“Tenga il manubrio leggero” mi diceva Coppi

Attilio Camoriano, Vasco Pratolini, Alfonso Gatto e Michele Quartieroni (Olycom)

Pescara, 6 

La voce che io non so andare in bicicletta ha fatto il giro della carovana. Quando siamo in corsa non è male che Leoni mi sfreccia vicino facendomi l’occhietto: “Vedi come si fa a stare in macchina?”. Io cerco di sorridergli, ma quando lui è passato mi mordo le unghie per la vergogna. Credevo di trarre vantaggio dalla mia posizione, ora mi accorgo che la popolarità di cui godo è proprio il prezzo del disonore. 
Perfino i ragazzi all’arrivo mi aspettano per indicarmi: faccio finta di non sentire, ma le loro parole mi restano nell’orecchio e mi fanno arrossire anche quando dormo. “Sembra un vecchio campione” dicono “ed è soltanto un posa-piano. Lui a casa ha il triciclo” e via di questo passo. Hanno ragione. In bicicletta vanno tutti, le donne e i bambini, i preti e i soldati. Io soltanto no. 
Coppi, che è un buon ragazzo, mi si è avvicinato stamane mentre andavo al bagno e mi ha detto: “perché non cerca di imparare? Se vuole, al pomeriggio le insegnerò io”. Ho cercato di rispondergli: “si immagini quale onore è per me; ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore di università”. “Comunque, se vuole, dopo colazione vengo a prenderla in albergo. A quell’ora non ci sarà nessuno e troveremo una via deserta per gli esercizi”.
Alle due ero ad aspettarlo. Fausto è venuto in pantaloncini corti e si è incamminato con me. Strada facendo abbiamo parlato di tante cose, dei ricordi in comune che incominciavamo ad avere delle nostre famiglie, senza deciderci tuttavia ad incominciare. “Mi dica un poco, come ha fatto a non salire mai su una bicicletta nemmeno da ragazzo?” mi ha chiesto ad un certo punto rimanendo col naso arricciato come è sua abitudine. “È molto semplice – ho risposto – non sono mai riuscito a stare in equilibrio più di un secondo, ed ho provato, sa, non creda che me ne sia stato con le mani in mano. Non ci riuscirò mai. Lei è per me come il gran medico che le famiglie chiamano solo quando il malato è bell’e spacciato”. 
“Proviamo”, ha detto Coppi tagliando corto. 
Eravamo in una via deserta lungo un muro. Fausto si è messo in posizione reggendo la bicicletta. Mi sono issato in sella con molto sforzo e balbettando scuse incomprensibili. “Pedali forte, guardi davanti a sé”. Le solite parole che dicono tutti. Anche Coppi non poteva che ripeterle. Che se ne fa della sua scienza un filosofo che sia costretto ad insegnare le aste ai bambini? 
“Pedalare forte”. È presto detto, ma come? “Più forte, più forte” – sibilava fra i denti Coppi che già incominciava a disperare – “Tenga il manubrio leggero, non guardi la ruota…”. Quante cose da non fare in un momento? “Scendo – supplicavo – mi lasci scendere”. Per un attimo ho provato la dolcezza del volo, sapendo di cadere ed ero già caduto nella polvere come un guerriero antico. Coppi da lontano scuoteva la testa, con le mani puntate sui fianchi. Diecine di curiosi erano affacciati dal muro, che prima sembrava dividesse il deserto e non si azzardavano nemmeno a ridere per la soggezione di vedersi lì Coppi davanti con l’aria del maestro. Non sapevo dove nascondere la faccia, mi veniva da piangere. È venuto a rilevarmi Zandonà accompagnatosi a Tragella che veniva a pescare Coppi. “Ma io so nuotare”, ho cercato di spiegare a Coppi e agli altri accompagnandoli all’albergo, “da ragazzo mi battevo per i trenta metri”. Le mie parole sono cadute nel vuoto. 
Ora sono chiuso in camera e sul mio diario vado scrivendo tristi pensieri e un triste proposito. 
Intanto tutta la città parla e sparla di me, i miei colleghi non sanno come comportarsi. Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. È ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti. Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare. 

Alfonso Gatto, L'Unità, 7 giugno 1947
38esimo Giro d'Italia

posted by Mauro Erro @ 10:57,

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