Surrealismo etilico

Il consumatore medio – al pari della casalinga di Voghera, povero lui, di ignoranza supposta e prevista – vive spesso nell’errata convinzione che spendere di più per una bottiglia di vino significhi necessariamente bere meglio. Una regola di buon senso applicabile ad ogni settore del vivere umano e, in linea di massima, anche al vino.

Ma nel caso del vino la linea di massima non è una linea retta: curve a gomito si presentano spesso e il rischio di andare fuori la strada lastricata di buon senno, ponderatezza, equilibrio ed essere sbalzati nel precipizio delle domande amletiche è molto alto.

Ovviamente il prezzo di un vino, indipendentemente dai suoi costi, come il resto dei beni a questo mondo, è determinato dal mercato: quel luogo in cui domanda e offerta s’incrociano. Si presume di conseguenza, che se esistono un certo numero di persone disposte a pagare la cifra x per il vino y, esistono una serie di buone ragioni che spingono a spendere quelle determinate cifre e che si condensano in quella surreale parola che si scrive così: qualità.
Mi preme aggiungere però, onde evitare che la strada che state – sto – percorrendo vi porti dritti ad un istituto di correzione mentale, che il concetto di qualità, ben lungi dall’essere definito, può avere tante sfumature quanti gli attori in gioco e il buono del vino y può significare: carino, simpatico, gustoso, affidabile, cool, i russi lo adorano, eccetera, eccetera, eccetera.

Senza arrivare all’utilizzo della pubblicità comparativa poco in auge presso noi italiacci, potremmo fare riferimento al caso non infrequente, leggendo la stampa di settore, in cui, in un’azienda, il cosiddetto secondo vino, quello “con le uve di scarto”, prodotto in quantità più elevate, quello che serve a fare cassa e ha meno pretese di essere “il vino”, finisce con l’essere molto più centrato nel suo sviluppo gustativo e apprezzabile rispetto al Vino, prodotto in piccole quantità, con le uve migliori e le cure più amorevoli e iper-super-qualche cosa (prezzo anabolizzato compreso).

Di qui, il passo ad uno dei tormentoni più riusciti nel linguaggio enogastronomico è breve: il vino emozionante.
È facile comprendere due aspetti.
Il primo: complice una buona dose di alcol, l’emozione è qui da intendersi come contemplazione estatica sorridente con riflessi commotivi. Non rientrano nell’ambito del linguaggio del vino nella categoria emozione, pur appartenendo all’essere umano, la tristezza, l’indifferenza, l’ira che si possono provare davanti una o più bottiglie di vino.
Secondo: l’emozione ha a che fare con un altro concetto: quello della bellezza.
Dimostrare come ogni tentativo di definizione di bellezza assuma caratteri surreali è presto detto: guardatevi allo specchio. Ecco, non siete George Clooney né Monica Bellucci. Eppure qualcuno ci ama e ci crede persino belli in qualche modo. Lo so, anche questo è surreale, ma ho il vago sospetto che anche qui giochi un suo ruolo l’alcol.

Va da sé, quindi, che la bellezza non è definibile attraverso un decalogo di regole estetiche o stilistiche e prende forme assai bizzarre: l’onnipotenza del sogno, il gioco del pensiero, la malinconia o l’ilarità del ricordo. Così come l’emozione può essere uno squarcio di realtà prodotta dal caso, da un qualcosa di non programmato, un’associazione libera*.

Ci pensavo l’altra sera mentre bevevo lo Champagne Pol Roger W. Churchill 1996 (Naso maschio, denso di materia, ma che si apre dopo un’ora all’aria avendo come incipit note di bruciato. Formaggio erborinato, muschio, noci, tabacco, agrume, poi iodato. La nota formaggiosa vira sulla mozzarella – anzi provola – di bufala, con quel tocco di selvatico. Palato ricco, nervoso per certi versi e persino giovane, chiude su un timbro minerale di richiamo ferroso) e il Volnay, 2005, di Lafarge (naso che all’apertura ricorda i Barolo Brunate dei Marcarini con una netta quanto precisa nota di viola su un evidente sottofondo balsamico: eucalipto, in particolar modo. Melone di pane, gelatina di fragole, gelsomino, mimosa, contrasti di china. Palato di buon impatto, ma che presenta uno scalino a centro bocca: conclude assottigliandosi marcando, con il suo timbro minerale e un po’ di tannino, il finale).

La prima, se ne trovate in giro, costa tra enoteche e ristoranti tra i 200 e 300 euro, credo, ed è una esperienza, nonostante la precisione tecnica e stilistica, che posso anche non rifare in tutta sincerità (ma se qualche amico mi volesse sottoporre alla prova, offrendomelo, no problem). Il secondo, invece, nonostante una serie di imprecisioni aveva in se qualcosa di coinvolgente. E costa un quinto del primo.

Poi può capitare la fortuna che precisione stilistica, bellezza ed emozione coincidano e questo è il caso della Malvasia di Bosa 2006 di Columbu, un vino che pur “giocando” sul filo dell’ossidazione e dei contrasti che ne derivano nei profumi ha, bevendolo, nulla di cinereo, ma una luminosità di abbagliante sfavillio.
Peccato se ne faccia poco e si possa bere solo a fine pasto.

*libero riadattamento del Bartezzaghi a cui presto torneremo
ah

posted by Mauro Erro @ 13:31,

5 Comments:

At 6 giugno 2011 alle ore 14:58, Anonymous Alessandro Marra said...

Ah, alla fine l'hai bevuta... ;)
Era lì sul tavolo che "ti guardava"...

 
At 7 giugno 2011 alle ore 13:37, Blogger enopippo said...

xchè solo a fine pasto?

...fresca come aperitivo...

 
At 7 giugno 2011 alle ore 13:42, Blogger Mauro Erro said...

un po' dura con quel grado alcolico...proverei, però, al posto del tè pomeridiano, fresco e accompagnato da un paio di biscotti ben scelti...

 
At 7 giugno 2011 alle ore 14:14, Anonymous Anonimo said...

Io sono per l'aperitivo. Bello fresco all'aria aperta sotto una tettotia a contemplare il paesaggio all'ora del tramonto. Azzardandoci perfino un tarallo napoletano.
Fabien

 
At 7 giugno 2011 alle ore 14:44, Blogger Mauro Erro said...

Come disse quel tale, Marco da Molfetta, tentar non nuoce (ne avessi un'altra)...

 

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