Amici miei parte prima: de gustibus

Uno dei momenti capaci di produrre il maggior stato d’ansia al sottoscritto è quello della scelta dei vini da portare a cena a casa di amici. Quelli di sempre, quelli senza alcuna smania etilico vinosa.
Delle volte vorrei risolverla con una pianta, un mazzo di fiori, uno scatolo di cioccolatini.
Vana illusione.
È una cosa scontata che io porti il vino (nessuno s’azzarda a proporne uno suo, figuriamoci), così come è scontato che sarà buono perché lo porto io; salvo verificare le reazioni che si dipingono sui volti silenziosi dopo i primi sorsi a tavola.
All’inizio ero pieno di entusiasmo. Avrei fatto scoprire mondi nuovi fatti di paggetti che versavano mirabilie vinose nei loro innocenti palati. Macchè. I miei amici hanno sempre rivendicato il diritto di fregarsene beatamente di colline e filari volendo semplicemente bere un buon sorso di vino. Punto.
Come se la cosa fosse facile. Nel tempo ho capito che la qualità percepita si lega indissolubilmente alle esperienze fatte e al gusto che si ha.

Ah, beh, ho la mia vendetta, ovviamente. Devono, gli amici, assoggettarsi ai miei giochi e alle mie domande (una bella rottura di palle, sostanzialmente) dopo aver versato i vini più disparati, rigorosamente alla cieca.
Finisce sempre che imparo qualcosa e scopro risvolti interessanti circa il cosiddetto gusto del consumatore.
Ora mai ti puoi aspettare che un rosato di Lopez de Heredia, vino la cui descrizione richiede capriole lessicali – ossidazione nobile, crepuscolare e vitale e via così -, un vino che si definisce concettuale, possa piacere all’unanimità senza indugi. Sono cose che destabilizzano le tue certezze mettendoti in crisi per la prossima cena.
Oppure che in una batteria di 4, 5 vini rossi, dove credi che l’Amarone straccerà tutti, piace, all’unanimità, il Sassella Stella Retica 2004 di Ar.pe.pe..
Oh, ma stiamo impazzendo?

Però alcune regole generali le ho imparate (accompagnate dal beneficio del dubbio).

La morbidezza piace, ma nel giusto equilibrio. I vini sovraestratti e mastodontici, pesanti ed insostenibili nella maggior parte dei casi non vengono graditi a tavola. Il palato delle persone è sempre più contemporaneo ed abituato all’alleggerimento della cucina.
I vini molto profumati (gli aromatici e i semi aromatici, vanno alla grande) sono molto apprezzati rispetto a vini più sottili e che richiedono maggior ascolto e attenzione. Alla stessa stregua si preferiscono vini giovani a quelli invecchiati, la frutta ai terziari; le zaffate d’alcol al naso non le sopporta nessuno.
Che un Barolo di Serralunga giovane sarà anche duro, ma quando è buono se lo bevono a secchi.
Che 7 su 10 vogliono bere rosso.
Che quando scoprono che lo Champagne si beve a pasto, prima ti guardano strano, poi non vogliono bere altro.

Ovviamente più sale il grado di dimestichezza delle persone più aumentano condizionamenti e filtri vari. Solo il fatto di voler riconoscere il vitigno o la presenza di un degustatore più esperto di altri può giocare un ruolo determinante.
Per commettere lo stesso peccato e lasciarmi andare ad un luogo comune i non condizionati rappresentano i due esptremi dei possibili bevitori: quelli che non sanno nulla di vino (e tra questi le donne sono sempre le più sincere e dirette, bevitori di pancia) e i degustatori trascendentali*: quelli capaci di estraniarsi da tutto e ignudi amoreggiare nell'alto dei cieli con la liquida essenza.

* Termine coniato da Fabio Rizzari
a

posted by Mauro Erro @ 12:04,

2 Comments:

At 8 gennaio 2011 alle ore 23:31, Anonymous Alessandro Franceschini said...

Più che degustatori trascendentali, in base alla tua definizione dopo i due punti, sono degustatori trascendenti. Scusa, ma all'università mi frantumarono gli zebedei per anni per la distinzione tra trascendente e trascendentale

 
At 9 gennaio 2011 alle ore 11:53, Blogger Mauro Erro said...

:-) Hai ragione. Mi sono divertito a ricamarci un po' su.
Auguroni di buon anno, visto che non ho avuto ancora modo di....

 

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