Sancerre Chêne Marchand 2012, Vincent Pinard
lunedì 30 gennaio 2017
Ci sono tanti modi per degustare un vino ed esprimere un giudizio. C’è chi cerca di essere distaccato, mollemente burocrate, e chi invece afferma la propria idea estetica e lascia che i propri gusti siano parametro per misurare il vino, e spesso pure il mondo. C’è chi si prende del tempo, settimane, per sviscerare un dialogo complesso con la bottiglia, chi vuole portarla a tavola e abbinarla al cibo, chi ne beve un centinaio in un giorno, una batteria dietro l’altra, chi lo stesso vino ripetutamente nell’arco di mesi. Tutto lecito, soprattutto quando dichiarato, e un comportamento non esclude l’altro, ovviamente.
C’è da dire che ho un debole per Sancerre ad esempio. È uno di quei vini che porto sempre molto volentieri a tavola pervaso da un certo entusiasmo difficile da controllare, che genera aspettative molto alte e lascia poco spazio allo stupore: al vino è concesso solo di essere, appunto, all’altezza. E succede che non lo sia, come una sera di quest’estate in cui un Monts Damnés del 2008 mi tradì durante un’ottima cena in bella compagnia venandola appena di delusione.
Dovendone dare ragione, dire del perché di questo entusiasmo, non basterebbe ridurla a una semplice questione estetica: scrivere che in un Sancerre di buona annata, stappato in un momento fortunato, ci trovo tutto ciò che cerco in un vino spiega parzialmente. Non è solo il suo modo di comportarsi, né soltanto una questione di complessità e finezza che si possono trovare in tanti altri vini. Penso che l’incontro con questo vino fosse inevitabile, mi sono convinto che, con quel suo modo di richiamare il mare pur essendone distante, pur trovandosi sulla riva della Loira, rintracci qualcosa di sedimentato in me come un fossile: nato in una città di mare, cresciuto con quegli odori e quei sapori, attraversato da quell’energia, con le carni abrase dalla luce e dal sale.
Souplesse dicono i francesi, parola che tradotta potrebbe dirsi agilità, scioltezza, flessibilità: pur sfiorandola, non rende del tutto l’idea di come si possa comportare un Sancerre all’assaggio. Una parte, con certo afflato poetico, la ritrovo nella definizione di Pierre Bréjoux: Serve questo per capire Sancerre: un collo lungo come quello di un cigno. Me ne fece partecipe un vecchio amico molti anni fa, in un bistrot di Sancerre, davanti un piatto di rognone su cui misuravamo con le parole la persistenza di una bottiglia di Francois Cotat. Lunga, la persistenza, ci si limita a scrivere talora per svogliatezza, altre per incapacità, spesso per necessità di sintesi, come se un vino, un Sancerre, e per estensione molte delle cose della vita terrena, lasciasse un segno misurabile solo in termini quantitativi.
Impregnare, inzuppare, permeare, imperlare. Un buon bianco di Sancerre è anche questo prima che arrivi il gran finale: la capacità di esserci con delicatezza, di toccarti appena, di non essere pesante, di non invadere ma con leggerezza farti sentire fradicio dei suoi aromi, erbe, agrumi, frutta, note linfatiche e salmastre, sale e pepe. E dopo essersi sottilmente acquietato, la fiammata di ritorno, l’avanzata impetuosa dei vapori che salgono dallo stomaco con preciso dettaglio: dopo averti asciugato di saliva e ossigeno l’incendio divampa di nuovo lasciando che quell’energia vada ben oltre il palato. Che si plachi e si rinnovi nel successivo calice, fino all’ultimo che speri non arrivi mai.
posted by Mauro Erro @ 16:52,