Brazan 2012, I Clivi
giovedì 29 gennaio 2015
Mi spiace leggere ciclicamente della crisi in cui verserebbe il Friuliano, inteso come tocai, vitigno la cui indicazione, dopo una disputa lunghissima con gli ungheresi, è vietata in etichetta. Mi spiace perché adoro la ricca e variegata personalità che sanno donare le terre del Friuli in termini di persone e vini, e in particolare mi spiace perché reputo il tocai Friuliano tra le più interessanti espressioni di vino bianco italiano. Perché sa intrecciare una personalità aromatica evidente, ma non stucchevole, alla possibilità di declinarlo in vari stili, senza rinunciare ad esprimere anche la propria matrice territoriale.
Tra i molti che appena posso acquisto, bevo e conservo, ho una predilezione per quelli de I Clivi della famiglia Zanusso, che ebbi la fortuna di conoscere un po’ di anni fa. Per informazioni più dettagliate sulla azienda, sui vini, le terre, la storia dei Zanusso e il loro modo di condurre le vigne e intrepretare i vini vi rimando a questo mio pezzo del 2009, successivo ad una bella verticale che ebbi modo di organizzare.
Qui, invece, vorrei spendere due parole sullo stile dopo l’assaggio della 2012 durante le festività natalizie. Un compito non facile cui ho sottoposto Brazan, perché si è trovato di fianco due Champagne davvero buoni, e per qualsiasi vino fermo diventa dura farsi bere.
La purezza, la leggerezza, la soavità; per lo stile di questi vini posso fare riferimento a due concetti ben espressi molteplici volte da Giampaolo Gravina: l’acqua di roccia e il bere per sottrazione. Entrambi si attagliano alla perfezione a queste interpretazioni del tocai dei Zanusso, delle volte più austera altre più concessiva in funzione dell’annata.
Non c’è nei vini de I Clivi la polifonia, l’espressione orchestrale, l’essenzialità è sostanza che si esprime attraverso l’assenza. L’intreccio di erbe aromatiche e pietra e resine e balsami è qualcosa di simile al ricamo dei merletti di una volta, semplicità e precisione e nessuna ostentazione barocca. È nerbo e non fibra al palato, è ritmo senza dispersione. E’, per rimanere in ambito musicale, rock nudo e crudo, senza arrangiamenti, senza orpelli, chitarra, batteria, basso: solo quel che serve.
Quando li assaggio, quando li bevo, quando li conservo, mi viene sempre in mente una frase di Keith Richards, l’altra metà della mela dei Rolling Stones. Più o meno recitava così: “sono 50 anni che suoniamo gli stessi tre accordi”.
Sarà anche così, ma sono quei riff che ti accompagnano e rimangono dentro tutta la vita. E ciò vale anche per i tocai de I Clivi.
posted by Mauro Erro @ 10:37, ,
Annate diverse
lunedì 26 gennaio 2015
Non esistono annate minori, ma diverse è una di quelle frasi che ho sentito spesso ripetere dai produttori e che ha sempre generato in me un composito sentimento di tenerezza e diffidenza. Tenerezza perché capisco che ogni scarrafone è bello a mamma sua, diffidenza perché so bene che il vino si deve anche vendere e il più buono è sempre l’ultimo. Ciò nonostante riconosco che non di rado, parlando dei vini figli di queste annate, sarebbe più corretto usare il termine diverse evitando così un valore di deminutio non sempre opportuno. Anche perché l’interpretazione (e la fortuna) può offrire spunti interessantissimi anche quando non ci aspettiamo molto visto l’andamento climatico.
È il caso ad esempio del Taurasi 2005 di Michele Perillo, vigneron in Castelfranci.
Della sua storia e di questo vino vi invito a leggere qui il bell'articolo di Paolo De Cristofaro (che ci tornerà utile anche in seguito), limitandomi a due parole due sulla base dell’esperienza ripetuta in questi ultimi mesi. E devo dire che se il profilo olfattivo, che necessita di respirare per liberarsi da alcune impuntature, si mostra coerente, non concessivo ma tenero al tempo stesso, vagando dalla note di frutta – tra l’amarena e la prugna – alle note di cenere, di balsami, di spezie…è al palato che il 2005 di Michele Perillo ha il suo sussulto, soprattutto nel finale del sorso. Un finale che non ha la potenza aromatica delle annate migliori, ma un senso di asciuttezza pregno di sapori, di rabarbaro, pompelmo e arancia amara e fumo e...
Altro esempio che mi è capitato ultimamente tra le mani, il naso e il palato è il Brunello di Montalcino 2009 di Pietroso, l’azienda guidata da Gianni Pignattai. Rubo dall’ultimo Enogea in distribuzione in questi giorni e dallo speciale I cru di Montalcino: Montosoli, firmato proprio da Paolo e arricchito dagli approfondimenti cartografici del masna, alcune notizie sull’azienda: [...] una piccola produzione da poco più di 35.000 bottiglie annue, derivante da circa 4 ettari (tutti a sangiovese) distribuiti su tre blocchi viticoli principali: Fornello (un ettaro circa nel quadrante nord, 350 metri di altitudine, terreni galestrosi), Colombaiolo (2 ettari sul versante sud, nei pressi dell’Abbazia di Sant’Antimo, 400 metri di altitudine, con argilla, tufo e galestro) e Pietroso (un ettaro attorno alla cantina, 500 metri di altitudine, suoli poveri, con tanta roccia e sasso). Le uve vengono lavorate separatamente, con vinificazioni classiche in acciaio, fermentazioni spontanee e macerazioni di circa tre settimane. Solo dopo qualche mese dalla vendemmia viene deciso il blend che prosegue l’affinamento da Brunello, perlopiù in rovere da 30 ettolitri [...].
Un Brunello che “non sarà” i 2010 che tutti aspettiamo - per verificare se sarà vera gloria - ma che si beve con estremo piacere. Perché è goloso e misurato, saporito ed elegante, non ingombra, ma accompagna chiudendo su un dolce e caldo abbraccio.
posted by Mauro Erro @ 17:00, ,
Il mio signore del fiano era Antoine
lunedì 19 gennaio 2015
da sx Antoine Gaita, Raffaele Troisi, maggio 2011 presso l'Az. Pietracupa |
Sfogliando l’album dei ricordi, dopo la notizia della morte di Antoine Gaita, le fotografie hanno finito con il sovrapporsi inesorabilmente mischiando momenti intimi con gli incontri e le occasioni professionali. Era uno dei miei vini del cuore il suo vigna della Congregazione e Antoine Gaita è stato una parte importante di questo lavoro, i miei esordi e i numerosi pezzi che gli ho dedicato. La prima volta che incontrai questa sorta di folletto extralarge che camminava ondeggiando, che aveva un’inflessione strana quando parlava e che giocava con le provette, fui immerso in una specie di fiaba. C'era una donna di nome Diamante, e anche lei aveva un accento strano, e c'era una piccola vigna selvaggia piantata sulla sassara e, in quel che sembrava poco più di un garage, le bottiglie erano accatastate senza etichetta; quando le prendevi controluce vedevi degli arabeschi. Fu questo il mio Antoine, il mio Signore del fiano.
Lo era in maniera diversa da come lo è stato Antonio Mastroberardino che il fiano moderno l’ha pensato, difeso e creato. Antoine Gaita segna un’epoca, quella dell’affermazione del Fiano di Avellino tra l’olimpo dei bianchi nazionali a partire dalla fine degli anni ’90. Si affianca ad altri vignaioli come Clelia Romano e Guido Marsella, e fa parte di quel che potremmo chiamare laboratorio Montefredane, con la famiglia Troisi di Vadiaperti e i Loffredo di Pietracupa. Non è solo un nuovo toponimo - i cui fiano dalle timbriche torbate ricordano la Scozia - che nasce e si accosta allo storico e tradizionale comprensorio di Lapìo. È un nuovo modo di intendere la professione. I montefredanesi si fanno interpreti, cantautori.
Il resto lo fece la sfrontatezza di cui era capace Antoine: il suo Fiano di Avellino vigna della Congregazione era proposto al doppio del prezzo della quasi totalità dei fiano in commercio allora. Tra i pochi ad azzardare il concetto di cru riportando la vigna in etichetta.
Il suo è stato uno stile ben identificato dagli appassionati, i suoi vini riconoscibili, e nonostante ciò, pochi come lui hanno saputo viaggiare su più piani e lungo tracciati nuovi, ricercando continuamente: d’altronde se una tradizione non la hai in qualche modo devi costruirtela. Non poteva che essere un mondo di contaminazioni il suo, emigrante vissuto in Belgio e rientrato nella sua Irpinia, accompagnato in quest’avventura dalla moglie Diamante di ritorno dagli States. Non credo ci siano molte aziende in Italia che, con ridottissime dimensioni come queste, solo 6000 pezzi il suo Congregazione, abbiano spaziato tanto. Il fiano affinato in acciaio, l’alter-ego in legno, le prove con i lieviti indigeni, un fiano del 2000 dimenticato in una botticella scolma a giocare con la flor: gli diede il nome di suo figlio, cuvée Enrico. Si è misurato con il greco, ha giocato con un rosato da aglianico che chiamò Serena come sua figlia, un vino che mi ha tenuto compagnia per tanti anni. Poi decise di fare sul serio con il Taurasi. Fino al chiacchierato La Congregazione 2012.
Oltre quell’aspetto pacioso, il fare calmo, il suo ragionare era tutt’altro che lineare, ma pieno di sussulti, di improvvise accelerazioni, verità oniriche e intuizioni che aveva mentre ragionava da chimico o quando si era messo a studiare per diventare enologo. Talvolta era irruento e irrefrenabile, altre volte disponibile e riflessivo mentre fumava un sigaro. Aveva la lingua sciolta e la risata grassa. Sapeva essere spavaldo, fiero, istrionico e provocatorio; metteva le mani in tasca e gongolando, ruotando a tempo il bacino, ti diceva la sua ultima pensata a voce bassa e mento alto, scandendo bene le parole e guardandoti fisso: Sai, esordiva spesso.
Lo conteneva Diamante Renna, sua moglie, sempre al suo fianco, che con un buffetto sulla pancia gli diceva di smetterla e poi ti sorrideva come a dire: è il solito mascalzone.
Non è per me difficile tra le tante belle interpretazioni del suo Vigna della Congregazione – 2010, 2006, 2004, l’ultimo 2012, il sorprendente 2003 o il ’98 in legno – scegliere la mia preferita. Ne ho aperte tante, è stata troppe volte mia complice, compagna di prime volte importanti e decisive. La sua 2002. Tutti a ripeterci che era un’annata di merda, lui ci regalò un amorevole limerick sotto forma di vino.
posted by Mauro Erro @ 08:54, ,
Falsa partenza
mercoledì 14 gennaio 2015
Una volta un’amica mi raccontò della morte del padre dopo una lunga malattia. Mi confessò del senso di fastidio che aveva provato alla presenza del marito quando l’aveva accompagnata alla casa materna. In quel momento, mi disse, avrebbe voluto starsene da sola con sua madre e sua sorella, e con papà. D’altronde il rapporto tra suo marito e suo padre era poco più che formale, aggiunse nel darsi una giustificazione. E più suo marito si mostrava contrito, più si dava da fare per rendersi utile, più il suo fastidio diventava insofferenza, rabbia. Lei voleva solo guardare gli album di famiglia con sua sorella e sua madre. E dare un bacio a papà. Riportare anche solo apparentemente le lancette indietro. A 20 anni prima. Solo per poco.
Con delle scuse riuscì a liberarsene e a rispedirlo a casa, e quella notte, per un attimo, aveva persino pensato di dirgli l’orario sbagliato del funerale pur di non vederlo. Giusto un paio d’ore. Un malinteso. Non ci siamo capiti.
Con delle scuse riuscì a liberarsene e a rispedirlo a casa, e quella notte, per un attimo, aveva persino pensato di dirgli l’orario sbagliato del funerale pur di non vederlo. Giusto un paio d’ore. Un malinteso. Non ci siamo capiti.
E l’altro giorno quando è morto Pino Daniele ho provato le stesse cose. Troppe chiacchiere, troppo parlare, troppo. Un troppo che non avrei voluto alimentare a mia volta. Ma il superamento del dolore passa anche attraverso la condivisione di esso. Ti riconosci nell’altro e pian piano le cose si fanno meno dure.
In uno strano sogno ho rivisto una scena di una commedia di Raffaele Viviani, La morte di Carnevale, in cui due becchini litigano per accaparrarsi il presunto morto. Ripetevano sempre la stessa frase che nella commedia non c’è: la morte è una buona occasione.
E se inizialmente in quel buona c’era tutta la mia acrimonia verso quelle cornacchie che si riempivano la bocca di parole stupide e banali, straparlando di Pino Daniele e di Napoli, pian piano ha assunto un significato più ampio. La morte è senz’altro l’occasione per guardare le persone per quello che sono, nel bene come nel male.
Si ho provato anche rabbia, una rabbia che ho codificato e ho capito che riguardava tanto me quanto Pino Daniele, cornuto e mazziato. Già perché è un paradosso che proprio per lui, che un giorno aveva deciso di andar via da Napoli, di essere qualcos’altro oltre che napoletano, essere sé stesso e non essere più relegato al ruolo di ennesimo Masaniello, la gran parte delle parole spese alla sua morte riguardassero Napoli, i napoletani, la napoletanità presunta o reale.
Quante ne ho lette. Ho provato quella stessa sensazione che credo abbia provato lui all’epoca. Uno stato di apnea, sentirsi in una gabbia asfittica, l’essere ridotti a macchietta. No grazie, il caffè mi rende nervoso, avrebbero detto Lello Arena e Massimo Troisi. E anch’io avrei voluto essere qualcos’altro. Avrei voluto mettere la sua Je so pazz, mandando in loop il liberatorio verso finale, ‘nun ce scassat ‘o cazz’.
Si, ‘nun ce scassat ‘o cazz’ lo avrei detto sinceramente anche ad alcuni napoletani. E a quel modo sciatto e volgare di volersi rappresentare. Ai chiagnazzari, a quelli che si lamentano sempre, a quelli che descrivono Napoli come un quadretto ricoperto di polvere dimenticato in uno sgabuzzino, a quelli sempre pronti a tirar dentro De Filippo e il suo fuitevenne. A quelli che hanno il complesso di inferiorità e hanno bisogno di un nemico per definirsi. Pino Daniele ha suonato e cantato per chi i complessi li aveva e non li voleva.
E alla fine ho risentito mille volte Napule è.
Napule è tutto nu' suonno e a sape tutto 'o munno
Ma nun sann' a verità.
E’ la purezza del gesto, il testo del diciottenne Pino Daniele tutto istinto e stati d’animo: è la genialità dello scugnizzo che gioca sui basoli di largo Banchi nuovi e arrivato sul fondo crossa al centro con una rabona. Napule è mi piace perché è indeterminatezza, perché una città di eterne contraddizioni gioca la sua partita shakespeariana dell’essere o non essere. Napoli è tutta nu suonno. Un’illusione.
Napoli è mille colori e mille paure.
Ma Napoli è ancora tanti criaturi, la cui voce sale piano piano.
E tu saje ca’ nun si sulo*.
Ed eccomi qui a scrivere le ultime battute con un senso di gratitudine e quasi di dovere. Perché farei un grosso torto a quella parte di me che è stata Pino Daniele dissimulando quel sentimento non di ribellione, parola sbagliata per una città che ha bisogno di un po’ di normalità, ma di non rassegnazione.
posted by Mauro Erro @ 16:41, ,