Bocciato
lunedì 15 dicembre 2014
Boris Vian |
«Al di là della vicenda personale, è arrivato il momento di interrogarsi seriamente sui criteri con cui operano e giudicano le commissioni incaricate di autorizzare la commercializzazione sotto il cappello di una Docg. Specialmente in quelle denominazioni, come il Fiano di Avellino, dove il disciplinare fissa dei paletti a dir poco vaghi e generici per quanto riguarda le caratteristiche organolettiche con cui devono presentarsi i vini all’assaggio. Se non viene fatta un’operazione di spiegazione e trasparenza, credo che l’unica strada sia uscire definitivamente dalla denominazione».
Così parlò Antoine Gaita, patron di Villa Diamante, qualche mese fa commentando la bocciatura da parte della commissione che attribuisce la fascetta Docg Fiano di Avellino del suo La congregazione 2012. Al di là del caso specifico – come ho scritto all’epoca reputo il vino squisito – Gaita coglie il punto sostanziale della faccenda. Ossia come si possa tradurre l’incessante domanda d’identità e tipicità dei consumatori più colti, appassionati ed operatori, con l’attuale sistema di denominazioni di origine, farraginoso, improvvido e lacunoso al tempo stesso, al di là del requisito minimo della qualità e della piacevolezza, ahimè nemmeno garantiti, nonostante le oltre 70 Docg, le 300 e passa Doc e lasciamo perdere le igt.
Basta fare un semplice paragone con mercati molto più evoluti del nostro come quello francese per capire la differenza. E non è necessario sapere quante Aoc ci sono. I vini basta assaggiarli. Tradotto: anche il consumatore meno attento e colto capisce a cosa va incontro una volta che ha assaggiato un Borgogna e un Bordeaux. E di volta in volta, a seconda di occasione e possibilità di spesa, ne acquisterà scegliendo secondo il proprio gusto, scegliendo l’interpretazione di Tizio o di Caio, quell’annata o quell’altra. Da noi bisogna capire prima cosa si è comprato, se quel che è scritto in etichetta corrisponde a ciò che beviamo, e poi capire se ci piace o meno.
Tradurre le duemila pagine della versione 2011 del codice delle Denominazioni che ho tra le mani in qualcosa che garantisca realmente la qualità e la piacevolezza – requisito minimo – e l’identità. Certo un compito non facile ma che dovremmo prima o poi iniziare. Ridurre la fetta di discrezionalità delle commissioni (ben consapevoli che solo chi non fa non sbaglia, ma si deve aspirare a far bene) andando oltre quei parametri che Gaita opportunamente definisce vaghi e generici. Fin quando per un rosso docg le caratteristiche fissate per l’odore saranno tipico, gradevole ed intenso, le bocciature anche di vini celebri e squisiti fioccheranno, secondo una logica a noi incomprensibile.
Ma non basta.
Visto che i disciplinari, le regole e le doc sono scritti dai produttori stessi, invito ad un investimento sempre maggiore in conoscenza e consapevolezza. Di quello che avete sotto i piedi e di quello che vi sta attorno.
Non a caso ho scelto di citare l’odore secondo il disciplinare di un docg rosso italiano, perché mi è da poco arrivata la notizia di un’altra bocciatura di un vino che frequentemente ho trovato particolarmente buono. Non campano, lo scrivo subito. Non ne farò menzione, tanto si saprà, perché non m’interessano schermaglie di parte e polemiche sterili.
"La commissione evidenzia sentori olfattivi che non corrispondo ai parametri del Disciplinare di Produzione: evidenzia, inoltre, al gusto sapore eccessivamente tannico, squilibrato, privo di sentori di legno".
Visto che è il mio lavoro quello di commentare anche notizie del genere, posso scrivere solo una cosa: al di là del merito (non ho assaggiato il vino) dal mio punto di vista - quello di un degustatore che in ogni corso, lezione, serata che è stato chiamato a condurre e che in tantissimi dei suoi scritti ha sottolineato con convinzione che il legno non si deve sentire o che al massimo può essere un peccato veniale o una virtù, a seconda dei casi, se si avverte giusto un po’ in un profluvio di tanto tanto altro - l’unica conclusione è che per un attimo, più o meno lungo, lo spirito di Boris Vian, di certo non lo stile, si sia impossessato della commissione giudicante.
E sinceramente lascerei perdere: surreale è surreale, ma Vian era più bello da leggere.
posted by Mauro Erro @ 10:26,