Sulla critica del vino: il club degli scettici
venerdì 29 gennaio 2016
Christopher Hitchens |
Sin da quando è esistita, dalla seconda metà del novecento, la critica del vino si è sempre interrogata sulla fondatezza del suo giudizio, sul suo valore, sul metodo attraverso quale vi giungeva: sulla sua funzione, infine. Da un lato pressata dalla contingenza della realtà, dalle esigenze del mercato, dalla necessità di catalogare, interpretare e comunicare come le chiedevano sia produttori che consumatori. Dall’altro spinta dall’istanza di definire l’oggetto della sua attenzione: il vino o, per estensione, il gusto.
Non voglio qui rinfocolare il dibattito estetico sull’opportunità o meno di trattare cibo e vino al pari dell’arte, né tantomeno stabilire se da Platone e Aristotele in poi, nella cultura occidentale, sia giusto o no considerare gusto e olfatto sensi inferiori agli altri come strumenti di conoscenza. Non ho intenzione di rinverdire qui le passate letture, discettare di Hume e Burke, di Kant, Voltaire, Rousseau o Montesquieu, di Baumgarten o Leibniz o, per stare ai giorni nostri, di Giorgio Agamben o Carolyn Korsmeyer. Non è qui che voglio lasciarmi andare alla mera speculazione filosofica in astratto citando il rasoio di Occam né fare una critica sociale, lasciandola come è giusto che sia agli estetologi. Mi preme, invece, stabilire le applicazioni di tali considerazioni dal punto di vista della critica nel pratico, del superamento (o meno) di quella che si definisce la soggettività del gusto, come sentimento, razionalità e giudizio estetico.
Perché pare che nell’ambiente del vino, da più parti, si invochi un superamento dei modelli o metodi di valutazione adoperati dalla critica, un cambiamento di approccio, un linguaggio più libero - come se, poi, di critica, metodi e scuole di pensiero ce ne fosse una soltanto. E se da una parte bisogna rallegrarsi di tale vivacità di pensiero e dibattito, soprattutto quando espressa da chi è competente della materia, dall’altro non so quanto rispecchi le esigenze del consumatore ultimo e meno smaliziato, sempre più abbandonato alle derive di un linguaggio iniziatico, quale esso sia: tecnicistico, filosofico, poetico, ecc.
Ed è davvero solo un problema di linguaggio o di metodo? O anche di perdita di credibilità della critica istituzionale? E l’avvento di nuove figure e di nuovi interlocutori ha acuito o diminuito la distanza con i consumatori?
A guardare i dati dei consumi in Italia, nonostante il dibattito sempre più vivo, pare che nulla sia cambiato in fondo, e che il consumo del vino cali di anno in anno.
I sempre più frequenti interventi e dibattiti focalizzano la loro attenzione sull’eterna tensione tra oggettivismo e soggettivismo, tra assolutismo e relativismo del giudizio, tra tecnica ed emozione, a vantaggio dei secondi, di questi tempi.
Ma in questo relativismo critico, in questo soggettivismo dell’emozione spesso mi pare di scorgere nient’altro che un opportunismo di convenienza che strizza l’occhio al mondo della produzione, un conformismo del pensiero politicamente corretto che tenta di strizzare l’altro occhio al consumatore/lettore.
Una posizione che ha trovato terreno fertile in internet e nella sua intellighenzia, con le sue istanze “dal basso” e l’impasto creatosi tra produttore, opinionista, venditore e consumatore. Figure che spesso coincidono, in una presunta orizzontalità in cui non sono le opportunità di espressione ad essere uguali - non lo sono e mai lo saranno, anche sul web esiste una disparità di mezzi tra un piccolo blogger e una grande azienda - ma l’opinione finale, in un frainteso principio democratico dove alla fine vincono i furbi (da rintracciare tra aziende, giornalisti, opinionisti e critici) e perdono gli ingenui (da rintracciare tra i consumatori e lettori).
Sempre più spesso l’orizzontalità si traduce in appiattimento, mancanza di discriminazione dei valori, di valutazione del merito e del singolo caso, castrazione dialettica, con la conseguenza di lasciare i consumatori finali alla mercé del dio totemico mercato, delle sue distorsioni e delle sue speculazioni, vittime del marketing e dei suoi strumenti.
Insomma, se da un lato anch’io vivo il timore e il rifiuto di qualsiasi rapporto fideistico con un presunto guru, dall’altro ho timore e rifiuto l’assoluta assenza del principio di terzietà, di una critica indipendente che metta in discussione e filtri, lasciando al mercato - dio giusto e onnipotente - il compito di discriminare.
Perché è questo il rischio e la problematica sempre più evidente.
Perché mai come oggi esiste massima libertà di linguaggio, approcci differenti e numerosi critici, e, mai come oggi, è grande la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente. Eccellente per chi tenta di colmare quel vuoto di credibilità creatosi, troppo spesso con furbizia e semplice calcolo.
So bene che la critica ha le sue colpe, i suoi patemi, i suoi dubbi legittimi e no, i suoi sensi di colpa. Conosco bene le sue leggerezze, le sue miserie, gli adattamenti, le menzogne, gli opportunismi, tollerati e giustificati in virtù di una debolezza strutturale che ha significato il legame prima, la schiavitù poi, con il mondo della produzione, che ha minato la sua credibilità agli occhi di molti. Ma allo stesso tempo non mi rassegno all’idea della sua scomparsa in nome dell’emozione, del soggettivismo e del relativismo.
In oltre dieci anni di pratica ho avuto la fortuna di attraversarla passando tra molte delle sue scuole di pensiero o, più semplicemente, di metodo, fino a giungere ad una personale posizione che credo di condividere con qualche altro collega, con cui, prima o poi, fonderò il club degli scettici, e che le parole che seguono di Christopher Hitchens ben riassumono.
È un compito davvero difficile combattere contemporaneamente assolutisti e relativisti: tener fermo, da una parte, che non c’è una soluzione totalitaria e, dall’altra, insistere che, sì, anche noi, dalla nostra parte, abbiamo convinzioni immutabili e siamo intenzionati a combattere per esse. Dopo aver praticato tante fedeltà, sono arrivato alla conclusione che Karl Marx aveva più ragione di tutti quando raccomandava il dubbio e l’autocritica continui. Far parte del club o della tendenza degli scettici non è affatto un’opzione facile. […] Essere un non credente non significa semplicemente essere “di mentalità aperta”. È, piuttosto, una decisiva ammissione di incertezza che è dialetticamente connessa con il ripudio del principio totalitario, nel pensiero come in politica*.
posted by Mauro Erro @ 13:26,