A proposito di novità
venerdì 27 gennaio 2012
Da ieri i lettori del viandante e non, gli appassionati bevitori di birra e non solo, possono, se hanno piacere, leggere Roberto Erro scrivere di birra sul canale Piacere Quotidiano de Ilfattoquotidiano.it.
Un in bocca al lupo a mio fratello per questa sua nuova avventura che lo vede affiancarsi ad Adele su quelle pagine. (me)
posted by Mauro Erro @ 11:06, ,
Enogea Sociale
mercoledì 25 gennaio 2012
Una delle novità accadutemi tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di questo 2012 è l’approdo a casa Enogea, la bella rivista edita e diretta da Alessandro Masnaghetti, coadiuvato dalle belle penne di Francesco Falcone e Giampaolo Gravina. Nella speranza che i Maya abbiano toppato e io possa godere di questa esperienza per più di un anno, volevo avvisare i lettori del viandante, che sempre fedeli ci seguono, che Enogea ha aperto una sua pagina Facebook (e twitter). Pagina adoperata per stare più vicino ai propri lettori (e non) ed utilizzata come se fosse un blog con continui aggiornamenti ed approfondimenti per tenersi compagnia. Per cui se avete un account facebook e non l’avete già fatto, vi consiglio di cliccare qui e seguirci.
Nel frattempo, per dare un’idea sommaria, ripropongo un mio scritto pubblicato sulla suddetta pagina.
A presto, qui o lì.
Il 1961 non iniziò proprio bene. Il 3 gennaio l’allora presidente Eisenhower annunciò la rottura delle relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti d’America e Cuba, prologo dell’invasione tentata dagli esuli cubani addestrati dalla Cia e respinta da Castro il 17 aprile alla Baia dei Porci. Invasione autorizzata da John Kennedy che, un mese prima, aveva prestato giuramento divenendo il 35esimo presidente della nazione americana.
Giusto sei giorni prima, a New York, sul palco del Folk City aveva debuttato Bob Dylan e tre mesi dopo, il 2 agosto, nello storico Cavern Club di Liverpool, i Beatles si esibiscono nel loro primo concerto.
Sempre ad aprile in Italia viene emesso il Gronchi Rosa per omaggiare il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Il francobollo diverrà il più raro e ricercato dai collezionisti.
A Santa Monica nello stesso mese il comico Bob Hope tiene a battesimo la 33esima edizione degli Oscar. Billy Wider - con L’appartamento - si aggiudica la statuetta per la migliore regia e il miglior film. Peter Ustinov la statuetta per l’interpretazione in Spartacus come migliore attore non protagonista. L’Italia concorre con Kapò di Gillo Pontecorvo, ma vince Ingmar Bergman con La Fontana della Vergine. Migliore colonna sonora a Colazione da Tiffany di Blake Edwards musicata dall’italoamericano Henry Mancini: l’autore di Moon River compose, tra le altre, anche la musica de La Pantera Rosa.
A maggio, dopo una lettera appello pubblicata sulla rivista britannica The Observer per la liberazione di due prigionieri arrestati a Lisbona dalla dittatura di Antonio Salazar, nasce Amnesty International e inizia il 12esimo campionato di Formula Uno. La stagione sarà contrassegnata dal duello interno alla Ferrari tra Phil Hill e Wolfgang von Trips, conclusosi tragicamente al Gran Premio d'Italia con la morte del pilota tedesco e di 13 spettatori in seguito ad un incidente. Un mese prima era iniziata la 13esima stagione del motomondiale. Sarà vinta dallo zimbabwese Gary Hocking in sella ad un’italianissima Mv Agusta.
Al Festival di Sanremo vince Emilio Pericoli con Al di là, ma è l’anno di Celentano con 24mila baci. E Mina canta Le mille bolle blu.
Il Giro d’Italia, la Corsa Rosa, sarà appannaggio di Arnaldo Pambianco su Jacques Anquetil che si rifarà, però, al Tour de France precedendo l’italiano Guido Carlesi. Il campionato di calcio sarà contraddistinto dalla furiosa lotta tra Inter e Juve. La spunterà quest’ultima grazie alla sconfitta dell’Inter a Catania per due a zero, da cui la locuzione Clamoroso al Cibali. Fu l’anno della celebre protesta del presidentissimo Angelo Moratti che nell’incontro di recupero con la Juve ordinerà a Herrera di schierare la squadra primavera. Il tabellino segnerà 9 a 1. Sei goal del Pallone d’Oro Omar Sivori. L’unico gol dell’Inter segnato su rigore da un diciottenne Sandro Mazzola.
L’Italia era in pieno boom economico, la popolazione superò i 50 milioni di abitanti e il reddito pro capite annuo raggiunse le quattrocentomila lire. Presidente del Consiglio è Amintore Fanfani e Palazzo Chigi diviene sede del Governo Italiano. Yuri Gagarin il primo uomo nello spazio. Berlino fu divisa da un muro.
A luglio, uno dei più grandi scrittori del novecento, Ernest Hemingway, si spara un colpo di fucile in bocca. A dicembre gli Stati Uniti intervengono per la prima volta nella guerra in Vietnam.
In quello stesso mese di dicembre, un piccolo editore di Roma, Canesi, pubblica Vini d’Italia di Luigi Veronelli. A pagina 83 è riportato un virgolettato di Paolo Mantegazza: “Il buon Barolo può mettersi nella prima fila dell’aristocrazia vinosa, io gli darei il primato su tutti i vini piemontesi se non glielo contrastasse aspramente il Gattinara. Possono trattarsi entrambi da buon amici perché nessuno dei due è secondo all’altro”.
A Barolo, quell’anno, quell’annata, una delle più grandi di sempre, nella cantina Borgogno Giacomo e Figli, si produceva uno dei vini più buoni che io abbia mai avuto la fortuna di assaggiare e che ricordo sempre con grande affetto. Venne commercializzato in champagnotta da 72 cl. al prezzo di 1.700 lire.
posted by Mauro Erro @ 11:05, ,
CARO AMICO (TI) SCRIVO
mercoledì 18 gennaio 2012
Caro Mauro,
come avrai notato un po’ di tempo è passato dalla mia ultima visita su questo blog, come autore/coautore con il poliedrico Polini, ma vari eventi accaduti nell’ultimo anno mi hanno allontanato da questo piacevolissimo diletto.
Molte potrebbero essere le motivazioni da addurre per giustificare questa sosta forzata, ma quella che ritengo più valida è legata al fatto che credo che una persona non debba scrivere se non quando abbia davvero qualche cosa che valga la pena scrivere. Ed io, sinceramente, in questi mesi, nonostante qualche idea e qualche spunto abbozzato ed abbandonato in non so quale pen drive, non avevo molto da trasmettere, da commentare e soprattutto da condividere. Questo è sempre stato lo spirito che mi ha animato: condivisione di informazioni, di sensazioni, di pensieri, ma anche di semplici indirizzi o appunti. Tutte le volte che Gianluca ed io abbiamo qui scritto, lo abbiamo fatto per proporre le nostre esperienze a chi aveva il piacere o, quanto meno, la pazienza di leggere. Ed è per questo che, a parte a qualche svarione grammaticale che sempre può sfuggire, ogni volta che abbiamo iniziato a mettere le dita sulla tastiera abbiamo prima pensato, ponderato, considerato e soprattutto studiato e valutato le fonti, anche quando le informazioni che davamo erano autorevoli, poiché provenienti dagli stesso mastri birrai. Sì, perché se qualcuno se ne fosse dimenticato o si fosse distratto, qui è di birra che si parla. Il problema nasce quando si passa dal parlare allo sparlare, quando si raggiunge quell’overdose di informazione che, al posto di incrementare l’interesse del fruitore, lo porta ad una nausea da abuso.
Pur non scrivendo di birra, in questi mesi, ho continuato a leggere nel web sulla birra, ma mi sono trovato sempre più costretto a dover effettuare screening molto restrittivi per poter discernere tra l’informazione e la bufala, per capire se si trattava di sensazionale scoperta (di birrificio, di prodotto, di sapiente utilizzo di materia prima o ancora di tecnica brassicola) o solo mera, ma massiva, operazione di marketing. Si parla di Rinascimento della Birra Artigianale Italiana quando ancora molti, compresi alcuni “esperti” del settore, vivono in un medioevo nozionistico e per giunta errato.
Qui non è in discussione la realtà produttiva artigianale nazionale, ma le informazioni che circolano su di essa e sul mondo della birra in generale. La crescita del movimento italiano è un dato di fatto, ma per poter favorire ulteriormente il suo sviluppo e far uscire la birra definitivamente dal suo status di prodotto di nicchia è necessario continuare a coinvolgere le persone, ad accendere le loro curiosità, ma soprattutto ad educarle e formarle al piacere della bevuta senza mai cadere in facili populismi, in imposizioni di etichette e di mode e, soprattutto, senza mai diffondere informazioni grossolanamente sbagliate solo per poi vantarsi di averlo detto/scritto per primi.
Chiunque è in grado e, soprattutto, libero di scrivere, ma è importante che lo faccia con cognizione di causa e consapevole del fatto che un suo parere, una sua considerazione e una sua informazione può forviare tanti neofiti che da poco hanno fatto capolino in questo fantastico mondo.
Eppure, con l’andazzo degli ultimi tempi la birra artigianale sta diventando schiava di se stessa e dei clichè che le stanno appiccicando addosso. Non è vero che tutta la birra artigianale è buona: ci sono in giro dei prodotti di livello mediocre e talune birre sono addirittura improponibili. Se ogni prodotto che esce viene sempre e soltanto elogiato, un giovane bevitore quando si troverà a bere quel prodotto, peraltro non apprezzandolo, crederà che quello è il livello delle “buone” birre artigianali provocando uno sgradevolissimo effetto domino verso altri neofiti. Se si continua a dire che solo Tizio o Caio producono ottimi prodotti i nuovi discepoli di Gambrinus cercheranno in maniera spasmodica sempre e soltanto quelli senza nemmeno preoccuparsi di sapere se, nel raggio di qualche decina di chilometri da casa loro, esista un birrificio che valga la pena di essere visitato. E’ giusto sperimentare, ma è impensabile che ogni birra prodotta con l’utilizzo di qualche materia prima autoctona di supporto debba per forza essere bucolicamente idilliaca.
Così come sarebbe opportuno e giusto informare tutti quelli che vorrebbero fare i mastri birrai , che la birra non è fatta solo di malto, luppolo e Co., ma purtroppo anche di autorizzazioni, accise, lotte con i fornitori, logistica e pubbliche relazioni.
Lo stesso discorso potrebbe estendersi alle informazioni presenti sul web in merito alla produzione brassicola internazionale. Che senso ha parlare di IPA o AiPiEi - altrimenti qualcuno non capisce di cosa stiamo parlando - dall’IBU improponibile, quando molti non sanno ancora cosa significhi IPA e IBU. Impazza il Vintage, ma, a parte pochi illuminati, molti publicans corrono il rischio di riempirsi la cantina di prodotti che nel tempo troveranno la morte organolettica. Ci si dedica a fare pronostici su quale stile impazzerà nel corso dell’anno, ma ancora oggi mi cadono le braccia sentendo o leggendo di doppio malto.
Spero quindi che l’anno che verrà (e che è già iniziato) porti prima di tutto un poco di buon senso e, soprattutto, ridia un minimo di etica e coscienza professionale a chi le recensioni le fa per mestiere, avendo più rispetto per chi, come me, si ritaglia qualche minuto nel corso della giornata alla ricerca di qualche notizia brassicola che meriti di essere letta e che possa poi trasformarsi in una birra che meriti di essere bevuta.
Francesco Immediata
Caro Francesco, queste tue considerazioni non mi stupiscono, perché questi argomenti, quelli che riguardano l’informazione e il livello di approssimazione di coloro deputati a svolgere questo ruolo, sono vecchi quanto e più l’invenzione della stampa di Gutenberg.
Quanto al movimento della birra artigianale italiana e all’ambiente posso renderti partecipe di alcune considerazioni frutto della mia recente esperienza al servizio della nuova Guida delle birre di Slow Food dove ho notato il riproporsi dei soliti cliché già visti, in passato, in un ambiente a me più familiare come quello del vino. Mode, conflittualità, approssimazione sia in chi produce sia in chi racconta, sono passaggi, step, attraverso cui bisogna passare in un processo in cui pian piano si accresce sempre più la propria consapevolezza. Uno stile riproposto all’infinito o un luppolo neozelandese a me ricordano le discussioni che un tempo si facevano intorno la barrique. È normale che sia così.
Ma c’è di che essere ottimisti per due ordine di motivi: il primo riguarda la forma. La gran parte dell’informazione brassicola oggi si svolge sul web dando l’opportunità di una maggiore interazione, di un continuo vaglio critico da parte del lettore che sempre deve essere sollecitato all’intervento anche quando ci si trova davanti all’esperto o sedicente tale. Molto meglio di un’informazione calata dall’alto e dell’ipse dixit.
Il secondo, invece, attiene ai contenuti: la moda, se proprio vogliamo chiamarla così, sta avvicinando a questa bevanda e questo movimento tanti giovani talenti, appassionati curiosi che viaggiano e si specializzano, degustatori competenti e penne brillanti.
Loro, voi, sarete il futuro. Per cui si può star tranquilli e avere pazienza ché l’orizzonte sarà sempre più sereno. (me)
foto tratta dal blog La via dei Fatti - Aforisma
ah
come avrai notato un po’ di tempo è passato dalla mia ultima visita su questo blog, come autore/coautore con il poliedrico Polini, ma vari eventi accaduti nell’ultimo anno mi hanno allontanato da questo piacevolissimo diletto.
Molte potrebbero essere le motivazioni da addurre per giustificare questa sosta forzata, ma quella che ritengo più valida è legata al fatto che credo che una persona non debba scrivere se non quando abbia davvero qualche cosa che valga la pena scrivere. Ed io, sinceramente, in questi mesi, nonostante qualche idea e qualche spunto abbozzato ed abbandonato in non so quale pen drive, non avevo molto da trasmettere, da commentare e soprattutto da condividere. Questo è sempre stato lo spirito che mi ha animato: condivisione di informazioni, di sensazioni, di pensieri, ma anche di semplici indirizzi o appunti. Tutte le volte che Gianluca ed io abbiamo qui scritto, lo abbiamo fatto per proporre le nostre esperienze a chi aveva il piacere o, quanto meno, la pazienza di leggere. Ed è per questo che, a parte a qualche svarione grammaticale che sempre può sfuggire, ogni volta che abbiamo iniziato a mettere le dita sulla tastiera abbiamo prima pensato, ponderato, considerato e soprattutto studiato e valutato le fonti, anche quando le informazioni che davamo erano autorevoli, poiché provenienti dagli stesso mastri birrai. Sì, perché se qualcuno se ne fosse dimenticato o si fosse distratto, qui è di birra che si parla. Il problema nasce quando si passa dal parlare allo sparlare, quando si raggiunge quell’overdose di informazione che, al posto di incrementare l’interesse del fruitore, lo porta ad una nausea da abuso.
Pur non scrivendo di birra, in questi mesi, ho continuato a leggere nel web sulla birra, ma mi sono trovato sempre più costretto a dover effettuare screening molto restrittivi per poter discernere tra l’informazione e la bufala, per capire se si trattava di sensazionale scoperta (di birrificio, di prodotto, di sapiente utilizzo di materia prima o ancora di tecnica brassicola) o solo mera, ma massiva, operazione di marketing. Si parla di Rinascimento della Birra Artigianale Italiana quando ancora molti, compresi alcuni “esperti” del settore, vivono in un medioevo nozionistico e per giunta errato.
Qui non è in discussione la realtà produttiva artigianale nazionale, ma le informazioni che circolano su di essa e sul mondo della birra in generale. La crescita del movimento italiano è un dato di fatto, ma per poter favorire ulteriormente il suo sviluppo e far uscire la birra definitivamente dal suo status di prodotto di nicchia è necessario continuare a coinvolgere le persone, ad accendere le loro curiosità, ma soprattutto ad educarle e formarle al piacere della bevuta senza mai cadere in facili populismi, in imposizioni di etichette e di mode e, soprattutto, senza mai diffondere informazioni grossolanamente sbagliate solo per poi vantarsi di averlo detto/scritto per primi.
Chiunque è in grado e, soprattutto, libero di scrivere, ma è importante che lo faccia con cognizione di causa e consapevole del fatto che un suo parere, una sua considerazione e una sua informazione può forviare tanti neofiti che da poco hanno fatto capolino in questo fantastico mondo.
Eppure, con l’andazzo degli ultimi tempi la birra artigianale sta diventando schiava di se stessa e dei clichè che le stanno appiccicando addosso. Non è vero che tutta la birra artigianale è buona: ci sono in giro dei prodotti di livello mediocre e talune birre sono addirittura improponibili. Se ogni prodotto che esce viene sempre e soltanto elogiato, un giovane bevitore quando si troverà a bere quel prodotto, peraltro non apprezzandolo, crederà che quello è il livello delle “buone” birre artigianali provocando uno sgradevolissimo effetto domino verso altri neofiti. Se si continua a dire che solo Tizio o Caio producono ottimi prodotti i nuovi discepoli di Gambrinus cercheranno in maniera spasmodica sempre e soltanto quelli senza nemmeno preoccuparsi di sapere se, nel raggio di qualche decina di chilometri da casa loro, esista un birrificio che valga la pena di essere visitato. E’ giusto sperimentare, ma è impensabile che ogni birra prodotta con l’utilizzo di qualche materia prima autoctona di supporto debba per forza essere bucolicamente idilliaca.
Così come sarebbe opportuno e giusto informare tutti quelli che vorrebbero fare i mastri birrai , che la birra non è fatta solo di malto, luppolo e Co., ma purtroppo anche di autorizzazioni, accise, lotte con i fornitori, logistica e pubbliche relazioni.
Lo stesso discorso potrebbe estendersi alle informazioni presenti sul web in merito alla produzione brassicola internazionale. Che senso ha parlare di IPA o AiPiEi - altrimenti qualcuno non capisce di cosa stiamo parlando - dall’IBU improponibile, quando molti non sanno ancora cosa significhi IPA e IBU. Impazza il Vintage, ma, a parte pochi illuminati, molti publicans corrono il rischio di riempirsi la cantina di prodotti che nel tempo troveranno la morte organolettica. Ci si dedica a fare pronostici su quale stile impazzerà nel corso dell’anno, ma ancora oggi mi cadono le braccia sentendo o leggendo di doppio malto.
Spero quindi che l’anno che verrà (e che è già iniziato) porti prima di tutto un poco di buon senso e, soprattutto, ridia un minimo di etica e coscienza professionale a chi le recensioni le fa per mestiere, avendo più rispetto per chi, come me, si ritaglia qualche minuto nel corso della giornata alla ricerca di qualche notizia brassicola che meriti di essere letta e che possa poi trasformarsi in una birra che meriti di essere bevuta.
Francesco Immediata
Caro Francesco, queste tue considerazioni non mi stupiscono, perché questi argomenti, quelli che riguardano l’informazione e il livello di approssimazione di coloro deputati a svolgere questo ruolo, sono vecchi quanto e più l’invenzione della stampa di Gutenberg.
Quanto al movimento della birra artigianale italiana e all’ambiente posso renderti partecipe di alcune considerazioni frutto della mia recente esperienza al servizio della nuova Guida delle birre di Slow Food dove ho notato il riproporsi dei soliti cliché già visti, in passato, in un ambiente a me più familiare come quello del vino. Mode, conflittualità, approssimazione sia in chi produce sia in chi racconta, sono passaggi, step, attraverso cui bisogna passare in un processo in cui pian piano si accresce sempre più la propria consapevolezza. Uno stile riproposto all’infinito o un luppolo neozelandese a me ricordano le discussioni che un tempo si facevano intorno la barrique. È normale che sia così.
Ma c’è di che essere ottimisti per due ordine di motivi: il primo riguarda la forma. La gran parte dell’informazione brassicola oggi si svolge sul web dando l’opportunità di una maggiore interazione, di un continuo vaglio critico da parte del lettore che sempre deve essere sollecitato all’intervento anche quando ci si trova davanti all’esperto o sedicente tale. Molto meglio di un’informazione calata dall’alto e dell’ipse dixit.
Il secondo, invece, attiene ai contenuti: la moda, se proprio vogliamo chiamarla così, sta avvicinando a questa bevanda e questo movimento tanti giovani talenti, appassionati curiosi che viaggiano e si specializzano, degustatori competenti e penne brillanti.
Loro, voi, sarete il futuro. Per cui si può star tranquilli e avere pazienza ché l’orizzonte sarà sempre più sereno. (me)
foto tratta dal blog La via dei Fatti - Aforisma
ah
Etichette: Francesco Immediata e Gianluca Polini
posted by Mauro Erro @ 17:28, ,
Spunti di vino e fotografia
martedì 10 gennaio 2012
Avrò avuto dieci anni, doveva essere il giorno di Natale o del mio compleanno.
In primo piano nella foto non c’ero io, ma il sorriso che dilagava sulla mia faccia; uno di quei sorrisi persi e convinti, privi di remore e di perché, che dicono tutto bastando a se stessi.
Non so dove siano rimasti impigliati i fili invisibili tiranti agli angoli della mia bocca, quell’attimo, fatto sta che ci ho messo più di vent’anni e mille chilometri per ritrovarli.
Inizio Settembre, inizio dell’alba.
Calpestavo senza saperlo i sassi del Grands-Echezeaux, una luce chiarissima cominciava ad accarezzarne i filari accendendoli d’un verde carico di promesse.
Sulla mia destra Vosne-Romanée, pietrificata in un’operosità silenziosa e invisibile.
D’intorno un mare, letteralmente un mare di vigna: dolce nel suo impennarsi a sinistra, sconfinato allo sguardo volgendosi indietro, appena declinante fissando davanti.
“Cos’è quella cosa giù in fondo?”
“Dai, te l’avevo detto di studiare… è lo Chateau del Clos de Vougeot!”
Era la mia prima volta lì, mi parve un ritorno. Mi girai di colpo verso chi era con me, allargai le braccia coi pugni chiusi e come per liberazione mi scappò un sorriso. Quel sorriso.
Click. Fermato per sempre.
Non seppi dare un nome a quel benessere, sul momento.
L’ho capito solo riguardandolo poi, da fuori, impresso in una foto in cui ancor oggi c’è tutto: il perché di quell’andare, della passione che fece da carburante e dell’amicizia che lo fece bruciare; e il perché di questo tornare, lì o altrove, ovunque placare una fame irrequieta di libertà, di voci autentiche da ascoltare e mani dure da stringere.
Il vino conta, certo, come può contare una chiave che permetta di aprire una porta affacciata su un panorama infinitamente più vasto.
Quante cose si condensano in una foto, gocciolandone piano ogni volta che volutamente o per caso ci ricascano gli occhi.
Certe foto, come certi vini, realizzano una distillazione di senso non percepibile a occhio nudo.
Camminando in vigna a squadrarne ogni grappolo, o lungo un sentiero a inquadrarne ogni albero, non puoi sapere davvero cosa mai ne uscirà. Tra un’immagine scialba e una bellissima, tra un vino ordinario e uno fantastico il confine è talvolta più labile di quanto si pensi: stare dal lato buono è questione di tecnica, intuito e molta fortuna.
Non puoi dire di voler fare un vino o una foto memorabile, metterci tutto l’impegno e solo per questo riuscirci di colpo; quando accade, però, ciò che ne esce può gettare tanta luce al passato da schiarire il presente.
Vino e fotografia fermano l’aspetto di un luogo in un tempo, cristallizzando un profilo senza ingessare il suo movimento.
Non deve necessariamente trattarsi di una visione esplicita: i casi più interessanti, piuttosto, sono quelli che suggeriscono vuoti da riempire col proprio vissuto per farne cassa di risonanza a pensieri custoditi sottopelle chissà da quanto.
Una bottiglia sa cambiare nel tempo, una foto no; anche quest’ultima, tuttavia, può evolvere imprevedibilmente con gli anni nella misura in cui evolva la nostra capacità di focalizzare l’insieme attraverso le sue sfumature. Indispensabile a ciò quel “senso del partecipare” che la pietra della Szymborska vanamente chiede al suo interlocutore, quel protendersi intriso di silenzio che segna il discrimine tra vedere e guardare, tra sentire e ascoltare.
C’è poi il manipolare del fotografo e del vignaiolo, il loro indirizzare ciò che si è colto senza tradirne la fisionomia originaria.
Cosa dovrebbe essere una buona cantina se non un’appendice di terroir grazie alle pratiche sedimentate dall’osservazione, ai muri incrostati di lieviti, al microclima che lentamente estende il concetto di annata al di là del frenetico intervallo di una vendemmia?
E cosa potrebbe fare di buono un ritocco a un’immagine se non darle più voce alleggerendo un colore o sottolineando un contrasto?
Senza aggiungere o sottrarre alcunché, la sottigliezza del compito sta nel modulare quel che c’è già: è tra l’esecutore e l’autore che sta il delicato ruolo dell’interprete.
Credo che il vino sia una foto senza immagine, o meglio in cui l’immagine c’è ma è trasparente, ricostruibile alla vista procedendo “a ritroso” col gusto e l’olfatto.
Non è il risalire da un profumo o un sapore al profilo di una collina, ma il proiettare alla mente qualcosa di altro che ne sintetizzi d’emblée il carattere, il timbro.
La bruma autunnale suggerita dai rossi borgognoni del ’98, la solarità cupa di certi Chianti del 2003, l’algido sfavillìo di tanti Riesling tedeschi del 2007 - per citarne alcune - sono idee che oltrepassano i dati fisici o chimici pur essendone in vario modo influenzate.
Idee modellate dalla gradualità della luce, che trascendono presunte gerarchie di zone o di annate per assegnare a ciascuna un posto degno nella memoria; immagini che liberano campo alla fantasia schiudendo assonanze concise e incisive, opinabili quanto si vuole ma interessanti, irriducibili nei loculi che strutturano ogni esanime tentativo di omologare urbi et orbi un giudizio.
Si guarda una foto e via a ruota libera ricordi, aneddoti, vita vissuta.
Allo stesso modo si può parlare di un vino senza parlare di vino, quando lo sfilare via un tappo sia un modo per avvicinarsi a chi ci è di fronte.
La magia, in entrambi i casi, sta nel far emergere spontaneamente qualcosa di intimo che trafigga d’istinto la superficie piana dell’evidenza: sul lucido riflesso di una stampa o di un bicchiere, a ben guardare, in primo piano resta sempre il chiaroscuro di noi stessi.
In primo piano nella foto non c’ero io, ma il sorriso che dilagava sulla mia faccia; uno di quei sorrisi persi e convinti, privi di remore e di perché, che dicono tutto bastando a se stessi.
Non so dove siano rimasti impigliati i fili invisibili tiranti agli angoli della mia bocca, quell’attimo, fatto sta che ci ho messo più di vent’anni e mille chilometri per ritrovarli.
Inizio Settembre, inizio dell’alba.
Calpestavo senza saperlo i sassi del Grands-Echezeaux, una luce chiarissima cominciava ad accarezzarne i filari accendendoli d’un verde carico di promesse.
Sulla mia destra Vosne-Romanée, pietrificata in un’operosità silenziosa e invisibile.
D’intorno un mare, letteralmente un mare di vigna: dolce nel suo impennarsi a sinistra, sconfinato allo sguardo volgendosi indietro, appena declinante fissando davanti.
“Cos’è quella cosa giù in fondo?”
“Dai, te l’avevo detto di studiare… è lo Chateau del Clos de Vougeot!”
Era la mia prima volta lì, mi parve un ritorno. Mi girai di colpo verso chi era con me, allargai le braccia coi pugni chiusi e come per liberazione mi scappò un sorriso. Quel sorriso.
Click. Fermato per sempre.
Non seppi dare un nome a quel benessere, sul momento.
L’ho capito solo riguardandolo poi, da fuori, impresso in una foto in cui ancor oggi c’è tutto: il perché di quell’andare, della passione che fece da carburante e dell’amicizia che lo fece bruciare; e il perché di questo tornare, lì o altrove, ovunque placare una fame irrequieta di libertà, di voci autentiche da ascoltare e mani dure da stringere.
Il vino conta, certo, come può contare una chiave che permetta di aprire una porta affacciata su un panorama infinitamente più vasto.
Quante cose si condensano in una foto, gocciolandone piano ogni volta che volutamente o per caso ci ricascano gli occhi.
Certe foto, come certi vini, realizzano una distillazione di senso non percepibile a occhio nudo.
Camminando in vigna a squadrarne ogni grappolo, o lungo un sentiero a inquadrarne ogni albero, non puoi sapere davvero cosa mai ne uscirà. Tra un’immagine scialba e una bellissima, tra un vino ordinario e uno fantastico il confine è talvolta più labile di quanto si pensi: stare dal lato buono è questione di tecnica, intuito e molta fortuna.
Non puoi dire di voler fare un vino o una foto memorabile, metterci tutto l’impegno e solo per questo riuscirci di colpo; quando accade, però, ciò che ne esce può gettare tanta luce al passato da schiarire il presente.
Vino e fotografia fermano l’aspetto di un luogo in un tempo, cristallizzando un profilo senza ingessare il suo movimento.
Non deve necessariamente trattarsi di una visione esplicita: i casi più interessanti, piuttosto, sono quelli che suggeriscono vuoti da riempire col proprio vissuto per farne cassa di risonanza a pensieri custoditi sottopelle chissà da quanto.
Una bottiglia sa cambiare nel tempo, una foto no; anche quest’ultima, tuttavia, può evolvere imprevedibilmente con gli anni nella misura in cui evolva la nostra capacità di focalizzare l’insieme attraverso le sue sfumature. Indispensabile a ciò quel “senso del partecipare” che la pietra della Szymborska vanamente chiede al suo interlocutore, quel protendersi intriso di silenzio che segna il discrimine tra vedere e guardare, tra sentire e ascoltare.
C’è poi il manipolare del fotografo e del vignaiolo, il loro indirizzare ciò che si è colto senza tradirne la fisionomia originaria.
Cosa dovrebbe essere una buona cantina se non un’appendice di terroir grazie alle pratiche sedimentate dall’osservazione, ai muri incrostati di lieviti, al microclima che lentamente estende il concetto di annata al di là del frenetico intervallo di una vendemmia?
E cosa potrebbe fare di buono un ritocco a un’immagine se non darle più voce alleggerendo un colore o sottolineando un contrasto?
Senza aggiungere o sottrarre alcunché, la sottigliezza del compito sta nel modulare quel che c’è già: è tra l’esecutore e l’autore che sta il delicato ruolo dell’interprete.
Credo che il vino sia una foto senza immagine, o meglio in cui l’immagine c’è ma è trasparente, ricostruibile alla vista procedendo “a ritroso” col gusto e l’olfatto.
Non è il risalire da un profumo o un sapore al profilo di una collina, ma il proiettare alla mente qualcosa di altro che ne sintetizzi d’emblée il carattere, il timbro.
La bruma autunnale suggerita dai rossi borgognoni del ’98, la solarità cupa di certi Chianti del 2003, l’algido sfavillìo di tanti Riesling tedeschi del 2007 - per citarne alcune - sono idee che oltrepassano i dati fisici o chimici pur essendone in vario modo influenzate.
Idee modellate dalla gradualità della luce, che trascendono presunte gerarchie di zone o di annate per assegnare a ciascuna un posto degno nella memoria; immagini che liberano campo alla fantasia schiudendo assonanze concise e incisive, opinabili quanto si vuole ma interessanti, irriducibili nei loculi che strutturano ogni esanime tentativo di omologare urbi et orbi un giudizio.
Si guarda una foto e via a ruota libera ricordi, aneddoti, vita vissuta.
Allo stesso modo si può parlare di un vino senza parlare di vino, quando lo sfilare via un tappo sia un modo per avvicinarsi a chi ci è di fronte.
La magia, in entrambi i casi, sta nel far emergere spontaneamente qualcosa di intimo che trafigga d’istinto la superficie piana dell’evidenza: sul lucido riflesso di una stampa o di un bicchiere, a ben guardare, in primo piano resta sempre il chiaroscuro di noi stessi.
ah
Etichette: Giampiero Pulcini
posted by Mauro Erro @ 13:55, ,
A proposito di novità...le interviste di Enogea
lunedì 9 gennaio 2012
Tra le tante novità a cui avevo fatto riferimento negli ultimi post, una delle più ghiotte è sicuramente il nuovo canale video di Enogea su youtube, inaugurato da una interessante intervista di Alessandro Masnaghetti a Giorgio Grai, enologo, ex pilota di Rally, uno dei nasi e dei palati più allenati d'Italia, che racconta come è iniziata la sua carriera.
Non aggiungo altro se non buona visione.
posted by Mauro Erro @ 17:01, ,