La critica straniera



Inesorabile arriva la domanda degli amatori più appassionati: hai letto cosa ha scritto Meadows dell’ultima annata a Pommard? Che ne pensi di Antonio Galloni?  
Solitamente sfuggo con un secco non ne penso, non ho letto, per non imbastire una discussione molto lunga in un momento inappropriato. 
La prima cosa che ho sempre rilevato in queste domande è la curiosità verso i critici anglosassoni, curiosità che diviene appena palpabile per quelli italiani, quasi assente per i francesi: evento raro che qualcuno mi chieda un’opinione sulla La Revue du vin de France o su un articolo di Michel Bettane. Ed è certo un paradosso visto che il 90% delle volte si parla di vini francesi o italiani. 
È un normale processo di acculturazione che deriva probabilmente dalla fascinazione del potere di cui godono alcuni di essi. Hanno il vantaggio di scrivere nella lingua che mette in comunicazione il mondo, l’inglese, di rivolgersi in ogni caso a un pubblico già numeroso, quello americano, e a un mercato storicamente ritenuto autorevole, quello britannico. Per questo una loro recensione positiva può incidere sulle sorti di un produttore. Capisco quindi che oggi l’interesse dei viticoltori nostrani in un mercato globalizzato sia rivolto quasi esclusivamente ai critici anglosassoni. Ciò detto, se capita che tra critici e viticoltori della stessa lingua si assista a un dialogo tra sordi, con quelli stranieri mi è capitato di ammirare scene di incredibile ilarità. 

Michel Bettane - foto Enogea

Perché al di là dei risvolti mercantili della faccenda, rimane la degustazione e la conseguente recensione, e chiunque abbia avuto modo di assaggiare con critici di altra nazione sa bene che le prospettive estetiche possono essere molto diverse. Questo perché la degustazione non è solamente un tentativo analitico, ma anche un processo culturale. Ho ripescato una frase che avevo appuntato, non ricordo se di Emile Peynaud, che rende subito l’idea: “Gli italiani sono in genere più tolleranti con il gusto amaro, gli americani con il dolce, i tedeschi con l’anidride solforosa, i francesi con il tannino e i britannici con i vini decrepiti, mentre gli australiani tendono a essere particolarmente sensibili ai mercaptani, e gran parte degli americani ritengono che un sentore di erbe sia un difetto più che una caratteristica”. 
Una generalizzazione, certo, non so quanto rappresentativa, ma contiene sicuramente un’opportuna riflessione. Di esempi se ne potrebbero fare altri, e tra i tanti ho scelto quello della ruota degli aromi di Ann C. Noble, professoressa all’Università di Davis in California, una mappa sintetica ma efficace dei profumi del vino, molto più di certi tomi in cui può capitare di imbattersi in libreria. A ben osservarla è sfumata la distinzione che siamo abituati a fare in Italia tra aromi primari, secondari e terziari, con tutto ciò che ne può derivare in termini di deduzioni. 

Ruota degli aromi del vino - Ann C. Noble

Ovviamente il discorso è ampio e gli aspetti culturali della degustazione possono essere molteplici, senza contare che ogni critico si nutre di un percorso personale e ha un suo particolare punto di vista, e ciò complica non poco la reale fruizione del suo operato: la recensione. Perché anche il linguaggio fa parte di quegli aspetti culturali, e chi ha consuetudine nella lettura delle note dei critici anglosassoni come di quelli italiani conosce le inevitabili differenze. 
A voler fare una rapida e insufficiente analisi semantica di quelle che si possono leggere in Italia oggi si assiste a fenomeni di polarizzazione. Da un lato un linguaggio estremo, molto libero e ricco di metafore, ma spesso altrettanto rapido nel produrre effetti di ilarità, esporre il proprio lato ridicolo, reazione ad un linguaggio ritenuto rigido, stantìo e soffocante. Dall’altro l’austerità dei critici riconosciuti che, nelle pubblicazioni cartacee, poco si discosta dalle convenzioni acquisite: un codice ben definito, che cerca di semplificare le cose, in un clima culturale generale tendenzialmente conformista che in passato ha etichettato certe libertà letterarie di Veronelli esclusivamente come provocazioni. 
È improbabile, insomma, riscontrare l'emancipazione che si ritrova in certe espressioni anglosassoni, che ci si possa imbattere nell’abusata metafora della cattedrale gotica o che si possa leggere di uno Cheval Blanc del 2009 alla maniera di Jancis Robinson che lo ha definito "quasi come un bambino cui è stato detto di concentrarsi ed esercitarsi al pianoforte".

Jancis Robinson - foto Financial Times

Giunti qui, posso anche rispondere alla domanda iniziale: si, mi capita di leggerli, ma solo in ultima istanza. Continuo a preferire, con tutti i suoi limiti, la vituperata scuola italiana, poi quella francese. Leggo alcuni critici inglesi o americani poco impressionato anche da certi punteggi svettanti, con la curiosità di verificare le riflessioni di persone molto competenti, spesso più di me sui luoghi celebri del vino, ma che sono altro da me, cercando di capirne le prospettive e di tradurne, per quanto possibile, il linguaggio.

posted by Mauro Erro @ 12:37,

4 Comments:

At 23 marzo 2017 alle ore 17:53, Blogger Francesco Annibali said...

Molto interessante l'annotazione che nella ruota degli aromi la divisione tra primari ecc... è molto sfumata. Direi che la ruota è una visione orizzontale, la divisione in primari ecc... invece verticale.
Da google map tutti i grattacieli sembrano alti uguale no?

 
At 23 marzo 2017 alle ore 18:28, Blogger Mauro Erro said...

Oddio, a me sembrano entrambe mappe in due dimensioni, solo pensate in alcune cose in maniera diversa, per cui nella ruota, a vino bianco invecchiato corrisponde solo miele, o cherosene alla voce minerale.

 
At 23 marzo 2017 alle ore 19:49, Blogger Francesco Annibali said...

si si entrambe a 2 dimensioni

 
At 23 marzo 2017 alle ore 20:23, Blogger Mauro Erro said...

ah, quindi tipo piantina e prospetto fossimo architetti, ma non so se mi torna.

 

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