Gli uomini preferiscono le belghe

Se c’è una cosa interessante del movimento mondiale della birra artigianale è la sperimentazione. Sperimentare vuol dire innanzitutto conoscere: conoscere tutto quello che c’è prima, tutto quello che è stato fatto fin’ora per poi innovare, cambiare qualcosa, appunto sperimentare. Questo dinamismo è anche alla base del successo e della crescita del mondo birraio: produrre nuove birre significa invogliare un assaggio curioso. Assaggiare nuove cose significa scolpirle nella memoria, se l’assaggio è degno di nota, per cui mi ricorderò di quel birrificio belga dal nome impronunciabile che ha osato usare l’indivia come amaricante al posto del luppolo (la Wit Goud di Hod ten Dormaal).
Oppure quell’assaggio finirà nel dimenticatoio.

Passato un po’ di tempo dal Villaggio della Birra, ritorno su quella nota stonata in calce ai miei appunti.
La manifestazione giunta alla sua sesta edizione, prevede una sorta di cocktail di benvenuto, con l’hoppy-hour del venerdì: un pre-villaggio con 8 birre alla spina, tra esclusive e nomi conosciuti. Minimo comun denominatore: luppolo, what else?
È curioso vedere come i birrai belgi si confrontino con il luppolo. La tradizione belga ha sempre magnificato la fermentazione, dando lustro ai lieviti e alla rifermentazione, ponendo il luppolo a danzare nel gioco delle parti con i malti.
L’esaltazione totemica del luppolo come bussola del percorso di birrificazione spetta agli americani. Che hanno ora il vantaggio di muovere un mercato che inizia a farsi importante.
E così la brasserie d’Achouffe produce la Chouffe Houblon: destinata al mercato statunitense ha riscontrato più fan in Europa, al di fuori del Belgio ovviamente.
Questione di palato e di abitudine a bere. Loro, gli americani, si bevono le loro, stilisticamente perfette, birre extra-hopped. Noi, appassionati bevitori affezionati al Belgio e alla scoperta del luppolo, restiamo affascinati dalla Houblon: una birra che è spessa, piena di tutto, e che in gola lascia una spiacevole sensazione balsamica e pungente. Richiama un altro sorso, di acqua. Una birra che, potendo scegliere, non sceglierei.
Poi bevo anche la Valeir Extra (Contreras Brouwerij), la Bink Blond (Kerkom Brouwerij), la Sainte Hélène Simcoe (Brasserie Sainte Hélène), la Bastogne Pale Ale (Brasserie de Bastogne) e la Hop Ruiter (Schelde Brouwerij).
Per diritto di cronaca mi ero appuntato tutti i nomi, perché gli assaggi sono finiti quasi tutti nel dimenticatoio, quello spazio della memoria gustativa dove rinchiudi quelle birre che proprio non vuoi vedere più in giro. Birre anche ben fatte, ma il Belgio? Dov’è?
Mi resta la sensazione che, con le dovute differenze, i belgi sanno fare meglio le loro birre. Dovrebbero puntare su questo, piuttosto che battere un percorso già solcato dai birrifici americani e dove, non v’è alcun dubbio, sono padroni. In questo caso, dovrebbero fare un passo indietro.
E poi gli uomini preferiscono le belghe, quelle vere, non quelle rifatte, tutte IBU e frutta tropicale.

in foto: Marie Gillain

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posted by Mauro Erro @ 15:43,

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