Falsa partenza
mercoledì 14 gennaio 2015
Una volta un’amica mi raccontò della morte del padre dopo una lunga malattia. Mi confessò del senso di fastidio che aveva provato alla presenza del marito quando l’aveva accompagnata alla casa materna. In quel momento, mi disse, avrebbe voluto starsene da sola con sua madre e sua sorella, e con papà. D’altronde il rapporto tra suo marito e suo padre era poco più che formale, aggiunse nel darsi una giustificazione. E più suo marito si mostrava contrito, più si dava da fare per rendersi utile, più il suo fastidio diventava insofferenza, rabbia. Lei voleva solo guardare gli album di famiglia con sua sorella e sua madre. E dare un bacio a papà. Riportare anche solo apparentemente le lancette indietro. A 20 anni prima. Solo per poco.
Con delle scuse riuscì a liberarsene e a rispedirlo a casa, e quella notte, per un attimo, aveva persino pensato di dirgli l’orario sbagliato del funerale pur di non vederlo. Giusto un paio d’ore. Un malinteso. Non ci siamo capiti.
Con delle scuse riuscì a liberarsene e a rispedirlo a casa, e quella notte, per un attimo, aveva persino pensato di dirgli l’orario sbagliato del funerale pur di non vederlo. Giusto un paio d’ore. Un malinteso. Non ci siamo capiti.
E l’altro giorno quando è morto Pino Daniele ho provato le stesse cose. Troppe chiacchiere, troppo parlare, troppo. Un troppo che non avrei voluto alimentare a mia volta. Ma il superamento del dolore passa anche attraverso la condivisione di esso. Ti riconosci nell’altro e pian piano le cose si fanno meno dure.
In uno strano sogno ho rivisto una scena di una commedia di Raffaele Viviani, La morte di Carnevale, in cui due becchini litigano per accaparrarsi il presunto morto. Ripetevano sempre la stessa frase che nella commedia non c’è: la morte è una buona occasione.
E se inizialmente in quel buona c’era tutta la mia acrimonia verso quelle cornacchie che si riempivano la bocca di parole stupide e banali, straparlando di Pino Daniele e di Napoli, pian piano ha assunto un significato più ampio. La morte è senz’altro l’occasione per guardare le persone per quello che sono, nel bene come nel male.
Si ho provato anche rabbia, una rabbia che ho codificato e ho capito che riguardava tanto me quanto Pino Daniele, cornuto e mazziato. Già perché è un paradosso che proprio per lui, che un giorno aveva deciso di andar via da Napoli, di essere qualcos’altro oltre che napoletano, essere sé stesso e non essere più relegato al ruolo di ennesimo Masaniello, la gran parte delle parole spese alla sua morte riguardassero Napoli, i napoletani, la napoletanità presunta o reale.
Quante ne ho lette. Ho provato quella stessa sensazione che credo abbia provato lui all’epoca. Uno stato di apnea, sentirsi in una gabbia asfittica, l’essere ridotti a macchietta. No grazie, il caffè mi rende nervoso, avrebbero detto Lello Arena e Massimo Troisi. E anch’io avrei voluto essere qualcos’altro. Avrei voluto mettere la sua Je so pazz, mandando in loop il liberatorio verso finale, ‘nun ce scassat ‘o cazz’.
Si, ‘nun ce scassat ‘o cazz’ lo avrei detto sinceramente anche ad alcuni napoletani. E a quel modo sciatto e volgare di volersi rappresentare. Ai chiagnazzari, a quelli che si lamentano sempre, a quelli che descrivono Napoli come un quadretto ricoperto di polvere dimenticato in uno sgabuzzino, a quelli sempre pronti a tirar dentro De Filippo e il suo fuitevenne. A quelli che hanno il complesso di inferiorità e hanno bisogno di un nemico per definirsi. Pino Daniele ha suonato e cantato per chi i complessi li aveva e non li voleva.
E alla fine ho risentito mille volte Napule è.
Napule è tutto nu' suonno e a sape tutto 'o munno
Ma nun sann' a verità.
E’ la purezza del gesto, il testo del diciottenne Pino Daniele tutto istinto e stati d’animo: è la genialità dello scugnizzo che gioca sui basoli di largo Banchi nuovi e arrivato sul fondo crossa al centro con una rabona. Napule è mi piace perché è indeterminatezza, perché una città di eterne contraddizioni gioca la sua partita shakespeariana dell’essere o non essere. Napoli è tutta nu suonno. Un’illusione.
Napoli è mille colori e mille paure.
Ma Napoli è ancora tanti criaturi, la cui voce sale piano piano.
E tu saje ca’ nun si sulo*.
Ed eccomi qui a scrivere le ultime battute con un senso di gratitudine e quasi di dovere. Perché farei un grosso torto a quella parte di me che è stata Pino Daniele dissimulando quel sentimento non di ribellione, parola sbagliata per una città che ha bisogno di un po’ di normalità, ma di non rassegnazione.
posted by Mauro Erro @ 16:41,