Quelli che il Taurasi
martedì 19 aprile 2011
L’altro giorno sono andato a casa di un’amica afflitta da pene d’amore. Era all’ultimo stadio, quello in cui, comprato un bel mazzo di margherite, ad una ad una staccava loro i petali ripetendo in una sorta di trance la litania m’ama o non m’ama.
Mi ha ricordato me stesso alle prese con le bottiglie di Taurasi dove ogni tappo è un petalo a cui, una volta staccato, chiedo m’ama o non m’ama?
Che l’aglianico sia vitigno di grandi prospettive non ci vuole una cartomante né la palla di vetro per dircelo: altissime acidità e polifenoli a gogo e tutto il resto permettono ai vini prodotti di durare a lungo. Molto a lungo. Ma la longevità, di per se, è sinonimo di qualità?
Certo che no. Che il vino sia un highlander senza che avvenga un miglioramento direttamente proporzionale in termini qualitativi con lo scorrere del tempo frega a nessuno ed il punto sta tutto lì.
Le uniche tracce che ci fanno ben sperare rimangono le vecchie bottiglie di Mastroberardino, unico dato antecedente gli anni ’90, quando poi arrivarono i Feudi di San Gregorio, ed in seguito i primi tentativi di cru dell’età contemporanea con Antonio Caggiano e Salvatore Molettieri.
Un percorso appena iniziato.
Il problema principale mi sembra, ora che si stappano bottiglie con almeno 10/15 anni sul groppone, rimane la gestione dell’enorme massa tannica capace di asciugare il palato anche dal sorso più succoso impedendoci di goderne. Del consumatore medio e sotto i 40 anni neanche vi sto a dire.
Ora, a me non piace addentrarmi troppo in questioni tecniche, enologiche e agronomiche che esulano dalle semplici considerazioni bicchiere alla mano e che poco mi competono, però sempre più mi chiedo cosa possa voler dire identità e tradizione quando parliamo di Taurasi, se l’esasperata ricerca della maturazione fenolica con vendemmie sempre più posticipate non faccia perdere di vista l’equilibrio globale del vino, e come si possa migliorare l’estrazione con le macerazioni in cantina tenendo conto che, da un lato i consumatori non sono disposti ad aspettare 30 anni per godersi un vino, dall’altro certo la soluzione non è l’uso massiccio di additivi enologici, tannini pettinati, disacidificazioni e vattelapesca.
Tornando al percorso della prima Docg del meridione, annotiamo un altro tassello: la presentazione con l’annata 2007 dei i due cru della Cantina Lonardo: le vigne Coste e Case d’Alto.
Mi sembrano promettenti e, con il classico Taurasi d’annata, sono sicuramente tra le migliori espressioni dell’annata 2007 prossima al commercio.
Nel frattempo, quando sarete impegnati a staccare tappi chiedendovi se il vino v’ama o non v’ama, potrete godervi il loro Grecomusc’ 2009: il greco moscio, dal vitigno roviello, bianco che l’anno scorso noi di Slowine abbiamo premiato come vino slow per la sua spiccata personalità. Questa nuova versione sembra essere ancor più buona: oltre l’esplosività minerale offre al naso maggiore ampiezza con note fruttate e floreali e al palato, la trascinante verve sapido/acida fa pendant con un bel succo ristoratore.
Mi ha ricordato me stesso alle prese con le bottiglie di Taurasi dove ogni tappo è un petalo a cui, una volta staccato, chiedo m’ama o non m’ama?
Che l’aglianico sia vitigno di grandi prospettive non ci vuole una cartomante né la palla di vetro per dircelo: altissime acidità e polifenoli a gogo e tutto il resto permettono ai vini prodotti di durare a lungo. Molto a lungo. Ma la longevità, di per se, è sinonimo di qualità?
Certo che no. Che il vino sia un highlander senza che avvenga un miglioramento direttamente proporzionale in termini qualitativi con lo scorrere del tempo frega a nessuno ed il punto sta tutto lì.
Le uniche tracce che ci fanno ben sperare rimangono le vecchie bottiglie di Mastroberardino, unico dato antecedente gli anni ’90, quando poi arrivarono i Feudi di San Gregorio, ed in seguito i primi tentativi di cru dell’età contemporanea con Antonio Caggiano e Salvatore Molettieri.
Un percorso appena iniziato.
Il problema principale mi sembra, ora che si stappano bottiglie con almeno 10/15 anni sul groppone, rimane la gestione dell’enorme massa tannica capace di asciugare il palato anche dal sorso più succoso impedendoci di goderne. Del consumatore medio e sotto i 40 anni neanche vi sto a dire.
Ora, a me non piace addentrarmi troppo in questioni tecniche, enologiche e agronomiche che esulano dalle semplici considerazioni bicchiere alla mano e che poco mi competono, però sempre più mi chiedo cosa possa voler dire identità e tradizione quando parliamo di Taurasi, se l’esasperata ricerca della maturazione fenolica con vendemmie sempre più posticipate non faccia perdere di vista l’equilibrio globale del vino, e come si possa migliorare l’estrazione con le macerazioni in cantina tenendo conto che, da un lato i consumatori non sono disposti ad aspettare 30 anni per godersi un vino, dall’altro certo la soluzione non è l’uso massiccio di additivi enologici, tannini pettinati, disacidificazioni e vattelapesca.
Tornando al percorso della prima Docg del meridione, annotiamo un altro tassello: la presentazione con l’annata 2007 dei i due cru della Cantina Lonardo: le vigne Coste e Case d’Alto.
Mi sembrano promettenti e, con il classico Taurasi d’annata, sono sicuramente tra le migliori espressioni dell’annata 2007 prossima al commercio.
Nel frattempo, quando sarete impegnati a staccare tappi chiedendovi se il vino v’ama o non v’ama, potrete godervi il loro Grecomusc’ 2009: il greco moscio, dal vitigno roviello, bianco che l’anno scorso noi di Slowine abbiamo premiato come vino slow per la sua spiccata personalità. Questa nuova versione sembra essere ancor più buona: oltre l’esplosività minerale offre al naso maggiore ampiezza con note fruttate e floreali e al palato, la trascinante verve sapido/acida fa pendant con un bel succo ristoratore.
posted by Mauro Erro @ 09:22,