Vino Nobile di Montepulciano riserva 1999, Crociani
lunedì 27 ottobre 2008
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Così parlò Susanna Crociani in una mail inviatami un paio di giorni fa rispondendo alle mie insistenti domande su lieviti, botti, portainnesti, terreni, tempi di fermentazione e chi più ne ha più ne metta. Dopodomani Susanna sarà qui a Napoli per raccontare la sua storia ed il suo vino a 15 bevitori curiosi, ed io, preparavo il materiale informativo e mi è toccato fare la parte del ricercatore universitario con l’occhio fermo sul microscopio. Già, deformazione umana che tenta di definire tutto e di spiegare tutto, anche una bottiglia di vino. Eppure, spesso, per chi sta dall’altra parte, per chi il vino lo fa, non è questione di portainnesti o botti di rovere, ma, “più semplicemente”, la propria vita.
La vita di una musicologa che lascia il proprio lavoro per continuare l’opera di papà Arnaldo, “un uomo (che) infondeva la sua passione per il vino attraverso i suoi racconti, era un vero e proprio cantastorie, e lo faceva con la massima naturalezza; sapeva parlare di vino, del suo vino, e lo faceva senza usare termini tecnici ma con un linguaggio semplice, a volte poetico, e arrivava al cuore di tutti”*, e che deve sopravvivere al dolore della prematura scomparsa del giovane fratello Giorgio che condivideva con lei, il lavoro, le speranze, le sconfitte, l’amore per la propria terra.
Quando ho letto la sua mail ho sorriso, ho pensato a quanto possa essere misero ridurre il tutto ad una sequenza di reazioni chimiche, raccontare il vino come fosse una scienza esatta, come dire 1 + 1 fa 2. Nel vino come nella vita uno più uno non fa quasi mai due, tutto è imprevedibile ed irrazionale, tutto esce dagli schemi e dai tentativi di definizione, tutto è semplicemente la vita raccolta in una bottiglia come fosse un messaggio. Il vino nasce, evolve e muore, ed ogni annata così, seppur diversa, racconta un momento, un passaggio, un ricordo. Il 1999 di Susanna Crociani è fatto di eleganza sussurrata che richiede un ascolto attento, meditato, concentrato, perché bisbiglia suadente di frutta rossa, di erbe officinali e di spezie, di rimandi terrosi, di cacao. E poi al palato ti coinvolge perché leggiadro scivola via grazie alla sua freschezza sostenuta, avendo allo stesso tempo una trama ed un nerbo impressionanti seppure non urlati né ostentati, con un tannino serrato, ma compiuto ed una lunga persistenza finale.
Già, il vino è poesia, musica e sentimento.
Il vino, come la vita.
Gabriella Ferri, Remedios
* La descrizione di papà Arnaldo è di Roberto Giuliani.
posted by Mauro Erro @ 13:05,
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Gli incazzati del vino
venerdì 24 ottobre 2008
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La malattia mentale addentra l'individuo che ne viene colpito in due percorsi antitetici. Da una parte lo può avviare verso la depressione; in alternativa, lo può addentrare in un percorso segnato da una sorta di euforia, più o meno eclatante.
A suo modo, il vino può essere considerato come un portatore di malattie mentali. Da una parte è generatore di depressione, e questo accade quando il consumo del vino non esiste, ovvero quando l'individuo è, o diventa, astemio. Dall'altra, invece, cala chi ne fa oggetto di consumo costante in una sorta di mondo euforico il cui livello di intensità un tempo era direttamente proporzionale alla quantità di alcool ingerito e che oggi, invece, è direttamente proporzionale alla quantità di conoscenza acquisita del vino.
A che pro ci lanciamo in questa perentoria affermazione? Vogliamo rilevare che, purtroppo, con sempre maggiore frequenza, più l'individuo ne sa di vino e più i suoi comportamenti risultano segnati da un complesso di alterazioni che non riescono ad essere descritte efficacemente utilizzando le parole inserite nei dizionari di medicina. Insomma sta accadendo che più è grande la conoscenza del vino e più il detentore di questa conoscenza diventa "stronzo".
Sembra una boutade ma è un discorso molto serio ed attiene ad un curioso aspetto dell'animo umano: quando un uomo è interessato a qualcosa tende, giustamente, ad approfondirne la conoscenza per godere di più della cosa che suscita il suo interesse. Ma, inevitabilmente, questa maggiore conoscenza spesso provoca una incapacità di godere al meglio della cosa stessa. Tornando al vino, l'alterazione che più spesso caratterizza chi comincia a conoscerne i rudimenti è quella di non sopportare quanto di sbagliato può accompagnare il vino stesso. Ora, se conoscere di più il vino vuole dire non goderne più perché la temperatura è più alta o più bassa di qualche grado, perché il bicchiere non è quello dalla forma perfetta, perché l'abbinamento con il cibo non è quello giusto, allora l'aver acquisito maggiore conoscenza ha portato inevitabilmente ad un abbassamento del livello di felicità che il vino stesso può potenzialmente dare a chi lo beve Se il crescente esercito degli "amanti del vino" deve trasformarsi in un esercito di "incazzati del vino", sicuramente è meglio rimanere in una beata ignoranza e riviste e guide sarebbe bene chiudessero baracca e burattini. Ma siamo ottimisti e ci piace sognare che non sia sempre e inevitabilmente così. Per cui, vogliamo rivolgere un invito ai sani lettori di pubblicazioni dedicate al vino a farne buon uso. A non utilizzare le conoscenze acquisite tramite articoli e recensioni per pavoneggiarsi con gli amici, per "umiliare" il cameriere del ristorantino che frequentano, per guardare dall'alto in basso il loro vecchio vinaio. A non etichettarsi con quella parola che non esiste (ancora) nei dizionari medici, usando il proprio sapere per deprimere gli altri. Conoscere il vino serve solo a ricavare un piacere maggiore, dai grandi vini come da quelli di consumo quotidiano. E magari ad evitare i dispiaceri che molti vini-trappola ci servono spesso in calici scintillanti.
Un vecchio proverbio siciliano recita "cummannari è megghiu di futtiri". Sarà vero, ma è certo che quello che l'ha scritto non ha mai saputo quanto è bello "futtiri" e quanta felicità può dare a sè e a gli altri.
posted by Mauro Erro @ 09:14,
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L’enotecaro: istruzioni per l’uso
martedì 21 ottobre 2008
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Non è la prima volta che ho l’opportunità di bere i vini selezionati da quest’ottimo collega francese, ed ogni volta, al di là di una certa difformità di gusto personale, mi tolgo il cappello in segno di riconoscenza. Eccovi l’elenco dei bianchi: Vin de Pays de l’Ile “Y.L.” Domaine d’Ecroce Y. Leccia 2007, Cotes du Rhone, Saint Cosme, L et C. Barruol 2007, Montlouis su Loire “Cuvèe Touche Militaine” sec – Le Roches des Violettes 2006, Riesling d’Alsace Tradition – Domaine Barmès Buecher 2006, Edelzwicker “sept grains” Domaine Barmès Buecher 2004. Ecco, invece, i rossi: Touraine “Cot Vieilles Vignes” Le Rocher des Violettes X. Weisskopf 2007, Minervois “Arbalète et Coquelicots” Domaine J.B. Senat 2007, Cotes du Rhone villages Rasteau Dom. Elodie Balme 2007, Vin de Pays de L’Ile de Beautè “Y.L.” Domaine d’Ecroce Y. Leccia 2005, Irancy “Sillage” B. Verret, Gevrey Chambertin “Jeunes Rois” Renè Bouvier 2005, Pernand Vergelesses 1er cru “Les Fichots” Domaine Nicolas Rossignol 2002.
L’attenzione si sofferma innanzitutto sulla naturalezza espressiva (il giusto equilibrio tra vitigno, territorio e uomo) dei vini, strettamente collegata alla facilità di beva di tutti, e cosa assai più importante, ai prezzi molto abbordabili.
La regola fondamentale è che i vini che si vendono in enoteca devono essere stati tutti bevuti! Non bisogna affidarsi solo ed esclusivamente ai nomi blasonati, ai premi delle guide o, ancor peggio, al rappresentante di turno (una categoria sempre più in crisi d’identità) armato dei punteggi di wine-spectator. Se non si vuole vendere aria fritta ai propri clienti bisogna aver bevuto ciò che si propone. Allo stesso tempo mi rendo conto che in una selezione che può partire dalle 400 etichette, considerando tutti gli altri prodotti che un tenutario d’enoteca beve alla ricerca di qualcosa di sfizioso, si possa andare in difficoltà. Ma se si è sposato un progetto, l’idea di un’azienda, allora diventa tutto più facile, basta tenersi informati sull’annata, creare rapporti diretti e amicali con il produttore e poi con calma assaggiare via via il vino. Un altro suggerimento è comprare dai distributori, ormai tanti in Italia, che propongono liste molto interessanti e che danno la possibilità di non caricarsi eccessivamente in termini quantitativi. Poi girare per il territorio, partecipare alle manifestazioni anche se assaggiare 150 vini di seguito non è il massimo, perchè vi danno la possibilità di poter trovare cose interessanti. Poi studiare, bere, studiare.
Nota: Ringrazio gli amici di bevute Fabio Cimmino, sommelier e giornalista, Adele Chiagano, giornalista e consulente enogastronomico, Paolo De Cristofaro, Gambero Rosso, Raffaele Del Franco, sommelier e consulente enogastronomico, Claudio Tenuta Sommelier, Tommaso Luongo delegato di Napoli dell’ais e Roberto Erro futuro neurologo, ma soprattutto Rosangela, la padrona di casa che ultimamente sopporta le nostre invasioni barbariche.
posted by Mauro Erro @ 12:14,
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Di un brunello di Soldera del 2001, della questione Montalcino e dell’identità del vino italiano
venerdì 17 ottobre 2008
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Anzi, a voler essere precisi, il presunto scandalo Brunello può considerarsi un effetto, coincidente e non consequenziale di una crisi economica generale che ha palesato, in maniera evidente, una crisi innanzitutto culturale nel microcosmo “vino” incapace di fronteggiarla. La realtà italiana del vino è giovane, nata in gran parte negli ultimi vent’anni dopo lo scandalo metanolo e cresciuta a razzo in maniera esponenziale. Cresciuta quanto e diretta dove, tocca deciderlo adesso. La prima domanda nasce spontanea se consideriamo un dato fondamentale: il 90% degli italiani, se non ricordo male, spende meno di 5 euro per l’acquisto di una bottiglia di vino. Quando l’acquista.
Questo è un elemento fondamentale di cui tener conto ai fini del discorso. Già, perché se da un lato determinati vini, i famosi supertuscans o i concentrati marmellatosi, rimangono immobili sugli scaffali delle enoteche e delle cantine dei ristoranti come ha ben osservato Luciano Pignataro in questo suo scritto in merito al confronto tra Ziliani e Rivella, da cui si evince non tanto gli effetti della crisi economica a mio parere, ma l’accresciuta consapevolezza degli appassionati, di quel pubblico colto disposto a spendere certe cifre per un prodotto, come sempre dovrebbe essere, unico e irripetibile piuttosto che la bevanda creata ad arte in cantina dall’enologo di grido (un cambiamento tale che porta Cernilli, neo direttore del Gambero Rosso, nel suo ultimo editoriale, a farci sapere che ora beve quasi solo vini bianchi, generalmente italiani, senza legno e da vitigni autoctoni, dopo che per anni la sua guida ha premiato i famosi invenduti) dall’altra non bisogna dimenticare che il mondo del vino italiano, dalle denominazioni di origine ai prezzi che sono lievitati in maniera vertiginosa e senza una giustificazione valida, senza che i produttori abbiano avuto la capacità, come i francesi, di ancorarlo al livello qualitativo dell’annata, pone l’inevitabile esigenza di dover cambiare per poter competere sul mercato.
In questi ultimi tempi i discorsi si sono sicuramente inaspriti sviluppandosi anche su una contrapposizione più giornalistica che reale: alla ricerca del titolo ad effetto o della polemica che porta lettori, (allo stesso modo in cui gli ilcinesi dal Brunello taroccato creavano lo slogan) si è arrivati a generalizzazioni sbagliate dimenticando il laicismo che si richiede a chi in questo settore opera, arrivando a posizioni estreme, quasi ideologizzate. Lieviti indigeni e lieviti selezionati, vino industriale e vino contadino, botte di Slavonia e barrique francesi e via così. Ma perché, i contadini esistono ancora? Oppure voi immaginate Gianfranco Soldera con una camicia a fiori e atteggiamento naif zampettare per le sue vigne parlando agli uccelli? Bisognerebbe studiare e fare attenzione quando si fanno certe affermazioni, bisognerebbe sapere che Gianfranco Soldera, ad esempio, è da più di dieci anni che porta avanti uno studio in collaborazione con l’Università di Firenze sui lieviti indigeni presenti in azienda, studi che dimostrano che il loro utilizzo rispetto all’inoculo di un qualsiasi lievito selezionato porta ad un miglioramento organolettico del vino in termini di complessità di aromi e profumi. Dunque?
Che l’aria stia cambiando è palese. Basterebbe solo farsi un giro per internet e notare quanti scritti quest’anno elogiano le guide (quella de L’espresso in particolar modo) rispetto ai massici e talvolta cattivi attacchi degli anni passati. Internet e la comunicazione on-line hanno avuto un ruolo fondamentale in questo avvio (si spera) di cambiamento. Ma non commettiamo l’errore di sopravalutare la comunicazione on-line, per favore.
Se da un lato le guide hanno perso appeal, il loro ruolo di influenzare il mercato, di determinarlo ed oggi, invece, si accontentano di stargli dietro, allo stesso modo, la comunicazione “internettiana” non ha ancora nei suoi fruitori la massa. E questo è il famoso punto cruciale.
Possiamo tranquillamente affermare che la comunicazione eno-gastronomica specializzata deve cambiare passo. A seconda dei punti di vista, si può affermare o che ha fallito nella incapacità di andare oltre le riviste patinate, il lustrini e le paillettes dei premi e delle cene di gala non riuscendo a rivolgersi alla massa, a quel famoso 90% degli italiani che spende meno di 5 euro per una bottiglia di vino, o che si è trattato di un primo step, a cui deve seguire il passaggio dal determinare una moda all’infondere una cultura. Quindi, forse, bisognerebbe ripensarla, perché una guida deve guidare e non inseguire, altrimenti a che serve?
Allo stesso tempo bisogna osservare che il mondo della blogosfera è frequentato dai suoi stessi attori. Certo ha avuto il merito d’innescare un dialogo virtuoso ampliando il numero di voci: non solo i giornalisti di settore, ma gli operatori tutti, dai ristoratori ai sommelier, agli enotecari, creando un confronto che molto ha contribuito al cambiamento in atto; ma la massa, oggi, è ancora lontana dallo strumento.
Certo, se mai la questione del Brunello, riferendomi all’aspetto giudiziale della questione, avrà mai una fine, se si dimostrasse con certezza assoluta che alcuni Brunello erano taroccati, alcuni giornalisti farebbero bene a motivare per chiarezza ai propri lettori come si è potuto premiarli sempre e comunque negli anni passati.
Altri soggetti cruciali della questione sono proprio gli operatori di questo settore, i sommeliers in primis. A loro il compito principale di diffondere la cultura del buon bere, ma per far questo bisognerebbe un attimo lasciare i tecnicismi e il gergo, togliersi dall’impaccio di disquisire di ceramiche e cristalli fini, perché così facendo non si fa altro che continuare sulla china che porta gli Albanese e i Salemme a prenderli in giro, rischiando di divenire ai più, zimbelli da prendere in giro, e nel peggiore dei casi di fare la fine degli stessi vini che loro stessi hanno piazzato sugli scaffali, limitandosi a sfogliare le guide piuttosto che adoperarsi in una ricerca sul territorio: di diventare, insomma, snobbati ed inutili o tutt’al più buoni per mescere vinelli a bevitori attempati ai banchetti matrimoniali.
In conclusione, con lo stesso laicismo che invoco, non posso certo esimermi dal farmi una domanda dopo aver bevuto il brunello di Gianfranco Soldera, quel liquido rosso rubino dalle accattivanti trasparenze che si mostrava così dinamico da invogliarmi ogni dieci minuti a piazzarci il naso per vedere cosa di diverso aveva da mostrarmi: dalle sfumature floreali alle erbe officinali, dal frutto di ciliegia appena accennato alla sensazioni di goudron, ai rimandi di spezie e alla mineralità diffusa. E che al palato colpiva, come i grandi vini sanno fare, per la contrapposizione della complessità e della stratificazione degli aromi nella loro semplicità, nella facilità di quel vino di farsi bere, della facilità che porta a svuotare il bicchiere accompagnandolo al pasto. Beh, dicevo, dopo aver bevuto un vino del genere non ci si può non fare una domanda: delle due l’una, o i propositori del Brunello taroccato sono in malafede o di vino hanno capito ben poco.
D’altronde, la crisi che in questo momento storico si è abbattuta sull’occidente dimostra per l’ennesima volta una cosa: il mercato senza principi etici d’ispirazione, porta alla rovina.
E se da un lato esistono i “furbi” così come li ho chiamati all’inizio, dall’altro esistono dei consumatori truffati.
Questo è un elemento fondamentale di cui tener conto ai fini del discorso. Già, perché se da un lato determinati vini, i famosi supertuscans o i concentrati marmellatosi, rimangono immobili sugli scaffali delle enoteche e delle cantine dei ristoranti come ha ben osservato Luciano Pignataro in questo suo scritto in merito al confronto tra Ziliani e Rivella, da cui si evince non tanto gli effetti della crisi economica a mio parere, ma l’accresciuta consapevolezza degli appassionati, di quel pubblico colto disposto a spendere certe cifre per un prodotto, come sempre dovrebbe essere, unico e irripetibile piuttosto che la bevanda creata ad arte in cantina dall’enologo di grido (un cambiamento tale che porta Cernilli, neo direttore del Gambero Rosso, nel suo ultimo editoriale, a farci sapere che ora beve quasi solo vini bianchi, generalmente italiani, senza legno e da vitigni autoctoni, dopo che per anni la sua guida ha premiato i famosi invenduti) dall’altra non bisogna dimenticare che il mondo del vino italiano, dalle denominazioni di origine ai prezzi che sono lievitati in maniera vertiginosa e senza una giustificazione valida, senza che i produttori abbiano avuto la capacità, come i francesi, di ancorarlo al livello qualitativo dell’annata, pone l’inevitabile esigenza di dover cambiare per poter competere sul mercato.
In questi ultimi tempi i discorsi si sono sicuramente inaspriti sviluppandosi anche su una contrapposizione più giornalistica che reale: alla ricerca del titolo ad effetto o della polemica che porta lettori, (allo stesso modo in cui gli ilcinesi dal Brunello taroccato creavano lo slogan) si è arrivati a generalizzazioni sbagliate dimenticando il laicismo che si richiede a chi in questo settore opera, arrivando a posizioni estreme, quasi ideologizzate. Lieviti indigeni e lieviti selezionati, vino industriale e vino contadino, botte di Slavonia e barrique francesi e via così. Ma perché, i contadini esistono ancora? Oppure voi immaginate Gianfranco Soldera con una camicia a fiori e atteggiamento naif zampettare per le sue vigne parlando agli uccelli? Bisognerebbe studiare e fare attenzione quando si fanno certe affermazioni, bisognerebbe sapere che Gianfranco Soldera, ad esempio, è da più di dieci anni che porta avanti uno studio in collaborazione con l’Università di Firenze sui lieviti indigeni presenti in azienda, studi che dimostrano che il loro utilizzo rispetto all’inoculo di un qualsiasi lievito selezionato porta ad un miglioramento organolettico del vino in termini di complessità di aromi e profumi. Dunque?
Che l’aria stia cambiando è palese. Basterebbe solo farsi un giro per internet e notare quanti scritti quest’anno elogiano le guide (quella de L’espresso in particolar modo) rispetto ai massici e talvolta cattivi attacchi degli anni passati. Internet e la comunicazione on-line hanno avuto un ruolo fondamentale in questo avvio (si spera) di cambiamento. Ma non commettiamo l’errore di sopravalutare la comunicazione on-line, per favore.
Se da un lato le guide hanno perso appeal, il loro ruolo di influenzare il mercato, di determinarlo ed oggi, invece, si accontentano di stargli dietro, allo stesso modo, la comunicazione “internettiana” non ha ancora nei suoi fruitori la massa. E questo è il famoso punto cruciale.
Possiamo tranquillamente affermare che la comunicazione eno-gastronomica specializzata deve cambiare passo. A seconda dei punti di vista, si può affermare o che ha fallito nella incapacità di andare oltre le riviste patinate, il lustrini e le paillettes dei premi e delle cene di gala non riuscendo a rivolgersi alla massa, a quel famoso 90% degli italiani che spende meno di 5 euro per una bottiglia di vino, o che si è trattato di un primo step, a cui deve seguire il passaggio dal determinare una moda all’infondere una cultura. Quindi, forse, bisognerebbe ripensarla, perché una guida deve guidare e non inseguire, altrimenti a che serve?
Allo stesso tempo bisogna osservare che il mondo della blogosfera è frequentato dai suoi stessi attori. Certo ha avuto il merito d’innescare un dialogo virtuoso ampliando il numero di voci: non solo i giornalisti di settore, ma gli operatori tutti, dai ristoratori ai sommelier, agli enotecari, creando un confronto che molto ha contribuito al cambiamento in atto; ma la massa, oggi, è ancora lontana dallo strumento.
Certo, se mai la questione del Brunello, riferendomi all’aspetto giudiziale della questione, avrà mai una fine, se si dimostrasse con certezza assoluta che alcuni Brunello erano taroccati, alcuni giornalisti farebbero bene a motivare per chiarezza ai propri lettori come si è potuto premiarli sempre e comunque negli anni passati.
Altri soggetti cruciali della questione sono proprio gli operatori di questo settore, i sommeliers in primis. A loro il compito principale di diffondere la cultura del buon bere, ma per far questo bisognerebbe un attimo lasciare i tecnicismi e il gergo, togliersi dall’impaccio di disquisire di ceramiche e cristalli fini, perché così facendo non si fa altro che continuare sulla china che porta gli Albanese e i Salemme a prenderli in giro, rischiando di divenire ai più, zimbelli da prendere in giro, e nel peggiore dei casi di fare la fine degli stessi vini che loro stessi hanno piazzato sugli scaffali, limitandosi a sfogliare le guide piuttosto che adoperarsi in una ricerca sul territorio: di diventare, insomma, snobbati ed inutili o tutt’al più buoni per mescere vinelli a bevitori attempati ai banchetti matrimoniali.
In conclusione, con lo stesso laicismo che invoco, non posso certo esimermi dal farmi una domanda dopo aver bevuto il brunello di Gianfranco Soldera, quel liquido rosso rubino dalle accattivanti trasparenze che si mostrava così dinamico da invogliarmi ogni dieci minuti a piazzarci il naso per vedere cosa di diverso aveva da mostrarmi: dalle sfumature floreali alle erbe officinali, dal frutto di ciliegia appena accennato alla sensazioni di goudron, ai rimandi di spezie e alla mineralità diffusa. E che al palato colpiva, come i grandi vini sanno fare, per la contrapposizione della complessità e della stratificazione degli aromi nella loro semplicità, nella facilità di quel vino di farsi bere, della facilità che porta a svuotare il bicchiere accompagnandolo al pasto. Beh, dicevo, dopo aver bevuto un vino del genere non ci si può non fare una domanda: delle due l’una, o i propositori del Brunello taroccato sono in malafede o di vino hanno capito ben poco.
D’altronde, la crisi che in questo momento storico si è abbattuta sull’occidente dimostra per l’ennesima volta una cosa: il mercato senza principi etici d’ispirazione, porta alla rovina.
E se da un lato esistono i “furbi” così come li ho chiamati all’inizio, dall’altro esistono dei consumatori truffati.
posted by Mauro Erro @ 13:27,
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Aprite le porte della percezione: De rosatibus
mercoledì 15 ottobre 2008
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Come ad esempio il rosato di Cantina Giardino da Coda di volpe rossa, annata 2006, per me “rosato dell’anno” (a mio insindacabile giudizio) prodotto da vigne vecchie di 60 anni piantate su suoli di flysch calcarei, argillosi, arenari ad una altitudine di 450 metri sul livello del mare. Macerato sulle bucce per due giorni, fermentato con lieviti indigeni in barrique esauste e affinato sui lieviti fini per almeno sei mesi mi ha salutato brillante di un colore che si collocava tra il rosato cerasuolo e il rubino scarico. Al naso frutto di ciliegia di disarmante “croccantezza” accompagnato da rimandi “fragolosi” e sfumature speziate, al palato un’acidità ed una mineralità che facevano da contraltare suggerendomi di correre subito al tavolo per accompagnarlo degnamente con un lauto pasto.
Un lauto pasto a base di risotto di zucca e taleggio, invece, ha accompagnato meravigliosamente il rosato “pista e mutta” targato 1999 - sì avete letto bene, una vendemmia di nove anni fa - di Massimiliano Calabretta, patron dell’omonima azienda etnea. Per me che amo i rosati di quel pazzo spagnolo di Lopez de Heredia non è una novità bere rosati d’antan: ma in questo caso, a maggior ragione, vi consiglio di cercarvelo perché merita l’assaggio (la bevuta). Da nerello mascalese e un saldo di cappuccio, da vigne di 70 anni a piede franco piantate ad un’altitudine di 750 metri slm, al naso racconta ciliegia, frutta candita e cera d’api, al palato, con ottima corrispondenza e bella freschezza acida, si lascia bere che è un piacere.
Nota: dopo aver svuotato una delle due bottiglie (o entrambe) ascoltate Steve Wonder, cliccate sull'immagine, e divertitevi.
posted by Mauro Erro @ 12:28,
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A volte ritornano: eno-laboratorio 08/09
mercoledì 8 ottobre 2008
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Bene, si riparte, e con il botto. Di fianco vedete la locandina dei primi 5 appuntamenti di questo nuovo anno, e non si poteva ripartire se non dal casus belli di questi mesi che ha visto pochi giorni or sono il duello tra Franco Ziliani, supportato da Teobaldo Cappellano, i cui Barolo incontreremo a Dicembre, e il Cavalier Rivella (una scontro su cui scriverò a breve): Brunello di Montalcino come tradizione (e disciplinare) comandano, dove spicca, tra gli altri buonissimi e di bellissime realtà, quello di Gianfranco Soldera. Poi Susanna Crociani e il suo Nobile di Montepulciano, il Chianti di Giovanna Morganti, il Lessona di Sella e il Barolo dei Cappellano. E questo è solo l’inizio. Cosa aggiungere?
Buon divertimento per chi ci sarà.
Daft punk, Harder, better, faster, stronger.
posted by Mauro Erro @ 14:51,
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Fiano di Avellino 2007, Azienda Vadiaperti
domenica 5 ottobre 2008
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posted by Mauro Erro @ 12:00,
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