Corsi, ricorsi e percorsi

“Ripensi mai a quelli che bevevi un tempo e al percorso fatto per arrivare all’oggi?”. Bella domanda, commentai tra me e me, e rimasi a lungo in silenzio prima di rispondere. Non mi era facile, anche perché, ragionandoci sopra, mi resi conto che non mi ero mai posto seriamente il problema, almeno non in modo cosciente.
Io e l’amico, con tanti altri amici, eravamo poco tempo fa a casa mia per una delle solite “seratine”. Una di quelle, per capirci, in cui si passa il tempo a roteare come ebeti bicchieri pieni di vino, mentre sulla tavola si susseguono senza tregua bottiglie di ogni tipo. La scena, che si ripete puntualmente da molti anni, mi ha sempre ricordato Topolino nelle vesti dell’apprendista stregone (ve lo ricordate? quello in cui Topolino si addormenta e le scope non la finiscono mai di riempire secchi d’acqua), con l’unica differenza che in queste serate sembra che nessuno si svegli mai.
Non ricordo che vino fosse, ricordo però che era decisamente buono.
Continuai a roteare il bicchiere e mi misi a pensare.
Giunsi alla conclusione che penso fin troppo al domani, il giusto all’oggi, poco o nulla al passato.
Il mettermi a ragionare ebbe su di me un effetto deflagrante, come nella scena finale di Zabriskie point di Antonioni, quando nella fantasia della protagonista esplode la villa e tutto il suo contenuto si disperde nell’aria, al rallentatore. Rimescolate le carte, disarticolati i ricordi. Non rimaneva che mettere ordine.

Nixon, scandalo Watergate, 1974

Ero astemio, e il fatto di avere 30 anni rendeva più che probabile una prognosi sfavorevole circa un mio avvicinamento al vino. Mi trovavo a cena in un ristorantino in Garfagnana, godevo dell’ottimo cibo toscano insieme ad un gruppetto di amici, e mi venne offerto del vino. Tentai di farli desistere, spiegando loro che l’unico vino che avevo mai bevuto, per mera curiosità, era quello dei Castelli Romani che mio padre beveva perché glielo aveva ordinato il medico per il cuore (avete presente quello delle “fraschette” che, se ti andava bene, il giorno dopo ti faceva svegliare con un drammatico cerchio alla testa?). No grazie.
“Non la fare troppo lunga e prova!” Provai e … come è proseguita la cosa si intuisce.
Nelle sempre più numerose serate che si susseguirono, in onore della amicizia e del Dio Bacco, provai di tutto, dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. I primi libri che acquistai furono i cataloghi di Veronelli e non la smisi finchè non riuscii a bere praticamente tutto quello che su quei cataloghi avevo letto (a proposito, Fabio, non ti ho mai ringraziato abbastanza per avermene regalata una vecchia copia l’anno scorso, è poesia).
Le puntate successive furono dedicate all’approfondimento dei vini che più mi davano soddisfazione. Niente Barolo perché troppo acido e tannico, al massimo qualche Barbaresco gentile, pochissimo Sangiovese perché in genere troppo acido e scontroso, bianchi poco o nulla perché mi ero fatto l’idea che il Santo Graal non si trovasse in fondo a quella strada. Il vino doveva essere rosso, morbido, compiacente e compiaciuto. Bordeaux o comunque vini a base cabernet e merlot, ovviamente si; gli italiani che più mi piacevano non li cito perché, almeno di alcuni, un po’ me ne vergognerei a ripensarci oggi. Trovai tanti vini che corrispondevano al mio gusto, ma alla fine di ogni bevuta mi ripetevo che, tutto sommato, nulla mi aveva scosso le budella dal profondo. Doveva esserci qualcosa d’altro, ma cosa? Mi trovavo, a pensarci bene, nella stessa situazione di quando, adolescenti, ci fidanzavamo ogni tre mesi ma non partiva mai “la brocca”, non ci innamoravamo.

Enzo Ferrari e Gilles Villeneuve, 1979

All’epoca acquistavo esclusivamente in enoteca, e fu così che un giorno il mio “enotecaro” di fiducia mi disse di provare, tra le tante cose che periodicamente mi proponeva, un Borgogna, rosso. Borgogna? Non ne avevo mai visti in giro, ne sapevo ancora meno, anzi nulla oltre al fatto che si trattava di pinot nero e chardonnay.
Pochi giorni dopo, stappai quella bottiglia, rosso di Borgogna, ne versai un po’ nell’ampio bicchiere e mi accorsi di essere rimasto lì ad annusarne i profumi per un tempo interminabile. Ero appagato, sazio, al punto che non sentivo l’urgenza di portare il bicchiere alle labbra. Poi lo bevvi e gli occhi mi sorrisero ancora di più. La prima cosa di cui fui cosciente è che il vino preferisco ascoltarlo al naso prima che berlo. Capii poi che l’acidità non era la nemica che pensavo.
L’amico enotecaro non sapeva di aver creato un mostro.
Rischierei di annoiare e di farla troppo lunga, quindi risparmio le puntate intermedie e arrivo al punto o, meglio, ai punti che uno dopo l’altro si sono aggiunti in termini di consapevolezza.
In ordine sparso.

Hong Kong

Bere vino non in compagnia mi mette tristezza.
Senza acidità non c’è grande vino.
Tannino o non tannino, quello che conta nel vino è l’equilibrio.
Il vino è naso e bocca, ma se non ha grandi profumi non mi viene voglia di berlo.
Il vino deve essere innanzitutto piacevole, deve invitare a riempire nuovamente il bicchiere (se però il mio adorato Mauro la smette di parlare di “beva compulsiva” gli faccio un regalo).
Il grande vino è grande dal primo momento. La questione, semmai, è capirne la grandezza da giovane, e non è sempre cosa facile. Del resto, chi avesse conosciuto Albert Einstein a 10 anni, avrebbe potuto immaginarne appieno il talento?
Botte piccola o grande, legno nuovo o vecchio, un metodo di vinificazione o un altro, importano assai poco se scelti e usati con consapevolezza e perizia, perché tutte le strade, se sono nella giusta direzione, portano a Roma.
Il grande vino non può venire da una zona non vocata e, soprattutto, da vigne troppo giovani. Dietro ad un grande vino c’è infatti un mondo sconfinato, spesso trascurato: tu chiamalo, se vuoi, terroir, con ciò intendendo non solo le componenti geologiche e climatiche, ma anche la storia, la cultura, la tradizione del luogo, in una sola parola “l’uomo”.
Non apprezzo i vini troppo alcolici perché tendono a “coprire” il terroir.
Alla fine del discorso, fatto un tutt’uno del vino e del terroir, e rimanendo fedeli al testo originario della canzone, possiamo canticchiare “tu chiamala, se vuoi, emozione”.
Intendiamoci, grande vino può essere anche un cosiddetto “piccolo vino”, proveniente cioè da una zona e da un vitigno meno noti. Quel che conta è che dia emozione, voglia e piacere di berlo, che racconti della terra e dell’uomo che l’hanno creato.
Alla fine del percorso, sono tornato a bere sangiovese e nebbiolo, bevo di rado Bordeaux o i cosiddetti uvaggi bordolesi (ma, segnatevelo perché non si sa mai, se mi offrite Haut Brion o La Mission Haut Brion non mi tiro indietro), continuo a bere poco vino bianco ma adoro i riesling tedeschi e lo champagne, meglio se si tratta di quegli “sciampagnini” dei piccoli recoltant manipulant che ogni anno sono diversi da quelli dell’anno prima, che porti via per pochi euro, che ti mettono allegria e voglia di stare insieme.
E domani? Panta rei, qualcosa cambierà (qualcosa, a ben vedere, sta cambiando mentre scrivo, se penso alla Sicilia dei miei antenati, alla Puglia più vera, a certe zone della Campania e della Basilicata), qualcosa rimarrà immutabile per sempre.
L’importante è ricordarsi del percorso fatto e farne tesoro.

Giancarlo Marino

Foto 1, caffè partenopeo di Paolo Viviani
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posted by Mauro Erro @ 22:05,

2 Comments:

At 28 settembre 2010 alle ore 09:36, Blogger Lucio said...

Fantastico Giancarlo! Un grande inizio, spero continuerai a raccontare/raccontarti su queste pagine

 
At 28 settembre 2010 alle ore 12:00, Anonymous Anonimo said...

Grazie Giancarlo...un bellissimo articolo da bere tutto d'un fiato!

 

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