impazza il Vintage, ma, a parte pochi illuminati, molti publicans corrono il rischio di riempirsi la cantina di prodotti che nel tempo troveranno la morte organolettica. Ci si dedica a fare pronostici su quale stile impazzerà nel corso dell’anno, ma ancora oggi mi cadono le braccia sentendo o leggendo di doppio malto.
Spero quindi che l’anno che verrà (e che è già iniziato) porti prima di tutto un poco di buon senso e, soprattutto, ridia un minimo di etica e coscienza professionale a chi le recensioni le fa per mestiere, avendo più rispetto per chi, come me, si ritaglia qualche minuto nel corso della giornata alla ricerca di qualche notizia brassicola che meriti di essere letta e che possa poi trasformarsi in una birra che meriti di essere bevuta.
Francesco Immediata
Caro Francesco, queste tue considerazioni non mi stupiscono, perché questi argomenti, quelli che riguardano l’informazione e il livello di approssimazione di coloro deputati a svolgere questo ruolo, sono vecchi quanto e più l’invenzione della stampa di Gutenberg.
Quanto al movimento della birra artigianale italiana e all’ambiente posso renderti partecipe di alcune considerazioni frutto della mia recente esperienza al servizio della nuova Guida delle birre di Slow Food dove ho notato il riproporsi dei soliti cliché già visti, in passato, in un ambiente a me più familiare come quello del vino. Mode, conflittualità, approssimazione sia in chi produce sia in chi racconta, sono passaggi, step, attraverso cui bisogna passare in un processo in cui pian piano si accresce sempre più la propria consapevolezza. Uno stile riproposto all’infinito o un luppolo neozelandese a me ricordano le discussioni che un tempo si facevano intorno la barrique. È normale che sia così.
Ma c’è di che essere ottimisti per due ordine di motivi: il primo riguarda la forma. La gran parte dell’informazione brassicola oggi si svolge sul web dando l’opportunità di una maggiore interazione, di un continuo vaglio critico da parte del lettore che sempre deve essere sollecitato all’intervento anche quando ci si trova davanti all’esperto o sedicente tale. Molto meglio di un’informazione calata dall’alto e dell’ipse dixit.
Il secondo, invece, attiene ai contenuti: la moda, se proprio vogliamo chiamarla così, sta avvicinando a questa bevanda e questo movimento tanti giovani talenti, appassionati curiosi che viaggiano e si specializzano, degustatori competenti e penne brillanti.
Loro, voi, sarete il futuro. Per cui si può star tranquilli e avere pazienza ché l’orizzonte sarà sempre più sereno. (me)
foto tratta dal blog La via dei Fatti - Aforisma
ah
Etichette: Francesco Immediata e Gianluca Polini
posted by Mauro Erro @ 17:28,
,
I.E.D.S. - Imperial extra double stout.
lunedì 18 aprile 2011

In effetti non ne ho una su tutte ma di sicuro scelgo una tipologia a seconda dell’occasione.
Ma non è questo il topic.
Un desiderio birrario mi ha sempre accompagnato negli ultimi anni, quello di poter visitare uno dei miei birrifici preferiti, l’Harveys brewery. L’occasione si propone nel 2008, durante il Great British Beer Festival a Londra, quando inaspettatamente ricevo via mail risposta positiva per il tour al birrificio per la mattina seguente. Botta di culo, fortuna, giusta ricompensa per le molteplici mail inviate nei mesi precedenti… !? chissà.
In meno di un’ora dalla notizia stringo già tra le mani due biglietti ferroviari A/R London-Lewis- London- uno per il sottoscritto l’altro per l’amico e mastro birraio Simone Della Porta.
Alla stazione di Lewes ci accoglie una mattinata soleggiata e la prima comune sensazione è quella di trovarci in un autentico ambiente british, casette a schiera ben curate (con annesso minigiardino), finestre ad altezza pedone e pub aperti anche fin dalla mattina.
Lewes è una piccola cittadina dell’East Sussex, nelle attrazioni turistiche è contemplato un castello, la Round House posseduta dalla scrittrice Virgian Woolf, la Bull House appartenuta all’intellettuale Tom Paine e il birrficio Harveys descritto come la cattedrale dei birrifici anglosassoni.
Di fianco l’entrata della stazione è visibile il vecchio deposito del birrificio con le insegne ancora intatte. La tranquillità e il silenzio della cittadina veniva interrotta, di tanto in tanto, dai rintocchi dell’orologio . Ci incamminiamo tenendo di mira la punta di una ciminiera, quella del birrificio.
Il centro del paese, tagliato in due dal fiume Ouse , è collegato dal cliffe Bridge, un ponticello che sembra messo li come ottimo punto panoramico per meglio godere la vista del birrificio-cattedrale.
Sul lato del fiume, infatti, si erge l’edificio in mattoni rossi con inserti di legno incorniciati in stile Tudor, con di lato una torre e visibili segni di attività birraria.
Ad accoglierci e successivamente guidarci nel birrificio è il Mastro Birraio in persona Miles Jenner.
Uno sguardo dapprima alle materie prime, ai malti e ai luppoli accuratamente scelti e prenotati l’anno precedente in base alle caratteristiche organolettiche per poi passare ai i tini di ammostamento e le vasche di fermentazione. E qui il primo stupore.
Le vasche si presentano di forma quadrata a cielo aperto, in un ambiente arieggiato da finestre aperte , quindi a temperatura non controllata. Ciò lascia senza parola l'amico mastro birraio che avevo di fianco. Il dubbio è: e le probabili infezioni batteriche? e la possibilità di contaminazione per mezzo di moscerini e insetti vari? E la mancanza di temperatura di fermentazione? A tutto ciò c’è una spiegazione, asserisce il Miles Jenner, poiché il velo di schiuma superficiale funge da cappello protettivo, e considerato che la fermentazione produce calore ciò sterilizza l’aria sovrastante le vasche. Aggiunge altresì che i ceppi di lieviti della Harvey si sono, col tempo, adattati al metodo brassicolo (o viceversa cioè il birrificio si è adattato ai lieviti!) fatto sta che le birre sono eccezionali.
La seconda sorpresa è quella di poter vedere il tino in cui matura per un anno la Imperial Extra Double Stout 2008 , edizione disponibile l’anno successivo, il 2009.
La visita prosegue con l'assaggio della loro produzione e considerato che il ritorno è in treno ne abbiamo approfittato.
L'attesa si sa premia sempre, a volte con riserva. Sì perché la possibilità di provare Imperial Extra Double Stout 2008 mi è capitato nel 2009 al Great British Beer Festival di Londra, assaggio che non mi ha stupito più del dovuto, poiché a mio dire troppo giovane, in stato embrionale, promettente sì ma non sbocciata ancora in tutta la sua screziatura.
Oggi , a distanza di tre ani dalla visita ho la possibilità di aggiungere un altro tassello de-gustativo al mio personale archivio birraio.
Spillando L’Imperial Extra Double Stout 2008 noto già ha una tessitura del liquido consistente, di colore nero impenetrabile, schiuma beige abbondante, aderente e pannosa dalla quale emerge un'acidità volatile (solo volatile) e a susseguirsi sentori di kirsch, umeboshi, salsa di soja, e un lieve etanolo. Dopo qualche secondo dal bouquet olfattivo spuntano note erbacee (pino e menta) e spezie (chiodi di garofano). In bocca è decisa ma allo stesso tempo vellutata con il suo corpo strutturato dai malti torrefatti; il retrogusto è lungo e complesso bilanciato magistralmente dalla componente tostata (e balsamica) dei malti e l'amaro erbaceo del luppolo.
Ottima impressione degustativa, birra che conferma la sua grandezza come capostipite dello stile Russian Imperial Stout, non lascia spazi a ripensamenti o compromessi di stile. Ciò che maggiormente colpisce è l’eleganza complessiva, nessuna nota organolettica è in distonia (a differenza di alcuni esempi di russian stout oggi in voga e che colpiscono per essere marcatamente amplificati verso l’amaro e o il torrefatto estremo).
Se queste sono le premesse solo dopo tre anni di bottiglia allora non ci resta che tenere sotto osservazione l'evoluzione, e testare la crescita periodicamente.
Gianluca Polini
a
Etichette: Francesco Immediata e Gianluca Polini
posted by Mauro Erro @ 07:53,
,
Imperial&Co. - Troppi reali nel mondo della birra
venerdì 25 marzo 2011

Il motivo del contendere di questa volta è il proliferare di Imperial (Russian) Stout in giro per il globo che imperial non sono e l’abuso dello stesso termine usato per “imperializzare” stili che certo non sono da incoronare. Ma andiamo con ordine.
Il 2011 si apre con il consueto teatrino delle 100 best beers redatto da Ratebeer dove si evidenzia come per il secondo anno consecutivo dominino su tutte le Imperial Stout di stampo americano. L’Alvinne Craft Beer Festival (per gli amici il Pre-Zhytos) di questo inizio marzo ha confermato tale trend anche nei principali birrifici europei. In giro oggi (anche nel panorama artigianale italiano) ci sono così tante Imperial Stout e varianti Barrel Aged che non vi basterebbe la memoria del vostro I Pad per caricarle tutte.

Il motivo del contendere diviene dunque la difficoltà da parte dei consumatori finali nel districarsi in questo mondo brassicolo sempre più privo di coordinate precise da cui partire.
In pratica come si fa a capire l’evoluzione stilistica delle attuali Imperial Stout quando non si sa in circolazione quale può essere un esempio rappresentativo dello stile?
E che significato ha Imperial sparato qua e la sulle etichette di birra quale rafforzativo stilistico? Che vuol dire che una Imperial IPA è una ipissima? E non bastava dire che la birra presenta un notevole tappeto alcolico e un persistente amaricante dato dallo spasmodico utilizzo di luppoli o da un dry hopping fuori da ogni schema?
Le Imperial Russian Stout hanno una loro precisa cornice storica e politica nonché una declinazione stilistica ben definita. Lo stile in questione nasce tra le mura del birrificio londinese Anchor Brewhouse, situato sulla sponda del fiume Tamigi, precisamente tra St. Saviour's Church e Southwark Bridge Road.
Ma forse una soluzione al problema c’è e si chiama Imperial Extra Double Stout (Harveys brewery), quindi siate un poco pazienti …
Francesco Immediata e Gianluca Polini
aEtichette: Francesco Immediata e Gianluca Polini
posted by Mauro Erro @ 10:45,
,
In Alto Mare
giovedì 27 gennaio 2011

Ma questa volta un momento di critica costruttiva l’ho ritenuto doveroso, quantomeno per introdurre l’annosa questione delle birre che per materie prime usate o per correzioni o integrazioni di step di processo effettuati risultano essere prodotti “nuovi”: innovazioni o bufale?
Stavolta sul banco degli imputati ci mettiamo l’Atlantic IPA (ancora una volta Brewdog).

Gentili signori giurati, la qui presente Atlantic IPA, con il suo label fresco fresco e accattivante (realizzato da una giovane e talentuosa disegnatrice scozzese tal Johanna Basford), altro non è che una Indian Pale Ale che al termine del suo processo produttivo è stata caricata su di un peschereccio in 8 botti e si è fatta nientepopodimenoche 2 mesi di mare (pieno Nord Atlantico mica il nostro bellissimo Ionio).
E per quale motivo tutto ciò? A detta delle due teste calde scozzesi per realizzare un prodotto che rassomigliasse quanto più possibile alle vere IPA, a quelle che partivano dalla Gran Bretagna per raggiungere la lontana colonia (India), che provassero l’ebbrezza dei flutti e l’instabilità delle temperature non controllate insomma che si facessero una bella crociera (come vedremo in seguito a nostre spese).
E badate bene signori le botti non sono state stivate come d’uopo si sarebbe dovuto fare ma sono state legate in varie zone dell’imbarcazione come legnosi Ulisse a subire intemperie e cavalloni marini.
Ritornate sulla terra ferma le botti sono state riportate a casa, le birre imbottigliate e le bottiglie inviate in giro per il mondo. A questo punto è vero che vi è il caro carburante, è vero che dalle lontane Highlands le bottiglie devono arrivare fin qui nell’italica terra ma per doverle pagare più di 30 € (in America i beer blogger parlano di un esborso minimo di 25$) l’imputata non solo mi deve rotolare fino a sotto casa ma soprattutto nel berla mi deve far immaginare di essere su di un magnifico veliero di sua Maestà.
Passiamo quindi alla prova dei fatti ovvero la degustazione. Ebbene signori della giuria qui non vi è traccia di salinità (al massimo una leggerissima sapidità), non vi sono sentori salmastri ne iodati. Ma allora quei legni all’addiaccio cos’hanno rilasciato nell’amato liquido? A dire il vero si sarà anche dilavato l’amaricante tant’è che soprattutto in bocca pervade e permane più il roasted dato dai malti utilizzati che la caratterizzante luppolatura delle antiche (?!?) IPA.
Un avvocato difensore della tavolata mi risponde che è una grande trovata pubblicitaria grazie alla quale farà parlare di se i giovani scozzesi e farà vendere le loro altre (e aggiungo vere) birre perché c’è da ricordare che il duo Martin e James le birre le sanno comunque fare.
Ma il bene della comunità brassicola dove la mettiamo? La divulgazione della cultura e l’approccio graduale dei neofiti e dei profani? Come spiegare e far convenire ai più che quelle tre decine di euro (e a volta anche qualche decina in più) sono degnamente spese per una Rodenbach Alexander del ‘90 o per una Thomas Hardy’s del ‘78 o ancora per una Imperial Russian Stout della Courage dell’82 e non per una Atlantic IPA del 2009 che si crede di stare 200 anni indietro. Come sempre la decisione finale spetta a voi giurati, ma se la sentenza vi dovesse lasciare “l’amaro in bocca” (o manco quello) forse è arrivato il momento di rifarvi il palato con una Paradox a piacere (Isle of Arran, Smokehead o Islay) sempre Brewdog made in Scotland s’intende.
foto birra: Vincenzo Cillo
Francesco Immediata
a
Etichette: Francesco Immediata e Gianluca Polini
posted by Mauro Erro @ 14:12,
,