Equilibri
giovedì 31 maggio 2012
Alla fin fine, come in ogni cosa nella vita, è questione di equilibrio e armonia anche per il vino. Non si tratta di grande o piccolo vino ma di eleganza, semplice o articolata che sia.
In questo caso parlo di vini a cui non manca niente, succo, facilità di beva, tensione, sale senza esibire inutili asperità; vini che accompagnano un pasto, ti tengono compagnia e ti mettono di buon umore.
Frappato 2011 Cos
Sicilia orientale, frappato come vitigno e un vino leggiadro, un tripudio di piccoli frutti scuri al naso e erbe mediterranee, assaggio succoso e teso al tempo.
Soave Vigna del Brà 2009 Filippi
Frutta fresca ed erbe, un tocco ammandorlato, beva consistente, ma sapida e “sgusciante”. Una garganega che sosta una ventina di mesi sulle proprie fecce, in beva, ma che potete anche dimenticare in cantina per qualche anno.
Pinot Bianco Vorberg 2009 Cantina di Terlano
Più aperto e disponibile di altre annate, il grande classico di casa Terlano si fa apprezzare anche per la tenuta a bottiglia aperta. Oltre i due giorni e non cede di un passo. Bocca spessa e ampia, finale asciutto e dal caldo e cordiale abbraccio. Bianco di sostanza.
posted by Mauro Erro @ 09:06,
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L’altra settimana ho partecipato ad una bella degustazione di sangiovese da Montalcino nell’ambito del laboratorio di degustazione che con Fabio Cimmino e Tommaso Luongo abbiamo ideato in collaborazione con la
delegazione di Napoli dell’AIS.
Interessante perché i vini erano innanzitutto buoni e rappresentavano interpretazioni diverse, ma altrettanto soddisfacenti e gustose del sangiovese grosso Ilcinese (senza addentrarci nei meandri di parole come tradizionale e moderno i cui significati sono spesso opachi e travisati).
Alcuni vini già bevibili, altri da attendere e dimenticare un po’ in cantina.
In ordine di preferenza eccovi un paio di note.
Brunello di Montalcino 2006, Pian dell’Orino: un vino espansivo, cordiale ed elegante, con un bel nocciolo fruttato ed un contorno di sfumature odorose a regalare complessità. Palato di bella densità di materia, felpato, tannino sottile che non frena il finale gustoso. In beva.
Brunello di Montalcino 2006, Le Potazzine: un vino più introverso rispetto al precedente, si da con maggiore parsimonia e preferisce alla ricchezza aromatica, al momento, un sussurro balsamico che da ritmo ai profumi che esalano con il tempo. Bocca ampia e tesa, ma ancora trattenuta sul finale da un tannino di bella trama, ma presente. Da dimenticare in cantina per un po’.
Brunello di Montalcino Bramante 2006, Podere San Lorenzo: un vino allo stesso tempo più aperto rispetto al precedente e a quello che seguirà, ma sottile e più timido rispetto al vino di Pian Dell’Orino. Ha trama odorosa garbata, fruttata, floreale e balsamica e un palato da pesi medi, espansivo e rarefatto nel finale. Già bevibile.
Brunello di Montalcino Vigna Soccorso 2007, Tiezzi: Sgomita e prima di aprirsi e liberarsi da qualche impuntatura ci mette un po’, per poi regalare una bella materia fruttata. Anche al palato è nervoso, salato e con un finale su un intrigante tannino rugoso. Da dimenticare in cantina.
Brunello di Montalcino 2006, Le Ragnaie: è quello che, al momento, mi ha soddisfatto meno, nonostante la buona materia, per quel tocco di esotico di troppo, che ritrovi al palato in quel finale leggermente dolcino che lo rende un po’ stucchevole. Da attendere in cantina che assorba il legno oggi un po’ in eccesso.
posted by Mauro Erro @ 09:06,
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Una decina di giorni fa, Roberto Maria Adago, ex socio del popolare brand di abbigliamento Baci e Abbracci, ha preso a morsi un suo amico all’indomani mattina di una notte in cui lo aveva ospitato a casa, perché, a suo dire, reo di avergli rubato il telefonino. Gli ha staccato un pezzo di naso.
D’altronde chi non ha preso mai a morsi un amico o gli ha fregato il cellulare?
Questa manifestazione del surreale mi ha spinto ad una riflessione nella mia frequentazione dei social, agli “amici”, gli abbracci e il mondo dell’enogastronomia.
Appena accedo a facebook e in misura minore su twitter mi trovo davanti un susseguirsi di abbracci ripetuti tra tutti sotto la luce dei flash e dentro un obiettivo. Un festival dell’abbraccio (e del bacio) tra recensori e recensiti, blogger e ristoratori, giornalisti e blogger, produttori e ristoratori e via così fino agli appassionati che frequentano l’ambiente.
Uno stato di perenne euforia, una serie d’immagini un po’ stridenti ed alla fine le stesse facce e le stesse situazioni, serate mondane, ristoranti, presentazioni immancabili che poco fanno pendant con i visi delle persone che vedo io fuori dalla mia piccola enoteca di quartiere, visi segnati dalle angosce e le ansie del momento.
Ma che male c’è, godiamocela finché possiamo, dirà qualcuno.
Fosse vero, accetterei questa spruzzata di dolce vita un po’ cafona senza battere ciglio.
Ma poi, invece, una parte della realtà racconta di tanti giovani giornalisti precari senza un contratto, ma a partita iva o disoccupati che appena ci parli dietro le quinte non sono neanche incazzati ma rassegnati, una marea di blogger che odiano il proprio lavoro e coltivano nel tempo libero una passione che vorrebbero trasformare nel proprio lavoro, altri che un lavoro non ce l’hanno e vorrebbero inventarselo. Produttori pieni di vino o che il vino magari lo riescono anche a vendere, ma non riescono a farsi pagare ed hanno un paio di mutui da coprire, di soldi e pif, por, perepeppepe da restituire. E le banche figurati se hanno liquidità. Di ristoratori che, quando va bene, non comprano vino da almeno un paio di stagioni e lo vedi dalle carte dei vini, quando va male, hanno chiuso.
Poi per fortuna, qualche bella storia che sia anche di successo la incontri e la racconti.
E poi infine ci sono quelli di cui non parla nessuno, i braccianti dell’est che vedi nelle Langhe o i magrebini nella piana del Sele. Comparse inconsapevoli al pari di tanti altri appassionati gaudenti.
Eppure quando si accendono i riflettori e scattano i flash tutti belli sorridenti a ripetere che va tutto bene e snocciolare qualche dato o trend positivo. Come se veramente i ristoranti fossero “tutti pieni”.
Perchè pare brutto fare altrimenti, bisogna dare fiducia, sorridere e dire che tutto va bene.
Una sorta di gioco, un Uomini e Donne condotto dalla De Filippi, dove ognuno è corteggiatore ed adulatore e corteggiato quando capita, seduto sul suo trono sia esso un fornello, uno spazio web o una pagina di carta.
Ognuno si è cresciuto il piccolo Berlusconi che ha in se.
posted by Mauro Erro @ 13:07,
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foto di Giampiero Pulcini
Quello che vedete in foto che tracanna allegramente Chambertin - Clos De Beze di Armand Rousseau risulta all'anagrafe con il nome di Giancarlo Marino, uno dei maggiori appassionati e conoscitori della Borgogna (e non solo) che io conosca.
Quello a sinistra che regge la bottiglia è Fabio Cimmino.
Oltre ad essere molto divertente in questa foto si colgono tanti aspetti interessanti.
1) Innazittutto è una scusa per rilinkare il
sito degli alterati, dove ci trovate scritti di Giancarlo e di tante altre persone in gamba, simpatiche e divertenti.
2) Che ogni riflessione sul vino o racconto è tanto valida quanto frutto di un'esperienza vissuta. E attraverso gli assaggi, i viaggi, le bevute e il confronto con gli altri che sviluppiamo il nostro senso critico. Costretti quindi a ripetere infinitamente io io io, spesso si corre il rischio di prendersi troppo sul serio. E la leggerezza, la giusta dose d'ironia, goliardia eccetera ed eccetera sono l'unica ancora di salvezza che abbiamo.
3) La cornice ed i contesti. Non bisogna mai dimenticare, quando siamo intenti a vivisezionare il vino, il contesto in cui il vino lo beviamo e lo condividiamo.
La parte più bella sono le serate che passiamo con gli amici. Una (vabbè, più di una) buona bottiglia di vino, predispone bene. Tutto qui.
Quanto alla foto, può rimandare alla mente una delle ultime scene di Sideways, quando Paul Giamatti si spara in un bicchiere di cartone in un fast food uno Cheval Blanc del '61.
Al di là del vino, come scrivevo è questione di contesti e cornici. Noi avevamo avanti ciò che vedete qui sotto. Napoli.
Non c'è paragone.
posted by Mauro Erro @ 11:42,
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Ho un'innata passione per i bianchi nervosi, dissetanti, falsi magri che badano più alla sostanza - farsi bere - che a impressionare il degustatore con effetti speciali. Quelli capaci di farsi apprezzare senza risultare invadenti, farsi bere allegramente durante un pic nic o una giornata al mare e, tra questi, ho una mia predilezione per i buoni Muscadet della Loira come questo. Un vino che brulica mineralità declinata con sentori di pietra focaia e che affianca durante l'assaggio, alla spina acido/sapida, un succulento strato glicerico che lo rende particolarmente goloso. Il basso grado alcolico invoglia la beva e la bottiglia finisce in men che non si dica.
posted by Mauro Erro @ 09:15,
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Se ancora siete iscritti al partito "rosato nè carne nè pesce" vi invito ad una caccia al tesoro per procurarvi due splendidi vini annata 2010 non facilissimi da reperire. Il primo è il Campania Rosato di Monte di Grazia (Tramonti, Costa d'Amalfi da uve tintore e moscio) già segnalato su Enogea 42, con un naso variegato ed una beva salina. Il secondo è lo Chavignol di Pascal Cotat (Loira, pinot nero), essenziale, fragrante e scalpitante all'assaggio. Circa 15 euro per il primo e una decina di euro in più per il secondo.
posted by Mauro Erro @ 08:12,
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Qualche giorno fa Mauro scriveva
qui che la qualità o la bontà di un vino dovrebbe essere giudicata senza tener conto del prezzo, ma che molto spesso e cito integralmente, è proprio il prezzo il primo elemento su cui il consumatore pone la sua attenzione e su cui basa le sue scelte.
E per l’olio? Anche qui in teoria varrebbe lo stesso discorso. Anche se...
Proprio ieri mi trovavo un volantino pubblicitario tra le mani, uno di quelli che intasano le cassette postali per intenderci. In prima pagina, di ben dieci fitte di offerte, ne campeggiava una strepitosa: un paio di bottiglie di olio (in vetro rigorosamente trasparente e di cui non cito la marca) a soli 2,77€ al litro.
Se pure volessimo chiudere un occhio o meglio tutti e due e far finta di credere che in quella bottiglia, bianca e luccicante, ci sia dell’olio extravergine e quindi ottenuto solo ed esclusivamente da olive mediante estrazione di tipo meccanico (e se avessimo il terzo occhio dovremmo chiudere anche quello), dopo qualche giorno di esposizione alla luce intensa del supermercato e agli sbalzi di temperatura, quell’olio, all’olfatto, ma anche al gusto, ci parrebbe molto più simile alla fetta di prosciutto dimenticata da dieci giorni in frigo che al frutto dell’olivo.
Il punto però non è stabilire se in quella bottiglia ci sia o no dell’olio extravergine o che dopo un paio di giorni quell’olio così “posizionato” sugli scaffali possa diventar di cartone (cosa che non dubito fosse già prima dell’esposizione forzata ai raggi UVA), ma che è impossibile che un olio extravergine di oliva, ottenuto mediante estrazione di tipo meccanico, con un contenuto di acidità inferiore a 0,8, senza alcun difetto organolettico e che vivaddio sappia di oliva fresca e non cotta o in salamoia, possa costare 2,77€ al litro.
Questo, signori miei, è impossibile!
Sul prezzo e sul mercato dell’olio in Italia ragioneremo in futuro, quello che mi preme in questa sede e in questo momento è solo di invitare il consumatore a stare attento perché se tali offerte possono sembrare vantaggiose per la tasca non lo saranno affatto per il proprio organismo.
Questo non significa che l’olio deve costare 20€ al litro per esser buono (come dicevo, su questo argomento ritorneremo), ma che bisogna stare molto attenti. In Italia, escludendo alcune zone della Puglia, non esistono distese pianeggianti e infinite di olivi. L’olivicoltura nella nostra penisola è prettamente collinare e questo non facilita certamente la raccolta.
Un altro elemento fondamentale per ottenere un olio sano è che le olive siano raccolte al momento giusto e possibilmente a mano, dall’albero e non da terra, e questo è già un costo non indifferente per il produttore. Inoltre le olive non dovrebbero sostare molto prima della molitura, altrimenti cominciano a fermentare cosa che potrebbe naturalmente danneggiare il prodotto finito. Le olive quindi devono essere raccolte al momento giusto, possibilmente a mano, conservate per pochissimo tempo e in condizioni ottimali (per intenderci, non buttate in un sacco al sole) e portate subito al frantoio, dove, un buon frantoiano deve essere in condizioni di poter controllare tutti i passaggi necessari alla trasformazione della drupa (oliva) in olio. E anche qui ci sono naturalmente dei costi. Poi c’è l’imbottigliamento, l’etichettatura e la fantastica burocrazia italiana. Tutto questo, a 2,77 € è impossibile!
In ogni caso, bisogna ricordare che l’olio extravergine di oliva deve odorare di “frutta” perché l’olio è prima di tutto un succo estratto da un frutto, l’oliva, e come tale deve apparirvi al naso. Almeno questo, anche per chi è profano, deve essere un parametro imprescindibile. In seguito, con un pizzico di attenzione e di esercizio, potrete godere di mille altre sfumature e capire non solo le differenze tra olio e olio, ma tra cultivar e cultivar, ma se il vostro olio extra vergine di oliva non assomiglia minimamente ad un’oliva appena colta (provate ad incidere un’oliva e vedete di cosa sto parlando), non connota freschezza (di erba appena tagliata, di foglia verde, di pomodoro, di fiori di campo, di erbette ecc. ecc.) ma vi ricorda la suola delle scarpe, il capicollo e il cartone del vostro ultimo trasloco, sappiate che avete preso una gran bella fregatura, anche spendendo solo 2,77€.
Adele Chiagano
posted by Mauro Erro @ 13:18,
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Prima di parlare di cultura, nel mondo del vino, bisognerebbe immergersi nella cruda realtà. Intendo dire che una cultura del vino dovrebbe essere più diffusa e condivisa per essere tale. E purtroppo non lo è, in un paese come il nostro che si definisce di tradizione.
Certo non mancano gli operatori volenterosi che di cultura ne hanno e che cercano di diffonderla, ma il popolo di appassionati ed entusiasti del vino rappresenta una nicchia rispetto a quello che identifichiamo, seppure genericamente, come il popolo dei consumatori.
Ciò nonostante, anche se gli appassionati di vino (intesi come giornalisti, blogger, operatori di settore e bevitori che frequentano siti e forum) difficilmente arrivano al consumatore e la loro influenza su quest’ultimo è difficilmente misurabile, sono in grado di determinare mode, tendenze e di conseguenza, in parte, le dinamiche che ricadranno proprio sul bevitore ignaro.
Un esempio dell’ultimo periodo è che a furia di ripetere il mantra bevibilità, acidità, mineralità, nell’ambiente si è andato sostituendo il modello Borgogna a quello Bordeaux, tanto in voga una decina e passa di anni fa, come modello ispiratore delle nostre fortune.
I primi cambiamenti si vedono già nel packaging di molte bottiglie italiane. Sempre più rare le bordolesi spalla alta (per non parlare di quelle dal vetro spesso 8 cm, che facevano insorgere non solo gli ambientalisti più accaniti), sostituite da panciute Borgognotte.
Il Cirò Riserva Duca San Felice dei Librandi, l'ultima che ho visto di una lunga serie.
p.s. dando ai vocaboli contenitori Borgogna e Bordeaux il significato che superficilamente si è diffuso in questi ultimi anni.
posted by Mauro Erro @ 12:48,
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A proposito di considerazioni sulla degustazione, un mio scritto da Enogea Social. (me)
Quando muovevo i primi passi da assaggiatore appassionato, ogni volta che acquistavo e bevevo un vino mosso dalla curiosità di una recensione letta su una rivista o su una guida, capitava spesso che, non trovandomi d’accordo con l’estensore della critica, mi rifugiassi nella convinzione che quanto al vino, fosse tutto relativo.
Un riflesso psicologico comprensibile, comune a molti, che mi impediva di ammettere a me stesso, anche per ignoranza, che ero io a non aver compreso il vino davanti al mio naso e alla mia bocca.
Crescendo, trasformando la passione in lavoro e aumentando il numero di assaggi, ma soprattutto avendo avuto la fortuna di lavorare con tanti colleghi più esperti, ho scoperto che le cose non stavano così come le immaginavo.
Ho scoperto, ad esempio, che la degustazione si divide sostanzialmente in due parti, una che potremmo chiamare sensoriale ed una deduttiva.
La prima parte, scevra da qualsiasi tipo di condizionamento, si riferisce alla capacità, grazie ad occhi, naso e bocca di registrare le caratteristiche organolettiche del vino che abbiamo innanzi.
E, udite udite, al di là delle soglie di percezione che possono essere leggermente differenti, se mettete allo stesso tavolo cinque, sei degustatori di indiscussa capacità, davanti alla stessa bottiglia, non avrete risultati tanto diversi. Anzi.
In fin dei conti si tratta di analisi sensoriale: un vino amaro è un vino amaro, un vino scarsamente acido è un vino scarsamente acido, una volatile presente si sente e avanti così.
È solo questione di esperienza e applicazione e mano a mano si acuiranno le capacità degustative. Solitamente funziona così.
Poi c’è la seconda parte, quella deduttiva, e qui le cose cambiano non poco. Ricondurre le sensazioni percepite alle cause che l’hanno prodotte, analizzare e commentare un vino, darne un’interpretazione e prevederne uno sviluppo futuro, coinvolgono il vissuto del degustatore in senso molto più profondo, la sua cultura (non solo in campo enologico), l’ambiente in cui è cresciuto e la prospettiva critica nella quale egli sceglie di muoversi.
Per chiarire con un esempio: due critici letterari capaci, all’interno di una frase non avranno alcuna difficoltà a riconoscere e distinguere una figura retorica da un’altra, un chiasmo da un metonimia, il che non vuol dire, però, che di quella frase, quanto ai significati più profondi, daranno la stessa interpretazione. Tutt’altro, è probabile che offriranno visioni completamente diverse cogliendone aspetti neanche contigui tra loro e, entrambe, risulteranno del tutto rispettabili e valide.
Infine, se questi discorsi possono non interessare un appassionato che legittimamente lascia che sia il proprio gusto e la piacevolezza a guidarlo, dovrebbero essere, invece, ben chiari a chi sceglie di condividere la propria passione con gli altri scrivendo di vino, a qualsiasi titolo e su qualsiasi spazio. Imparare la tecnica della degustazione così come un critico apprende le nozioni di Filologia classica è un segno di rispetto verso se stessi, verso la passione che si coltiva, verso il vino e verso le persone a cui scriviamo. Ed è segno di un’autentica curiosità esploratrice e laica: che si nutre e affama al contempo se stessa. Tenendolo sempre bene a mente, quella stessa curiosità ci darà modo di confrontarci con i colleghi in cui ritroviamo gli stessi presupposti, ma che hanno visioni diametralmente opposte alle nostre che vivremo come arricchimento del nostro bagaglio di esperienze e cultura. Avremo così modo di dare sempre più spazio in noi alla conoscenza e meno al nostro ego. Vivremo più sereni, più gai e invece di guardare a noi con un metro alla mano per misurare le nostre capacità, sottodimensionandole o sovradimensionandole, guarderemo al vino e ci accorgeremo che, come le persone, le situazioni o i libri, non sempre è così facile da etichettare e definire.
Ed il bello è proprio quello.
p.s. (ma senza esagerare, la Divina Commedìa e i 700 anni di critica che la seguono sono un’eccezione)
posted by Mauro Erro @ 08:42,
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Era la festa dei banchieri, oggi è la festa di tutti (o quasi). Bank Holiday continuano a chiamarla e così la metropolitana funziona a singhiozzo, un singhiozzo che non lascia respiro of course, ma sono costretto a scendere ad Holborn, il resto del tragitto lo percorro a piedi. Il cielo è grigio da questi parti: è stato l’Aprile più piovoso dal 1910 e quest’inizio di Maggio sembra non dare tregua. La pioggia cade fina, da fastidio più che creare disagio, anch’essa a singhiozzo, stavolta più grossolano. Si ferma, riprende, poi si ferma ancora e le foglie degli alberi, un po’ sui rami, un po’ per terra, incorniciano un paesaggio che ricorda l’autunno più che la primavera. Metto il cappello, non ho voglia di aprire l’ombrello, e m’incammino lungo il percorso che mi porterà a Euston Road.
Si tratta di pochi isolati, quei pochi isolati che i londoners avrebbero fatto sotto-terra, nelle viscere traforate di una città enorme, dove dietro l’angolo capita di incontrare qualcosa che vada la pena essere visto. Le case vittoriano sfilano ordinate, coi loro mattoncini rossastri e le finestre senza imposte, i giardini antistanti agli ingressi e i due, tre piani al massimo a concedere ancora cielo allo sguardo. Arrivo a Euston Road (è lì che ho appuntamento per una mostra: http://www.wellcomecollection.org/) e il paesaggio cambia: alla fine della strada iniziano ad affacciarsi edifici più imponenti, vetro e metallo, dalla fattura evidentemente più recente. Imbocco una traversa, i grattacieli mi tolgono aria, almeno oggi non ne ho voglia. Basta girare l’angolo.
Il
Bree Louise è una public house di onorata carriera. Sei birre servite a pompa, undici a caduta e la cucina è aperta da mezzogiorno alle nove, senza interruzione. Grossa lavagna appesa al muro, tra acquerelli e maglie di rugby, pochi e grandi tavolacci, capita di sederti vicino a qualcuno, a me capita una coppia vivace che preferisce bere cider. Ordino da mangiare e da bere.
Windsor&Eton, Knight of the Garter, una pale ale da 3,8%. L’ingresso è morbido, miscela di sensazioni biscottata, miele e una spiccata nota fruttata che vira verso una sensazione amaricante che si sovrappone ad un lieve ritorno tostato. Alla fine la bocca resta asciutta con una nota scura e persistente che gratta delicatamente la lingua ed invita ad un altro sorso di nettare morbido e fruttoso. Finisce così, velocemente. Ma l’ambiente è così, avventori che entrano e che escono, scambiano qualche chiacchiera al bancone o ai tavoli, lasciano fuori i problemi o li portano dentro per affogarli in una pinta, per affrontarli insieme all’oste.
Ho avuto la mia dose di luppolo, ma non ci penso ad andarmene via: ho trovato un posto dove passare qualche ora, magari leggendo o chiacchierando, ma alla fine mi decido. Prendo una mild e prendo a scrivere.
Branscombe Vale Brewery, Mild da 3,7%, bassa carbonica, nera e impenetrabile con assenza completa di schiuma. La declinazione delle sensazioni tostate è talmente soffice da lasciare senza parole: in un lungo grande sorso mi pare di percepire milioni di cose, come milioni di foto in bianco e nero che scorrono uno dietro l’altra a formare un lungometraggio muto d’altri tempi. C’è il toffee e la china, la radice ed il cioccolato, l’armonia e la persistenza, il buono e il cattivo, sole-luna, la dimostrazione che le frazioni della nostra anima possono convivere in equilibrio.
Vengo richiamato all’ordine, gli avventori urlano di gioia e goliardia, siamo pur sempre in un pub, mica al tempio sacro.
Ok guys, give me another pint!
The Bree Louise
69 Coburg Street
Euston, London.
Pub dell’anno 2009/10 CAMRA.
Orari - Lun-Sab: 11-ora tarda
Dom: 12-22.30
Sconti per membri del CAMRA, lavoratori del NHS e studenti.
Etichette: Roberto Erro
posted by Mauro Erro @ 09:13,
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Giampaolo Gravina
Sul tema della critica del vino e dei punteggi dopo la prima parte di ieri firmata da Francesco Falcone, eccovi la risposta di Giampaolo Gravina, pubblicata su Enogea Social. (me)
Francesco carissimo
sono due giorni che me la faccio ronzare in testa, ma a me questa equazione notizia = scrittura non mi riesce a convincere
il tuo pezzullo ha tante anime, e il nucleo di genuina messa-in-questione dello statuto del degustare, che avevi già iniziato a esplorare in alcuni testi precedenti, resiste anche qui e anzi si intensifica di perplessità e obiezioni:
però, se mi è piaciuto il passaggio in cui provochi il lettore confessando che ti senti addirittura peggiorato e non vai più alle Anteprime, ho per contro trovato un po' deboli le motivazioni per cui dici di continuare a usare i punteggi: o meglio, le motivazioni sono proprio quelle che dici tu, cioè per convenzione, perchè altri più accreditati di noi li continuano a usare, etc.
ma se considerate con la stessa radicalità che fai tua in altri passaggi del ragionamento, queste motivazioni lampeggiano ai miei occhi in tutta la loro debolezza
la verità per me è più brutale: continuiamo a usare il punteggio per conformismo e perchè ci dà da campare! ma non c'è difesa d'ufficio che tenga, il punteggio non è mai al servizio del giudizio, è piuttosto una scorciatoia critica che contiene residui non solubili di arroganza e di paternalismo
a tutti noi (me per primo) che non abbiamo avuto in questi anni la determinazione di distaccarcene, dovrebbe essere quanto meno chiaro che il ricorso al punteggio è teoricamente indifendibile
anzi, se considerato in sè e per sè, il punteggio è un freno allo sviluppo articolato del giudizio, e dunque è un freno a quel percorso di crescita della consapevolezza che tu (insieme ad altri colleghi e compagni di viaggio, tra cui mi piace pensarmi coinvolto) con molta onestà hai cercato di seguire in questi anni e di mettere a tema in questi tuoi ultimi scritti
più meticoloso, più serio e autocritico si fa il lavoro in sede di assaggio (e qui tu sei davvero un esempio, amico mio) più dovrebbe rivelarsi lampante e inoppugnabile la sostanziale inadeguatezza di ogni algoritmo alfanumerico: è proprio lì, tra le pieghe di quella intimità che il vino reclama, tra gli snodi espressivi che solo uno scrupoloso supplemento di indagine può rivelare, che il lavoro della scrittura si fa indispensabile
ma è un lavoro di analisi e di commento, quello della scrittura: non sarà mai una notizia la scrittura, non avrà mai l'autoevidenza di un titolo né l'univocità di un fatto
la notizia impone immediatezza, distacco, neutralità: altro che empatia ... ;-)
è solo un secondo sguardo che lascia emergere l'esigenza del lavoro critico, un'esigenza che unicamente la scrittura può esplorare, con la pazienza e la fatica che le sono necessarie e connaturate
decisivo mi appare a questo proposito il richiamo alla forma che tu suggerisci a un certo punto del tuo testo: la scrittura è un dialogo ininterrotto con l'esigenza del dare e del prendere forma, un'esigenza insopprimibile dell'interpretare inteso come un "formare"; il punteggio per contro è de-formante, tradisce la natura di flusso, di itinerario, di processo che la scrittura critica rivendica
le tue riflessioni mi hanno rivelato una singolare sintonia (empatia?) con alcuni temi dell'Estetica di Luigi Pareyson, un filosofo che ha lavorato a lungo all'idea di una teoria della formatività (fu anche maestro di Umberto Eco, negli anni '50), ma di cui si parla poco nel dibattito attuale (non fa più notizia)
mi piacerebbe fartene leggere qualche pagina, se ne avrai voglia: magari su in Langa, a metà Maggio, tra un nebbiolo e l'altro (anche Pareyson era del Cuneese ...)
un abbrazz
Giampòl
posted by Mauro Erro @ 08:41,
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Sulla pagina Facebook di Enogea la settimana scorsa c'è stato un interessante scambio di opinioni sulla critica del domani, la scrittura del vino e i punteggi tra Francesco Falcone e Giampaolo Gravina. Eccovi la prima parte firmata dal Falco. (me)
L'idea che un wine writer debba produrre “punteggi”, pur nella sua evidente bizzaria (un nome così altisonante meriterebbe certamente maggiori aspettative:-), mi sembra tutto sommato lecita, perché in fondo il punteggio del wine writer è una notizia. Ed è per questo che i giornali e le riviste si leggono: per avere notizie. Ma notizie di che cosa? I primi dubbi mi sono venuti qualche anno fa, quando degustai per la prima volta in “batteria”, i Barolo dell'annata 1999 ad Alba, in occasione della nota manifestazione Alba Wine Exhibition (oggi Nebbiolo Prima).
Le notizie, in quel caso – cioè i risultati degli assaggi e le classifiche – arrivavano già allora (seppure meno di oggi) sui siti on line quasi in tempo reale o comunque a pochi giorni di distanza dalla degustazione. Mentre io, affaticato dai settanta e passa vini assaggiati al mattino (per tacere delle peregrinazioni pomeridiane per vigne, cantine e banchi d'assaggio supplementari), riuscivo sì e no raccogliere qualche idea, altro che notizie. E, una volta raccolte, quelle stesse, pochissime idee, col passare delle ore si facevano ancora meno lucide.
Per quanto mi illudessi di poter migliore nel tempo, di riuscire cioè almeno in parte a sviluppare quel talento che ti consente di leggere un vino e un'annata in poche ore, debbo confidarvi che sono peggiorato. E ciò che prima mi pareva confuso oggi mi sembra illeggibile. Così, per pura inettitudine, ho risolto il problema evitando sempre di più di frequentare manifestazioni e banchi d'assaggio, spendendo invece il mio tempo a visitare i produttori e ad assaggiare con la giusta calma presso la mia sede. Quello che non ho ancora lasciato per strada è il punteggio: un po' perché il Masna lo ha sempre usato su Enogea (così come Gentili&Rizzari sulla loro Guida espressica), un po' perché se utilizzato con discernimento (ma non è detto che sia il mio caso) ti aiuta a recintare un giudizio e laddove necessario a fare chiarezza (nella testa di chi assaggia, soprattutto).
Il mio punteggio (in centesimi per Enogea, in ventesimi per la Guida ai vini d'Italia de l'Espresso) è però il frutto di un lungo lavoro di assaggi e riassaggi successivi. Non mi fermo dunque all'impressione della prima olfazione e del primo sorso, ma concedo al vino – e a me stesso – più occasioni per esprimere qualcosa. Ovvero per esprimere la notizia: perché per me la notizia è dare una forma, una delle infinite forme possibili, al magma straripante dei punteggi. Quella forma, poi, altro non è che la scrittura. La notizia è la scrittura.
Per tale ragione, in questi dieci anni di lavoro ho capito, anzi farei meglio a dire che “sto iniziando a capire”, che uno dei punti fondamentali per svolgere con consapevolezza il mestiere del degustatore è l'empatia. Per un vino, e parlo di un vino di qualità, quasi come per un bambino, quasi come per un figlio, è necessario essere trattato con rigore e comprensione, attenzione e complicità. Tutto questo dipende dalla capacità di empatia del degustatore. L'empatia non si limita alle risposte emotive immediate e scontate: è facile provarla per una bottiglia prestigiosa acquistata in enoteca per scelta e per conoscenza diretta, è molto più difficile metterla in campo quando una batteria di calici contiene una tipologia di vino tanto poco nota quanto imprevedibile, che fatica a concedersi e predispone al dubbio. È quindi assai più complicato quando la sua forma, il suo profilo, il suo carattere entrano in conflitto con la nostra formazione, con la nostra idea di vino, con i nostri gusti. La nostra capacità di provare empatia in una gamma di situazioni il più vasta possibile deve essere dunque coltivata saggiamente se si vuole essere degustatori consapevoli.
Quando coltivo l'empatia cerco dunque di vedere le cose dal punto di vista del vino, del produttore, del vitigno, del territorio in cui nasce, della stagione che lo ha nutrito. Provo a capire che cosa possiede di speciale e di unico; tento di portare una consapevolezza empatica a ciò che accade in ogni momento della degustazione. Questo significa – sebbene non sia affatto facile – provare ad essere consapevole anche della mia sensibilità.
Per entrare in contatto con il vino, è a mio avviso doveroso assaggiarlo in duplice modalità: prima alla cieca (per non esserne influenzati, imponendosi solo di registrare ciò che si percepisce), poi a etichetta scoperta per avviare le riflessioni. La prima fase ti dà un'istantanea, la seconda un'analisi approfondita. Allo stesso tempo, come ho scritto all'inizio del mio ragionamento, col tempo ho capito che non mi bastano mai pochi minuti per sentirmi attratto da un vino, e sempre di più diffido dei colpi di fulmine: per questo è ormai qualche anno che le mie sessioni di degustazione prevedono almeno tre assaggi in tre giorni successivi. E nei casi di prove straordinarie o di cocenti delusioni, ci metto il naso anche il quarto giorno. Per stretta conseguenza, ho sensibilmente ridotto il numero ideale di campioni da degustare in una sessione: oggi sono una cinquantina, non di più (ancora meno per le denominazioni/tipologie/categorie più complesse).
Sono sempre più consapevole di essere un pessimo degustatore “da batteria”: per compensare questo limite devo avere la volontà di tessere e ripristinare i legami empatici con i vini che degusto: non sempre ci riesco, ma questo protocollo mi aiuta a mascherare i miei limiti, nutrendo al contempo – in modo direi involontario - la scrittura, che si arricchisce di sensazioni, di vibrazioni, di notizie.
Francesco Falcone
posted by Mauro Erro @ 07:41,
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Che la “qualità” o la bontà di un vino possa essere giudicata senza tener conto del prezzo, mi pare abbastanza scontato e facile da capire.
Ma nel momento in cui cerco di veicolare e raccontare un prodotto ad un consumatore mi sfugge il motivo per cui non si tiene conto del prezzo quando, nella stragrande maggioranza dei casi, è proprio il prezzo il primo elemento su cui il consumatore pone la sua attenzione e su cui basa le sue scelte.
In tanti anni in cui frequento il mondo dell'enogastronomia ho sentito parlare dei prezzi sorgente da apporre alle etichette dei vini, dei discorsi intorno al ricarico dei vini esagerati in ristoranti ed enoteche, ma mai del prezzo del vino in sé.
Ma un vino può essere caro o un pessimo affare?
E perché il prezzo di un vino in Italia non è direttamente proporzionale alla qualità dell’annata (come in parte avviene in Francia)?
posted by Mauro Erro @ 08:35,
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Aglianico del Vulture, mappa della zona di produzione (da Enogea 41)
È un po’ che non ci si
vede. Come scritto ieri, siamo stati un po’ occupati. E poi, per dirla tutta e come mi è già capitato di scrivere, alla fin fine io a differenza di tanti altri blogger molto prolifici, tutte queste cose apparentemente intelligenti da scrivere non le ho e già è tanto che riesca a scrivere quello che devo per lavoro. E non sempre riesco a mettere tutta la cura che vorrei nel rispetto soprattutto di chi si prende la briga di leggermi.
Per cui.
Ma d’altronde quello con la scrittura è un rapporto di amore e odio. Vale anche per me e ogni tanto prendersi una pausa, per quanto possibile, è salutare.
Poi ci sarebbero tanti altri motivi tra cui un certo disincanto per quello che mi circonda, ossia il web, i blog e tutte le storie che galleggiano da quelle parti, argomenti che lascio perdere e dribblo volentieri in questo momento.
E considerando che per noi questo spazio è sempre stato più un diario di viaggio che un palcoscenico dove esibirsi, una pausa ci può stare.
E poi c’è che ho girato e sto girando tanto da un bel po’ ed è un toccasana. Inutile dire che è la parte più bella e divertente del mio lavoro. Così come l’impegno con una piccola casa editrice artigianale come Enogea, un impegno ben diverso e molto più stimolante di quello con i medi e grossi editori che pure mi è capitato di avere, mi assorbe molto.
Ma bando alle ciance e procediamo con ordine.
Innanzitutto una serie di segnalazioni: ai pochi che non se ne sono ancora accorti, un sito/blog/accademia,
degli alterati, dove trovate tutta una serie di amici e compagni di viaggio, da quelli
enogeici come il masna, il falco e Giampòl Gravina, ad altri che hanno bazzicato questi spazi come Giancarlo Marino, fino ad Armando Castagno per proseguire con Fabio Rizzari ed altri che animano uno spazio davvero gustoso.
Poi agli appassionati più sfegatati del vino la doverosa segnalazione delle nuove cartine di Enogea: Bordeaux e Valtellina vigna per vigna. A soli 7 euro. Roba da pazzi. (per info, masna@enogea.it)
E ancora il nuovo numero di Enogea, il 42, che proprio in questi giorni è in spedizione (un numero costa 12 euro, l’abo a sei numeri 58, ma poi ne riparliamo con calma). A questo giro ho scritto di Vulture e di Costiera Amalfitana: oltre un centinaio di vini recensiti, una 40ina le aziende raccontate.
E a proposito di Vulture, una piccola soddisfazione: aver iniziato a mappare una zona (sul numero 41 della stessa Enogea) dove dire che c’è una scarsa bibliografia a riguardo è dir poco.
Finiti gli sbrodolamenti, quanto al viandante, gli altri sono, anche loro, più o meno in giro. Pulcini ogni tanto si farà vivo, Cimmino pure. Almeno speriamo. Mio fratello per un annetto sarà a Londra e da lì può darsi che ci invierà qualche cronaca inglese in attesa di leggerlo, con Adele, sul sito de Il Fatto Quotidiano.
Quanto a me adesso sorseggio, bevo, il Cerasuolo di Vittoria del 2009 de I Gulfi. Lo ricordavo con un filo di legno in più e invece profuma di frutta polposa e fiori su un leggerissimo sottofondo speziato, ha un bel succo al palato, sale e il giusto abbraccio alcolico a tenerti compagnia. L’ho cacciato dal frigo da cinque minuti e due bicchieri sono già andati.
E per adesso basta così, per chi è su Facebook può leggermi con gli altri anche su
Enogea Social (da cui prometto di fregarmi almeno un paio di post per riproporli qui, perlomeno fino al momento in cui Enogea non si doterà di un sito più adatto). Per gli altri, cercheremo di essere più presenti, d’altronde non so se vi siamo mancati, ma voi ci siete mancati un bel po’.
p.s. quella che vedete in foto è una mia rielaborazione. Su Enogea 41 trovate la mappa di ciascun comune interessato dal disciplinare di produzione dell’aglianico del Vulture con la collocazione delle nuove 70 menzioni geografiche della Docg.
p.p.s. sono le 21 di una sera primaverile. Giusto per chiarirsi. Al mattino da buon napoletano bevo un biberon di caffè, non un Cerasuolo di Vittoria ;-)
posted by Mauro Erro @ 08:33,
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E a proposito di questo, due consigli, uno bianco e uno rosso: il Vermentino Costa Marina di Ottaviano Lambruschi 2011, un vino "completo" come pochi, non gli manca proprio niente, e l'Sp68 di Arianna Occhipinti, da frappato e nero d'Avola, mai cosi "pulito" e lindo, almeno a mia memoria, tutto succo e solarità.
Speriamo di aggiornarci al più presto.
posted by Mauro Erro @ 16:08,
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