Rocca del Principe, Lapio, Fiano di Avellino in verticale
venerdì 6 maggio 2011
Lapio è sempre stato cru d’elezione. Lo scriveva Veronelli, nei suoi cataloghi Bolaffi, sul finire degli anni ’60, raccontando i Mastroberardino. Loro difatti convinsero i viticoltori, che lo vinificavano dolce per il solo consumo familiare, a non spiantarlo a favore di trebbiano, sangiovese, le varietà che arrivavano da fuori, allevate per quantità, dopo la miseria che aveva seguito il secondo conflitto mondiale. Mastroberardino si rese conto di non poter battagliare con gli imbottigliatori napoletani. Scelse di differenziarsi, partendo da qui: da Lapio e dal fiano.
Ancora oggi Lapio rappresenta il cuore pulsante della denominazione con i suoi 120 ettari coltivati. L’intero comprensorio che ricade su ben 26 comuni conta 400 ettari totali e poco più. Non fosse sufficiente questo dato, come termine di paragone basterebbe pensare all’altra collina d’elezione scoperta più recentemente: Montefredane non arriva a 20 ettari coltivati suddivisi tra 3, 4 produttori e qualche contadino.
Lapio si distingue innanzitutto per il particolare microclima. A differenza di molti dei comuni della docg Fiano di Avellino, non affaccia sulla valle del Sabato; ha, soprattutto nella collina d’Arianiello, cru per antonomasia, altimetrie più alte, con molte delle vigne posizionate tra i 400 e poco sopra i 600 metri. Gode di un naturale termoregolatore – nel modulare il caldo, nell’accentuare l’escursione termica di notte e d’inverno – nel Monte Tuoro, 1400 metri a un passo dal naso, a Chiusano San Domenico.
In linea generale la matrice dei terreni è argillosa, argillo-marnosa e sabbiosa di epoca Miocenica, di origine Messiniana e Tortoniana: da 7 a 13 milioni di anni fa all’incirca.
Contrada Arianiello è il punto più alto, la punta di una sorta di barca rovesciata qual è la collina finale di Lapio. Qui, come già detto, giacciono le vigne più alte di cui dispone anche l’azienda Rocca de Principe.
Nata nel 2004, racconta la storia di Aurelia Fabrizio, di suo marito Ercole Zarrella e di suo fratello. Fino ad allora si conferivano le uve, poi il salto con la vinificazione e l’imbottigliamento. Circa 5 gli ettari vitati per la produzione di un unico vino, la cui quantità si aggira, a seconda dell’annata, sulle 20.000 bottiglie.
Le Vigne
C/da Arianiello: 4.000 metri quadri circa, esposti ad ovest piantati nel 1999 a 580 metri d’altitudine. Sesto d’impianto 2,5 metri x 2 metri. Allevamento a filare, doppio guyot.
C/da Lenze: 1, 20 ha, esposizione ovest, 580 metri sul mare. Sesto d’impianto 2,5 metri x 1,5. Piantata nel 2001. Allevamento a filare, doppio guyot.
C/da Campore: 500 metri d’altitudine, vigna di seimila metri piantata nel 2006 ad un sesto d’impianto di 2,5 metri per 1. Filare, potatura guyot.
C/da Tognano: versante nord, da 620 metri degradando ai 500. 3 ettari: 1 ettaro piantato nel 1990 con sesto di impianto 3 metri x 3 alla vecchia maniera della raggiera avellinese; il resto con un sesto d’impianto di 2,5 metri per 1 metro nel 2004, nel 2005 e nel 2011. Sistema di allevamento a filare, potatura guyot.
La degustazione
Il fiano di Rocca del Principe impressiona soprattutto per la costanza qualitativa, segno evidente di grande consapevolezza in vigna e ottima materia. Soprattutto considerando i diversi ed evidenti registri stilistici che caratterizzano il percorso di questa piccola realtà sin dai suoi esordi. Bisognerebbe distinguere, infatti, la sua storia in due fasi ben distinte. Le prime tre annate sono state curate in cantina da Massimo di Rienzo, oggi enologo alla Mastroberardino, dal 2007 in cantina si affaccia Carmine Valentino. Non solo. Nelle annate 2004 e 2005 (che non abbiamo potuto degustare) la volontà dell’azienda è stata quella di voler vinificare il fiano di un tempo, dolce, con una certa quantità di residuo zuccherino. Una sorta di Fiano spatlese a mo’ dei riesling tedeschi – accomunati dai rimandi minerali di profilo idrocarburico – di incommensurabile fascino che, come spesso accade, ci ha lasciato un insegnamento: ci ha ulteriormente dimostrato la grandezza di un vitigno chiamato fiano.
Leggerete di seguito la verticale di tutte le annate prodotte ad eccezione della 2005. Diversamente dalla nostra consuetudine, per facilitare la lettura a tutti, abbiamo utilizzato anche la scala numerica centesimale.
Fiano di Avellino 2004 (87+/100)
Imbottigliato con residuo zuccherino (8gr/litro) si colora di giallo oro. Al naso è un tripudio di erbe aromatiche; un probabile attacco di muffa nobile ci regala un’albicocca e note lievi di metano, impreziosite dai rimandi idrocarburici, muschio e terra, zafferano e zenzero, agrumi canditi, lavanda, con un continuo avvicendarsi di note balsamiche di menta e anice. Al palato è possente, ma delicato, di grande e gustoso equilibrio, manca solo un pizzico di maggiore definizione aromatica che lo renderebbe insuperabile.
Fiano di Avellino 2006 (83-84/100)
Dopo una prima bottiglia non a posto, ne stappiamo una seconda, lasciando che il produttore la racconti. Siamo in fase di sperimentazioni. Difatti, a differenza delle altre annate, questo vino non ha sostato sulle fecce fini per 5-6 mesi come sempre accade. Ciò presta il fianco al passare del tempo rendendolo più debole, sembra.
Note terrose si aprono sullo sfondo con qualche piccola impuntatura appena percettibile che rimanda ai legumi, a note di foglie secche. Si apre poi su un ricordo iodato e note di benzina, di castagna e nocciola. Al sorso fodera il palato di sapore nonostante i contorni autunnali. Il tratto salino qui accentuato, lascia la bocca pulita che gode dei bei ritorni di erbe aromatiche e frutta secca.
Fiano di Avellino 2007 (87/100)
Non crediamo al nostro naso. Peccassimo di superficialità penseremmo che in un’annata così calda non si possa fare un vino del genere. Avremmo dimenticato il vignaiolo. Difatti, per pignoleria, chiediamo le analisi chimiche. Il vino, inaspettatamente, presenta almeno un grammo di estratto secco inferiore all’annata che lo precede e lo segue; il grado alcolico è minore di almeno un punto. Sembra dirti: annata minore a chi?
Qui la frutta è più evidente ma leggiadra, i rimandi floreali di gelsomino impreziosiscono il bouquet olfattivo anche qui contraddistinto dai rintocchi idrocarburici, poi muschio secco e buccia d’arancia amara. Buona dinamica di bocca, leggera carbonica al sorso, l’acidità (malico compreso) pulisce la bocca: fosse più lungo sarebbe da crepacuore per quanto sorprendente.
Fiano di Avellino 2008 (92/100)
Ci vuole un po’ prima che si apra (cosa comune, in base alla nostra esperienza, per i 2008). Note di Humus, terra, foglie e funghi, poi erbe aromatiche: netta la salvia. S’ingentilisce con le note di polline e agrumi accoglienti per un equilibrio che definiremmo di serena austerità. Bocca compatta, solida, di bella tensione grazie all’acidità innervata. Belli i ritorni floreali solo leggermente sporcati dal vapore alcolico di ritorno.
Fiano di Avellino 2009 (87-88/100)
Giallo paglierino, gracile e lieve.
Naso ancora molto giovane che si presenta con un appunto salato e iodato, sottilissime erbe aromatiche, pesca. Sorso filigranato e fragrante, leggiadro e che spicca, forse più dei precedenti, per la disponibilità alla beva. Finale di bocca sottile ma di chiaro timbro minerale. Nei ritorni aromatici spiccano le giovani ed accennate note idrocarburiche e di erbe amare. Bocca permeata di sapidità.
Fiano di Avellino 2010 (campioni di vasca vari) S.V.
Se queste sono le premesse ci troviamo davanti ad un grande vino. Nei nostri giri la 2010, per il fiano, si sta rivelando annata nettamente superiore alla precedente. Bene, avremmo belle bottiglie da bere.
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posted by Mauro Erro @ 13:50,