Ok, il prezzo è giusto. Forse



Il mercato del vino italiano, è, come spesso ho avuto modo già di scrivere, abbastanza giovane e immaturo. Ciò comporta una serie di distorsioni in cui a pagare pegno è il consumatore finale, “costretto” spesso a sborsare cifre esorbitanti per vini ben confezionati, celebrati e “supepremiati”, ma la cui qualità, potrebbe, essere discutibile. Sia chiaro, in una visione liberale del mercato il prezzo è determinato dal rapporto tra domanda e offerta, bisogna aggiungere però che la domanda può essere condizionata e orientata dalla comunicazione in genere, sia essa pubblicitaria o giornalistica, che può considerarsi in taluni casi ingannevole o al servizio dell’offerta stessa.

È uno dei grandi paradossi del vino […].
I formaggi industriali sono ben più neutri nel sapore, convenzionali, ma proprio per questo costano di meno. Chiunque è disposto a spendere un po’ di più per acquistare un vero Gorgonzola naturale o un Fossa. Ma gli stessi aspetti che per i formaggi sono un pregio – artigianalità, carattere, forza territoriale – finiscono per essere considerati un difetto nel vino, che pure del formaggio è una sorta di fratello, dato che condivide lo stesso principio di trasformazione attraverso la fermentazione.*

Allo stato attuale delle cose, i consumatori pagano spesso un vino industriale tanto quanto, se non di più, un vino artigianale. Tra l’altro, al consumatore suddetto, non è dato di sapere né di distinguere in base alle leggi vigenti tra gli uni e gli altri.

Mentre in Francia, il prezzo di un vino è spesso legato alla qualità del prodotto e dell’annata, da noi si lega al brand, al marchio o alla denominazione di origine: ossia alla capacità dell’azienda di saper veicolare con il marketing il proprio prodotto.

Alla fine, quindi, nelle mondo sfaccettato del consumatore succede, sovente, questo: che una persona un poco più informata, dopo attenta ricerca, potrebbe acquistare direttamente in cantina a 10 euro più iva un Brunello di Montalcino di gran livello; poco più un Barolo o un Barbaresco.

Un consumatore vittima delle reclame con gli stessi soldi finisce con l’acquistare (con tutto il rispetto) un Montepulciano d’Abruzzo mal fatto, un nero d’Avola industriale, un Fumin valdostano.

Tutto questo mi riporta al video riportato sopra: una sorta di Ok, il prezzo è giusto in cui a giocare sono I ragazzi della terza C (se qualcuno non se li ricorda, basti questa definizione: una sorta di “Pierini” aggiornati).

E voi, cosa ne pensate?

*Cfr. I Vini Naturali I, Giovanni Bietti, pag. 26
a

posted by Mauro Erro @ 10:49,

4 Comments:

At 18 febbraio 2011 alle ore 15:09, Anonymous Armando Castagno said...

Non vedo il paradosso; mio limite. Io trovo che i formaggi possano essere utilmente divisi in "industriali" e "artigianali", e non riesco a individuare una categoria intermedia. Con il vino però è diverso. Esistono - e sono in effetti neutri, impersonali, insignificanti - i vini "industriali", ed è inaudito non solo che vengano regolarmente premiati, ma che vengano CONSIDERATI dalle guide al vino di qualità. L'obiezione che in questi casi viene portata è che la loro presenza serve per "documentare" lo stato dell'arte della produzione nazionale; tuttavia, le stesse voci omettono di spiegare perché nelle loro pubblicazioni manchino ad esempio Caviro e Caldirola, responsabili in due dell'equivalente di oltre 260 milioni di bottiglie di vino da 0,75 all'anno. Esistono poi i produttori cosiddetti e sedicenti "naturali", che fanno - è vero - del "carattere" e della "forza territoriale" il punto di forza, almeno di quello che viene normalmente riconosciuto come "carattere" e "forza territoriale" (e che talvolta a mio modesto avviso è semplice surmaturazione, quando non proprio difetto tecnico, pervicace riduzione, ossidazione eccessiva, contaminazione batterica; ma certo non mi riferisco ai vini recensiti da Giovanni Bietti, grande palato). In mezzo alle due categorie, c'è un oceano di nomi, piccoli vigneron che non fanno che lavorare come i loro padri e i loro nonni, lungo tutta l'Italia, senza che i loro vini abbiano alla fine assolutamente nulla che debba essere gistificato mettendo sul piatto la loro ridotta "scala imprenditoriale", la loro artigianalità.
L'approssimazione non è a mio parere tipica dei lavori artigianali, è tipica dei lavori artigianali MALDESTRI.

 
At 18 febbraio 2011 alle ore 17:03, Blogger Mauro Erro said...

scusami, forse nella mia cesura, non si coglie il paradosso.
Il paradosso è che, mentre nel formaggio l'artigianilità, il carattere e la forza territoriale sono considerati un pregio, per il vino no.

Ma c'è un aspetto che mi colpisce nel tuo intervento di cui ho scritto e che presto leggerai sullo spazio di un comune amico: ma i vini industriali sono solo i Tavernello o i Castellino? Ed esiste un'imprenditoria etica, un'industria capace di operare onestamente nell'ambito del vino?
Ti chiedo, volendo fare un esempio specifico e ce ne sarebbero degli altri, i Librandi in Calabria, a quale categoria appartengono?
Io non ho dubbi, ma ne ho pochi anche sui loro meriti, sulla qualità, sull'etica (anche commerciale) del loro lavoro.
Che ne pensi?

 
At 18 febbraio 2011 alle ore 17:08, Blogger Mauro Erro said...

Aggiungo: secondo me la distinzione che si farà e si dovrà sempre più fare è tra vino artigianale e vino industriale. Ma esiste anche la differenza tra industria e semplice speculazione.

 
At 9 marzo 2011 alle ore 13:03, Blogger GhiaccioForte said...

La distinzione da fare è quella evitando noi produttori "artigianali" speculazioni sul prezzo di vendita che derivano dal cavalcare l'onda del vini sedicenti naturali....

 

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