L’identità del Barolo all’enolaboratorio: tra Castiglione, La Morra e la Tradizione.
giovedì 11 novembre 2010
Esco al sole accecante della kasbah di piazza Garibaldi dalla metropolitana della stazione centrale di Napoli.
Fa caldo. Qui fa sempre caldo se non piove.
È una giornata limpida, clacson urla suoni e frastuoni, facce e passi veloci, cartoni e barboni.
Mi butto in una delle strade secondarie della ragnatela dei suk che si spandono ai lati della piazza, il tono cromatico si scurisce, qui cala una lente bianca e nera e mi fermo davanti una vetrina che dà sulla strada. Dietro, un bancone e un marocchino, Omar, che mi sorride.
- Un Kebab.
- Classico? Mi chiede lui; classico significa dentro uno sfilatino e con aggiunta di patatine fritte.
Mi perdo sempre in qualche ricordo chiedendomi dell’identità delle cose quando saggio un bicchiere di Barolo. Sì, saggio, assaporo lentamente e non bevo. Un buon Barolo mi accompagna per almeno un paio di giorni. Ed ogni odore ne evoca un altro, un ricordo, un pensiero, un viaggio nel tempo, perché vi sono pochi vini in Italia e nel mondo dove la parola Tradizione assume un valore così forte anche se non si definisce.
Lo scamone sta bollendo in pentola da almeno un’ora. La cucina profuma di nebbiolo, chiodi di garofano, alloro e cipolla. La carne ha marinato tutta la notte con spezie e odori ed io ho aperto un Cannubi con qualche anno sulle spalle.
Eppure cosa ha a che fare il vino che sto bevendo, austero, di stoffa, caldo e accogliente con quel rosso che si produceva nei dintorni d’Alba a metà Ottocento, sicuramente frizzante e probabilmente dolce è cosa che mi chiedo così come mi chiedo cosa abbiano a che fare i wurstel e la pasta dolce o sfoglia con il panino napoletano fatto di sugna, cicoli e pepe nero che trovavo nelle rosticcerie quando ero ragazzo.
Non ci sono più le rosticcerie di una volta a Napoli come non ci sono più i bottai in Langa, annoto malinconicamente guardando delle foto.
Fa caldo. Qui fa sempre caldo se non piove.
È una giornata limpida, clacson urla suoni e frastuoni, facce e passi veloci, cartoni e barboni.
Mi butto in una delle strade secondarie della ragnatela dei suk che si spandono ai lati della piazza, il tono cromatico si scurisce, qui cala una lente bianca e nera e mi fermo davanti una vetrina che dà sulla strada. Dietro, un bancone e un marocchino, Omar, che mi sorride.
- Un Kebab.
- Classico? Mi chiede lui; classico significa dentro uno sfilatino e con aggiunta di patatine fritte.
Mi perdo sempre in qualche ricordo chiedendomi dell’identità delle cose quando saggio un bicchiere di Barolo. Sì, saggio, assaporo lentamente e non bevo. Un buon Barolo mi accompagna per almeno un paio di giorni. Ed ogni odore ne evoca un altro, un ricordo, un pensiero, un viaggio nel tempo, perché vi sono pochi vini in Italia e nel mondo dove la parola Tradizione assume un valore così forte anche se non si definisce.
Lo scamone sta bollendo in pentola da almeno un’ora. La cucina profuma di nebbiolo, chiodi di garofano, alloro e cipolla. La carne ha marinato tutta la notte con spezie e odori ed io ho aperto un Cannubi con qualche anno sulle spalle.
Eppure cosa ha a che fare il vino che sto bevendo, austero, di stoffa, caldo e accogliente con quel rosso che si produceva nei dintorni d’Alba a metà Ottocento, sicuramente frizzante e probabilmente dolce è cosa che mi chiedo così come mi chiedo cosa abbiano a che fare i wurstel e la pasta dolce o sfoglia con il panino napoletano fatto di sugna, cicoli e pepe nero che trovavo nelle rosticcerie quando ero ragazzo.
Non ci sono più le rosticcerie di una volta a Napoli come non ci sono più i bottai in Langa, annoto malinconicamente guardando delle foto.
Negli anni ’50 in Langa c’erano i bottai e per le strade, quando ci si passava vicino, si sentivano i fumi e le essenze; le botti erano pezzi d’alto artigianato che si costruivano su misura a seconda delle esigenze con castagno o quercia; chi aveva solo cinque ettolitri da affinare, chi sette, chi di più.
Ancora oggi, d’altra parte, la vigna Langarola risulta essere estremamente parcellizzata. Tutta Castiglione, ad esempio, conta più o meno 130 ettari vitati a Barolo e 55 aziende presenti. Una media di 2 ettari e poco più a testa. A La Morra la media scende a poco più di un ettaro.
I grandi legni di rovere di Slavonia vennero dopo, così come le pigiadiraspatrici, i rotomaceratori, l’acciaio, le barrique e i Barolo boys, così come prima del legno era esistito il cemento come culla per il nebbiolo.In più di cento anni di storia moderna per Barolo innumerevoli sono stati i cambiamenti, ogni volta per rispondere ad un’esigenza del mercato diversa, una miglioria tecnica applicabile, disfare un modello e crearne un altro ed ogni volta ci s’interrogava sull’identità di questo vino, non risparmiandosi dure polemiche.
Tuttavia una ragione c’è: la Langa e la sua storia ha sempre raccontato sfumature. Cambi collina e cambi punto di vista. E non c’è niente di più importante (e pericoloso) della sfumatura ed ogni Barolo, di ogni decennio, pare, una volta stappato, stia proprio lì per testimoniarlo.
Lo aveva capito Ferdinando Vignolo Lutati quando, a ridosso degli anni ’30, descrisse e delimitò Barolo in tre zone, divise per l’età di formazione dei terreni. Studio validissimo tutt’oggi.
In sintesi, dalla zona di Serralunga ad est, formatasi nel Miocene, ma più antica, di epoca Elveziana, caratterizzata da marne bianco-giallastre sino a Barolo di epoca Tortoniana con le sue marne grigio bluastre e con in mezzo numerose sfumature per giacitura e stratificazione dei terreni, esposizione ed altimetria, è sempre questione di particolari a fare la differenza.
Terreni più o meno argillosi, fertili, molto dotati di minerali, a ph subalcalino per la gran parte (7,9-8,1).
Sono seguiti a quegli studi del Lutati altri che hanno reso più preciso il lavoro di zonazione: si ricordano il lavoro del Ratti, di Arcigola-Slow Food, di Alessandro Masnaghetti e Luigi Veronelli prima di lui.
Pesco tra le carte una frase di Veronelli mentre al naso si fa largo la violetta: Dovessi tuttavia, per fatto strano, subire l’umana costrizione: “o mangia o bevi o vedi”, non avrei dubbio alcuno: berrei. Oh se berrei, mi rifarei bevendo. Nei vini ritroverei, con assaggio attento, minuzioso, compiaciuto, bocca retrobocca stoffa nerbo profumo colore e gusto, i cibi; per esaltante comparazione derivazione sintesi memoria, la bagna, la fonduta, i civet.
Cieco, quel vino mi direbbe il barocco ampio e senza cedimenti dello Juvara, e quello la cromatica esaltazione di Gaudenzio Ferrari, e quello il rigoroso imperio del castello di Serralunga.
La beltà del nebbiolo (del tipo Michet e Lampia in gran parte, innestati solitamente su 420/A, Kober 5BB o SO4).
Vitigno particolare, questo, il più grande in Italia per la produzione di vini atti all’invecchiamento e alla proposizione, nel tempo, della più evidente complessità aromatica. Dal ciclo vegetativo lunghissimo, il nebbiolo è materia che in mano ad attenti vinificatori finisce con l’essere una cartolina di nitida purezza del territorio che lo vede nascere. Basterebbe pensare alle diversità espressive tra quelli dell’Alto Piemonte, di Carema o Donnas, o quelli valtellinesi.
Anche il nebbiolo è questione di particolari. Dagli anni ’70 e ’80 si usa vinificarlo e imbottigliarlo per singolo vigneto, prima ancora, e alcuni come Maria Teresa Mascarello tuttora, unire le partite provenienti dalle varie vigne.
Barolo Silvio Grasso 1996 Bricco Luciani – La Morra, estensione circa 4 ettari, esposizione sud ovest, sud est, nord est; altimetria 220 mt. circa.
Rosso rubino, denso, vivace, unghia leggermente aranciata. Al primo naso pare abbia una scissione tra una parte dolce, piena, fruttata ed una speziatura accentuata. Nel tempo trova equilibrio. Note mentolate, di cenere e humus si fanno spazio. L’ingresso al palato è grasso, si fa largo, chiude con un bel timbro sapido e leggermente amaro. Ritornano dopo la deglutizione un vapore alcolico e sentori speziati. Il tutto pare armonico, anche se manca una maggiore definizione ed un guizzo di personalità.
A ventiquattro ore dalla stappatura perde tensione olfattiva virando sui toni scuri di cenere, humus, foglie.
Barolo Giuseppe Mascarello e Figli 1999 Vigna Monprivato – Castiglione Falletto, sei ettari in possesso dei Mascarello dal 1970, esposizione sud est, altimetria 260 mt. circa.
Colore rosso rubino, denso nel cuore che degrada verso trasparenze all’unghia.
Primo naso severo e sanguigno. Menta, una tensione sapida accompagna un sentore scuro d’acciughe, poi china e chiodi garofano, un sentore di carne cruda ed un leggero floreale. Palato pieno all’ingresso, ma elastico nell’incedere, finisce lungo, saporito e sapido. Tornano netti i sentori di erbe officinali e la china.
A ventiquattro ore rimane saldo.
Barolo Elio Altare 1995 Vigna Arborina – La Morra, 10 ettari di estensione totale, esposizione sud, altimetria 270 metri circa
Rosso rubino di buone trasparenze, unghia granata. Nettamente empireumatico, brace e cenere, decisamente speziato, profuma di tabacco a cui si fianca un po’ di frutto, une eco balsamico, un accennato floreale. Bocca succosa ed elastica, nel finale si evidenzia una nota amara ed uno sbuffo alcolico appena scomposto.
Il giorno dopo evidenzia l’aspetto speziato e scuro.
Barolo Bartolo Mascarello 1999 (dalle vigne Cannubi, Ruè, San Lorenzo e Torriglione)
Rosso rubino brillante dalle decise quanto affascinanti trasparenze, degrada su un granato caldo all’unghia.
Naso fragrante e sottile, didascalico e preciso di terra, di viola e rosa appena accennate, di eucalipto, di erbe officinali, di tartufo. Bocca soave, leggiadra, essenziale. Finale lungo e sottile, minerale, sapido. Tornano le erbe officinali per via retrolfattiva.
Il giorno dopo si affievolisce su toni più spenti di infuso di camomilla.
Barolo F.lli Cavallotto 1999 Bricco Boschis Vigna San Giuseppe – Castigione Falletto, cru in possesso dei Cavallotto dal ’48, può considerarsi quasi un monopolio. Esposizione sud, sud ovest, est, ovest e nord ovest, altimetria 280 metri.
Rosso Rubino brillante, vivo e luminoso. Naso duro di radici e sangue, ingentilito dalle evidenti note balsamiche. Floreale appena percettibile, poi grafite e china, terra bagnata. Bocca affilata, giovane, leggermente frenata nello sviluppo finale da un tannino fermo.
A ventiquattro si apre a note più gentili e floreali.
Foto tratte dal libro Le storie di un re di nome Barolo, Salvatore Marchese, Franco Muzio Editore
Cartina tratta dal volume 100 Barolo, Gigi Brozzoni, Go Wine Editore
Questo articolo è pubblicato contemporaneamente su
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posted by Mauro Erro @ 09:48,