Falanghina dei Campi Flegrei Cruna DeLago 2015, La Sibilla
mercoledì 19 luglio 2017
Una cosa che ora dovrebbe apparire evidente è il valore di un produttore agricolo, coltivi grano o uva: occuparsi di un pezzetto di territorio che altrimenti andrebbe abbandonato. Basta impiantare una vigna per concorrere a cambiare il profilo dell’orizzonte. È per questo che rifuggo sempre più i circoli in cui ci si accapiglia per ore e ore astrologando su una bottiglia di vino, sulla superiorità di quell’annata piuttosto che dell’altra: ma vedi che allungo la ’13; però guarda il ritmo della ’14, dai, e vuoi mettere la complessità della 2010? Tutto legittimo, per carità, ma spesso si perde il quadro d’insieme.
Meglio il peggior vino del contadino che una speculazione edilizia, con preambolo incendiario. Ci pensavo stamattina, alle 5, quando mi sono svegliato per l’insostenibile puzzo di fumo.
Un terzo della Riserva naturale del cratere degli Astroni è andato bruciato, adios. Si susseguono post sui social, condivisioni di foto e video, c’è chi è affranto e chi incazzato e io mi chiedo quanto valga il lavoro di chi continua a coltivare i suoi pomodori o le sue vigne, come fa la famiglia Di Meo a Bacoli.
Già, quanto vale?*
Il primo modo di difendere il proprio territorio è conoscerlo, e conoscere anche chi - in un corretto rapporto con la propria terra - lo difende e lo valorizza tirandoci fuori delle bottiglie di vino che, tra l’altro, sono eccellenti, circondati dal cemento e dalle iene ridens.
Eppure c’è ancora chi storce il naso per poco più di dieci euro per una bottiglia di vera Falanghina o di autentico Piedirosso dei Campi Flegrei, incapaci di dare un giusto valore non solo alla bottiglia di vino, ma ai gesti, come quello di zappare la sabbia: condivideranno una foto su facebook al prossimo rogo, s’indigneranno, s’incazzeranno con qualcuno e bene così.
Per questo cru, da una vigna a Bacoli, ne occorrono il doppio di euro, una ventina in enoteca, e chi è in grado di capirlo sa che si tratta di una promessa di felicità. Lo sa chi conosce il vino, lo ha frequentato e bevuto ripetutamente negli anni riconoscendo ormai il Cruna DeLago come una etichetta di riferimento per la Falanghina dei Campi Flegrei, con uno stile ormai codificato e un’identità chiara, pur esprimendo di volta in volta il carattere dell’annata: facendo finta di avere qualche dubbio ne ho stappate recentemente diverse, fino ad una meravigliosa magnum del 2010 bevuta da Nando Salemme nella sua osteria Abraxas.
E se la 2014 era un inno all’energia minerale del territorio, la 2015 ha più polpa e frutto, più complessità aromatica, più potenza. In questi giorni esce in commercio, è ancora una promessa, ma sarà di quelle annate a lunga gittata e ripetuti momenti di felicità.
*La seconda domanda che mi faccio è come è possibile che il comparto agricolo sia così potente economicamente e allo stesso tempo così debole politicamente.
*La seconda domanda che mi faccio è come è possibile che il comparto agricolo sia così potente economicamente e allo stesso tempo così debole politicamente.
posted by Mauro Erro @ 10:39, ,
I bei tempi stanno tornando
sabato 15 luglio 2017
Leggevo la prefazione di un libro che mi è appena arrivato che in poche righe e citazione in apertura ribadiva: i bei tempi stanno tornando.
Dei bei vecchi tempi mi è capitato di parlare recentemente con un amico mentre assaggiavamo una catalanesca. Lo produce una giovane azienda del vesuviano che bene lo interpreta e bene opera in un territorio di certo non facile, come in questi giorni si è avuto modo di vedere. L’amico, di quelle zone, non lo ha apprezzato: non è la catalanesca dei mei tempi, mi ha detto.
Prima che potesse specificare ho azzardato: quella di cui parli, scommetto, aveva un colore più carico, un giallo dorato intenso. All’assaggio era leggermente dolce, qualche anno di più e qualcuno meno, lo stesso vale per quel tocco di aceto.
Allora l’hai assaggiata anche tu?
Per fortuna no.
La catalanesca a cui si riferiva era semplicemente un bianco ossidato, non del tutto fermentato e spesso con valori di acetica altissimi, fatto alla buona o mal fatto con strumenti rudimentali. Il vino dell’amico contadino che non di rado qualcuno mi porta ad assaggiare ancora, aggiungendo l’immancabile frase: vedi che questo è fatto con l’uva. Non metto in dubbio, ma che fosse catalanesca quella che assaggiava ai bei tempi il mio amico non è neanche detto: nel vesuviano spesso si confondeva la catalanesca con il caprettone o la falanghina o la coda di volpe e ancora oggi qualcuno li intende come sinonimi per vitigni ben diversi.
Non è il caso del mio amico, ma spesso questo tipo di nostalgia e malinconia per i bei vecchi tempi accompagna il disagio di chi vive con difficoltà il proprio presente. D’altronde non è così scontato essere contemporanei a se stessi ed io ho conosciuto trentenni che nostalgicamente rimpiangevano la Parigi degli anni ’20 o la Praga del ’68 come se l’avessero realmente vissute. Ho davvero conosciuto chi rimpiange persino una guerra in occidente pur di appartenere ad una generazione perduta, per dire di aver vissuto: davanti questo sentimento, ormai, è difficile possa stupirmi.
Il ricordo come si sa è molto spesso rielaborazione, con una buona parte di fantasia, soprattutto quando parliamo delle campagne italiane che hanno vissuto un duplice abbandono: prima a causa della seconda guerra mondiale poi dell’industrializzazione del paese e del boom economico. Al sud, ovvio, aggiungeteci l’emigrazione. Tanto che oggi le campagne italiane sono frequentate in buona parte da stranieri, che siano dell’Europa dell’Est o africani dipende dalla coltura. È un discorso molto ampio che non riguarda solo una bottiglia di vino o un formaggio, ma riguarda la dispersione di sapere e cultura non più tramandata: va dai dialetti alle filastrocche, dai toponimi alla conoscenza dei fiumi a quella delle montagne. Un argomento caro a Paolo Cognetti vincitore dell’ultimo Premio Strega che, nato a Milano, trascorre sei mesi all’anno in montagna a quota duemila metri, e che della verità della montagna fa il suo credo di vita, raccontata in libri e in festival. La montagna a modo suo. Ma si potrebbe citare Vinicio Capossela che ridisegna civiltà e cultura dell’Alta Irpinia pur essendo nato ad Hannover e avendo trascorso quasi 40 anni lontano dal luogo di origine dei genitori. Ci mette anche lui una buona parte di fantasia.
È sbagliato generalizzare, si sa anche questo, bisognerebbe fare mille distinzioni, ma spesso l’irresistibile desiderio di costruire questo luogo ideale e riadattarlo a dei bei vecchi tempi non specificati è la conseguenza della disillusione verso i tempi presenti, verso la nostra società e le città, sempre più vissute come agglomerati urbani dove tutto è artefatto, privi di umanità e identità. Un fenomeno che nello specifico è stato ben studiato da Corrado Barberis e che chiamiamo ruralità di ritorno dovuto anche alle migliori condizioni delle campagne: oggi è molto facile con internet sentirsi al centro del mondo o di Bombay, pur stando in una campagna sperduta di Matinelle, senza neanche sentire il puzzo di smog.
Se è vero che l’Italia è stata ed è ancora in parte ricca di giacimenti di bellezza e culinari che vanno valorizzati e altrettanto vero ricordare che in molte sue zone, soprattutto quelle interne, è stata un’Italia povera, con difficoltà nutrizionali, misera ed emaciata: e che la cucina lontana dalle grandi città era anche una cucina di sopravvivenza, fatta di arguzia e pochissimi ingredienti, appunto, poveri. Per il vino discorso leggermente diverso, ma neanche poi così tanto: soprattutto quando si prende l’eccezione e la si fa diventare regola.
Poi succede che mentre tu cerchi una ricetta o quel fagiolo dall’occhio, la traccia di un vino o il ricordo di un altro, a parlare con le persone di queste zone, della provincia dimenticata o dei paesini arroccati, i loro bei tempi coincidono con quelli in cui è arrivato il frigorifero e hanno scoperto una quarta dimensione, e hanno potuto comprare al supermercato appena aperto le fragole a dicembre.
Non tutto mi piace, ma non sono così pronto a buttare via il presente per un futuro in cui tornerà qualcosa che non mi è del tutto chiaro e che per brevità chiamiamo: i bei vecchi tempi.
posted by Mauro Erro @ 12:26, ,
Chi vuole un po’ di mozzarella di bufala frozen? Ossia congelata?
giovedì 13 luglio 2017
La tecnologia del freddo, spiega Raimondo, è un vantaggio, non un nemico e noi non possiamo lasciare alle multinazionali la gestione di questo mercato.
Quella che leggete è una delle dichiarazioni rilasciate a Il Mattino da Domenico Raimondo, Presidente del Consorzio della Mozzarella di Bufala Campana DOP che spiega, in maniera cristallina, la nuova proposta di cambio del disciplinare e, tra le modifiche, l’inserimento della tipologia Mozzarella di Bufala Campana DOP “Frozen”, ossia congelata.
Nella polemica che ne è scaturita Raimondo e qualche giornalista tentano di spiegare che non bisogna ripudiare la tecnologia del freddo già obbligatoria per il pesce e uscire dal medioevo. Vorrei ricordare loro che si abbatte la temperatura del pesce per salvaguardare la salute del consumatore, per non ammazzarlo con l’anisakis, non per fare concorrenza alle multinazionali.
E’ strano che si dica che il problema già c’è, che l'offerta è insufficiente d’estate e eccessiva d’inverno, che non basta la destagionalizzazione, cioè aver cambiato forzatamente il ciclo biologico delle bufale, perché ci sono gli illeciti - latte congelato (anche in questo caso ci dovrebbero essere modifiche), latte vaccino di varia provenienza - quindi mettiamoci una pezza e facciamo un bel condono. E’ controverso leggere certe cose da chi allo stesso tempo difende posizioni contrarie, da chi parla di km 0, da chi dice di opporsi alle multinazionali e parla di artigiani del cibo o di educare il consumatore.
Alla fine è una questione di soldi e di visione politica e strategica, di come vogliamo rapportarci con il cibo e la realtà globalizzata, e non di salute del consumatore o di qualità del prodotto. Noi accettiamo di stravolgere l’identità di un prodotto “fresco” producendo un surrogato per fare concorrenza al surrogato che già esiste: non basta difendersi dal falso d’autore, ci si vuole mettere sopra la denominazione, l’origine.
Inserendo la vicenda nel contesto generale non c’è da meravigliarsi, in questo settore (come nel resto della contemporaneità, mal comune mezzo gaudio) il giornalismo indipendente è gravemente malato, gli chef rincorrono la celebrità per diventare testimonial di grandi marchi automobilistici e hanno sostituito la casalinga di Voghera nelle pubblicità in tv, cercando di convincerci delle qualità taumaturgiche di alcuni brodo in dado o della patatina; la casalinga di Voghera è diventata blogger e poi influencer e fa la pubblicità alla nuova linea d’abbigliamento per bambini fotografando in ogni momento della giornata la piccola figlioletta inconsapevole; i pizzaioli si definiscono artisti probabilmente perché capaci di farsi pagare dalle multinazionali della birra industriale lo spazio sui grembiuli o sulle pagine social.
Il risultato finale è che le multinazionali, i grandi gruppi, il mercato globalizzato già determinano qualità e stile del nostro made in Italy, che si tratti di formaggi freschi, farine, vino, ristoranti o pizzerie. Mano a mano ci stanno comprando tutti, o quasi, per poi rivenderci congelati.
posted by Mauro Erro @ 10:53, ,
Le salsicce di D'Alema, i vezzi di Rodotà, e la provincia che diventa periferia
domenica 2 luglio 2017
foto di Scattidigusto |
L’altro giorno, in un’osteria della provincia laziale, ascoltavo un giovane consigliere comunale parlare dell’organizzazione della prossima festa dell’Unità: “e da mangiare faremo delle salsicce alla brace”. Mi è subito venuto in mente il redivivo D’Alema, e l’anatema che scagliò ai dirigenti che si avviavano verso la scissione dell’ex PCI nel 1991: “Con voi, verranno quelli che cuocevano le bistecche alle feste dell’Unità”. Anni più tardi, il Massimo, si produsse con la complicità di Vissani persino nello strappo del tortellino. A distanza di oltre due decenni come è andata a finire è chiaro: alle feste dell’Unità si continuano a cucinare bistecche, salsicce e tortellini e D’Alema rincorre il suo passato; la provincia, a furia di voler essere centro e di rincorrere la città, spesso è una periferia anonima dell’unico agglomerato urbano (i borghi sono musei cadenti o scenografie di un film, e i castelli si affittano per cerimonie) e io raramente ho mangiato così male. E, infine, il giorno dopo la morte di Stefano Rodotà, sui quotidiani, delle innumerevoli cose che si potevano dire della sua lunga e densa vita, tutti non hanno mancato di sottolineare, con gran merito, la sua passione e conoscenza per il cibo: una piacevole anomalia, un capriccioso vezzo.
posted by Mauro Erro @ 10:48, ,