Luigi Tecce ed i suoi vini

Non ho mai scritto di Luigi Tecce come avrei voluto e, forse, non mi riuscirà mai.
Ogni volta che ho solo pensato di farlo, abortivo ogni tentativo perché improbabile.
È un dono che appartiene a pochi, pochissimi, riuscire a tradurre la complessità delle cose, che qui al sud moltiplicano le proprie sfumature, in poche parole o gesti come un pernacchio Defilippiano o un vino con immediata e semplice sintesi.
Eppure ormai la nostra è una discreta frequentazione.
Ogni volta a perderci nelle chiacchiere e in un sorso di vino, sempre nuovo, sempre suo, sempre diverso. Ogni incontro svoltosi immergendoci nel solito scenario che assume connotazioni surreali.

Un ambiente semplice, piccolo, ricavato da un casolare diroccato, quattro sedie inventate, un camino accesso o spento a seconda delle stagioni, un tavolo arrangiato e quattro calici diversi. Un lavabo e poco più. Quattro persone raccolte, una delle quali, chi mi accompagna solitamente, armata di macchina fotografica, quasi stessimo intervistando un rivoluzionario nascosto tra le montagne dei Balcani. Oltre la porta, invece, nel cortile attendono un numero nutrito di cagnolini a cui Luigi da del tu come fosse San Francesco ed oltre si stagliano le colline dell’Irpinia, dirimpetto la contrada Iampenne e la vigna Cinque Querce.
Una sensibilità particolare la sua, che nudo e crudo si porge – non so quante volte l’ho visto piangere per la commozione e saltare invaso dalla gioia cinque minuti dopo -, una sensibilità tale che che lo spinge a liberarsi delle bestie che la famiglia ha sempre allevato chiedendosi perché un animale debba stare in gabbia. Discendente di una famiglia di agricoltori e allevatori, ha trascorso parte della sua vita occupandosi di politica, eppure lo avete davanti e non c’è nulla che vi appaia, come Luigi, più lontano dalla nostra società.
I suoi vini, poi: provare a darne una spiegazione con gli strumenti a cui noi degustatori siamo abituati è, anche stavolta, improbabile. Tutti i suoi giochi e i suoi esperimenti, l’aglianico in anfora in due diversi modi, bianchi in uvaggio macerati passati in damigiana o in legno, vini fortificati, aglianico passito, il suo Poliphemo, ogni volta ti aspetti qualcosa che non è. Volatili che mancano, gradi alcolici che svettano anche sopra i 15 e t’atterriscono, ma che non senti come dovresti. Dati analitici che non concordano con quella semplicità, scorrevolezza e naturalezza quando li versi al palato. Cerchi di ricostruire dati che abbiano un minimo valore empirico e ti scontri con le circostanze a cui Luigi di volta in volta si è adeguato. Botte piccola o grande, legno nuovo o vecchio, quanto vecchio? Questo è lo spazio e queste le possibilità: un vecchio casolare. Lo tiene pulito, ma è sempre un vecchio casolare che a guardarlo ti chiedi di quelle teorie enologiche, delle mattonelle di ceramica, dell’acciaio e dei detergenti chimici. Qua è roccia e legno.
Il suo Poliphemo 2006 sembra un altro insondabile mistero. Sembra peccare di semplicità. Di grazia. Cerchi chissà cosa che non trovi, eppure c’è potenza, 15 gradi alcolici, tanta acidità e corpo. Profuma di scuro e sguscia via veloce.
Non vi è alternativa, per capire qualcosa e sondare un mondo che non ci appartiene, che immergersi nudi, privi di ogni aspettativa o filtro, l’unica cosa da fare è cercare di prendere tutto il possibile e sperare di comprendere. Ogni suo vino è cosi, dice al naso, smentisce al palato. Abbinamenti improbabili al cibo che si risolvono in buon gusto.

Non è facile raccontare Luigi Tecce. Un personaggio fuori dal tempo. Un uomo moderno nelle sue angosce pasoliniane, nelle metamorfosi kafkiane, nello spaesamento di un personaggio ben caratterizzato e con una forte identità, ma in cerca d'autore. Lo è nella sua ironica tragicità come fosse un ragionier Fantozzi delle campagne.
È Luigi Tecce, allo stesso tempo, un mondo antico che tenta disperatamente di stare aggrappato all’oggi per non farsi cancellare via.
È esaltazione onirica, basterebbe ascoltare alcuni suoi racconti di Varenne, il cavallo a cui ha dedicato un'annata del suo vino, e intraprendenza e idealismo rivoluzionario - la sua controetichetta è una dichiarazione di guerra così come l'affetto per l'anarchico Bresci a cui pure dedicò un’annata. È nello sguardo Luigi Tecce, la stanchezza e la tristezza di una persona anziana e l’ingenua gioia di un bambino: d’altronde, solo Peter Pan avrebbe prodotto vino, lo avrebbe dedicato a qualcuno di anno in anno, per non commercializzarlo e lasciarlo nel limbo dell’isola che non c’è.
Luigi Tecce è metafora stessa del mezzogiorno d'Italia: l'anelare speranze e il continuo dolore.
È stratigrafia di una cultura millenaria sedimentata: tutto e il contrario di tutto, ed i suoi vini la sintesi, come fossero un pernacchio.
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posted by Mauro Erro @ 11:21,

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