Il mio signore del fiano era Antoine

da sx Antoine Gaita, Raffaele Troisi, maggio 2011 presso l'Az. Pietracupa

Sfogliando l’album dei ricordi, dopo la notizia della morte di Antoine Gaita, le fotografie hanno finito con il sovrapporsi inesorabilmente mischiando momenti intimi con gli incontri e le occasioni professionali. Era uno dei miei vini del cuore il suo vigna della Congregazione e Antoine Gaita è stato una parte importante di questo lavoro, i miei esordi e i numerosi pezzi che gli ho dedicato. La prima volta che incontrai questa sorta di folletto extralarge che camminava ondeggiando, che aveva un’inflessione strana quando parlava e che giocava con le provette, fui immerso in una specie di fiaba. C'era una donna di nome Diamante, e anche lei aveva un accento strano, e c'era una piccola vigna selvaggia piantata sulla sassara e, in quel che sembrava poco più di un garage, le bottiglie erano accatastate senza etichetta; quando le prendevi controluce vedevi degli arabeschi. Fu questo il mio Antoine, il mio Signore del fiano. 

Lo era in maniera diversa da come lo è stato Antonio Mastroberardino che il fiano moderno l’ha pensato, difeso e creato. Antoine Gaita segna un’epoca, quella dell’affermazione del Fiano di Avellino tra l’olimpo dei bianchi nazionali a partire dalla fine degli anni ’90. Si affianca ad altri vignaioli come Clelia Romano e Guido Marsella, e fa parte di quel che potremmo chiamare laboratorio Montefredane, con la famiglia Troisi di Vadiaperti e i Loffredo di Pietracupa. Non è solo un nuovo toponimo - i cui fiano dalle timbriche torbate ricordano la Scozia - che nasce e si accosta allo storico e tradizionale comprensorio di Lapìo. È un nuovo modo di intendere la professione. I montefredanesi si fanno interpreti, cantautori
Il resto lo fece la sfrontatezza di cui era capace Antoine: il suo Fiano di Avellino vigna della Congregazione era proposto al doppio del prezzo della quasi totalità dei fiano in commercio allora. Tra i pochi ad azzardare il concetto di cru riportando la vigna in etichetta. 

Il suo è stato uno stile ben identificato dagli appassionati, i suoi vini riconoscibili, e nonostante ciò, pochi come lui hanno saputo viaggiare su più piani e lungo tracciati nuovi, ricercando continuamente: d’altronde se una tradizione non la hai in qualche modo devi costruirtela. Non poteva che essere un mondo di contaminazioni il suo, emigrante vissuto in Belgio e rientrato nella sua Irpinia, accompagnato in quest’avventura dalla moglie Diamante di ritorno dagli States. Non credo ci siano molte aziende in Italia che, con ridottissime dimensioni come queste, solo 6000 pezzi il suo Congregazione, abbiano spaziato tanto. Il fiano affinato in acciaio, l’alter-ego in legno, le prove con i lieviti indigeni, un fiano del 2000 dimenticato in una botticella scolma a giocare con la flor: gli diede il nome di suo figlio, cuvée Enrico. Si è misurato con il greco, ha giocato con un rosato da aglianico che chiamò Serena come sua figlia, un vino che mi ha tenuto compagnia per tanti anni. Poi decise di fare sul serio con il Taurasi. Fino al chiacchierato La Congregazione 2012.
 
Oltre quell’aspetto pacioso, il fare calmo, il suo ragionare era tutt’altro che lineare, ma pieno di sussulti, di improvvise accelerazioni, verità oniriche e intuizioni che aveva mentre ragionava da chimico o quando si era messo a studiare per diventare enologo. Talvolta era irruento e irrefrenabile, altre volte disponibile e riflessivo mentre fumava un sigaro. Aveva la lingua sciolta e la risata grassa. Sapeva essere spavaldo, fiero, istrionico e provocatorio; metteva le mani in tasca e gongolando, ruotando a tempo il bacino, ti diceva la sua ultima pensata a voce bassa e mento alto, scandendo bene le parole e guardandoti fisso: Sai, esordiva spesso.
Lo conteneva Diamante Renna, sua moglie, sempre al suo fianco, che con un buffetto sulla pancia gli diceva di smetterla e poi ti sorrideva come a dire: è il solito mascalzone

Non è per me difficile tra le tante belle interpretazioni del suo Vigna della Congregazione – 2010, 2006, 2004, l’ultimo 2012, il sorprendente 2003 o il ’98 in legno – scegliere la mia preferita. Ne ho aperte tante, è stata troppe volte mia complice, compagna di prime volte importanti e decisive. La sua 2002. Tutti a ripeterci che era un’annata di merda, lui ci regalò un amorevole limerick sotto forma di vino.

posted by Mauro Erro @ 08:54,

1 Comments:

At 19 gennaio 2015 alle ore 19:11, Blogger dr. Gonzo said...

Splendido omaggio, Mauro, complimenti.
Antoine manca e...mancherà.

 

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