I bei tempi stanno tornando



Leggevo la prefazione di un libro che mi è appena arrivato che in poche righe e citazione in apertura ribadiva: i bei tempi stanno tornando
Dei bei vecchi tempi mi è capitato di parlare recentemente con un amico mentre assaggiavamo una catalanesca. Lo produce una giovane azienda del vesuviano che bene lo interpreta e bene opera in un territorio di certo non facile, come in questi giorni si è avuto modo di vedere. L’amico, di quelle zone, non lo ha apprezzato: non è la catalanesca dei mei tempi, mi ha detto. 
Prima che potesse specificare ho azzardato: quella di cui parli, scommetto, aveva un colore più carico, un giallo dorato intenso. All’assaggio era leggermente dolce, qualche anno di più e qualcuno meno, lo stesso vale per quel tocco di aceto. 
Allora l’hai assaggiata anche tu? 
Per fortuna no. 

La catalanesca a cui si riferiva era semplicemente un bianco ossidato, non del tutto fermentato e spesso con valori di acetica altissimi, fatto alla buona o mal fatto con strumenti rudimentali. Il vino dell’amico contadino che non di rado qualcuno mi porta ad assaggiare ancora, aggiungendo l’immancabile frase: vedi che questo è fatto con l’uva. Non metto in dubbio, ma che fosse catalanesca quella che assaggiava ai bei tempi il mio amico non è neanche detto: nel vesuviano spesso si confondeva la catalanesca con il caprettone o la falanghina o la coda di volpe e ancora oggi qualcuno li intende come sinonimi per vitigni ben diversi. 

Non è il caso del mio amico, ma spesso questo tipo di nostalgia e malinconia per i bei vecchi tempi accompagna il disagio di chi vive con difficoltà il proprio presente. D’altronde non è così scontato essere contemporanei a se stessi ed io ho conosciuto trentenni che nostalgicamente rimpiangevano la Parigi degli anni ’20 o la Praga del ’68 come se l’avessero realmente vissute. Ho davvero conosciuto chi rimpiange persino una guerra in occidente pur di appartenere ad una generazione perduta, per dire di aver vissuto: davanti questo sentimento, ormai, è difficile possa stupirmi. 

Il ricordo come si sa è molto spesso rielaborazione, con una buona parte di fantasia, soprattutto quando parliamo delle campagne italiane che hanno vissuto un duplice abbandono: prima a causa della seconda guerra mondiale poi dell’industrializzazione del paese e del boom economico. Al sud, ovvio, aggiungeteci l’emigrazione. Tanto che oggi le campagne italiane sono frequentate in buona parte da stranieri, che siano dell’Europa dell’Est o africani dipende dalla coltura. È un discorso molto ampio che non riguarda solo una bottiglia di vino o un formaggio, ma riguarda la dispersione di sapere e cultura non più tramandata: va dai dialetti alle filastrocche, dai toponimi alla conoscenza dei fiumi a quella delle montagne. Un argomento caro a Paolo Cognetti vincitore dell’ultimo Premio Strega che, nato a Milano, trascorre sei mesi all’anno in montagna a quota duemila metri, e che della verità della montagna fa il suo credo di vita, raccontata in libri e in festival. La montagna a modo suo. Ma si potrebbe citare Vinicio Capossela che ridisegna civiltà e cultura dell’Alta Irpinia pur essendo nato ad Hannover e avendo trascorso quasi 40 anni lontano dal luogo di origine dei genitori. Ci mette anche lui una buona parte di fantasia. 

È sbagliato generalizzare, si sa anche questo, bisognerebbe fare mille distinzioni, ma spesso l’irresistibile desiderio di costruire questo luogo ideale e riadattarlo a dei bei vecchi tempi non specificati è la conseguenza della disillusione verso i tempi presenti, verso la nostra società e le città, sempre più vissute come agglomerati urbani dove tutto è artefatto, privi di umanità e identità. Un fenomeno che nello specifico è stato ben studiato da Corrado Barberis e che chiamiamo ruralità di ritorno dovuto anche alle migliori condizioni delle campagne: oggi è molto facile con internet sentirsi al centro del mondo o di Bombay, pur stando in una campagna sperduta di Matinelle, senza neanche sentire il puzzo di smog. 

Se è vero che l’Italia è stata ed è ancora in parte ricca di giacimenti di bellezza e culinari che vanno valorizzati e altrettanto vero ricordare che in molte sue zone, soprattutto quelle interne, è stata un’Italia povera, con difficoltà nutrizionali, misera ed emaciata: e che la cucina lontana dalle grandi città era anche una cucina di sopravvivenza, fatta di arguzia e pochissimi ingredienti, appunto, poveri. Per il vino discorso leggermente diverso, ma neanche poi così tanto: soprattutto quando si prende l’eccezione e la si fa diventare regola. 
Poi succede che mentre tu cerchi una ricetta o quel fagiolo dall’occhio, la traccia di un vino o il ricordo di un altro, a parlare con le persone di queste zone, della provincia dimenticata o dei paesini arroccati, i loro bei tempi coincidono con quelli in cui è arrivato il frigorifero e hanno scoperto una quarta dimensione, e hanno potuto comprare al supermercato appena aperto le fragole a dicembre. 

Non tutto mi piace, ma non sono così pronto a buttare via il presente per un futuro in cui tornerà qualcosa che non mi è del tutto chiaro e che per brevità chiamiamo: i bei vecchi tempi.

posted by Mauro Erro @ 12:26,

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