Rossese Bianco 2008, Anfosso

La bottiglia è brutta, il tappo è di silicone.
Il colore è bello, paglierino cristallino con riflessi verdi.

Dà sul verde anche il naso, penetrante di menta, limoni buccia e foglie, glicine e quelle pietre-scaldate-al-sole che se vai ad annusarle non sanno di niente, ma che fanno immaginare ogni volta di poterci stare.
D’altro canto “grappolo mi cocessi sui tuoi sassi”, auspicava per sé Camillo Sbarbaro scrivendo di qui.

In bocca è verticale, ficcante, privo di stancanti vampate alcoliche così diffuse nei bianchi degli ultimi tempi; il “frizz” dell’acidità tiene vispa la lingua per la sua intera lunghezza.
Diretto, coerente senza essere prevedibile, non fa della pulizia un attributo di cui compiacersi bensì uno strumento per raccontarsi senza inutili rumori di fondo.

Sì, ma che roba è?
Di indizi varietali neanche l’ombra.
Sassi, menta, limone… vino montano? Potrebbe.
Però quell’idea di sale che esce col tempo, così gentile che non sai se ricondurre alle olive, all’aria di mare o a cos’altro… quindi?

Niente, nessuna suspance, non ci prenderebbe nessuno neanche a tirar giù un vitigno al secondo.
Perché se alla Liguria uno bravo ci potrebbe anche arrivare, al Rossese Bianco - o Razzese – proprio no.

Una controetichetta poco leggibile bisbiglia di 466 bottiglie prodotte, di una vendemmia alla fine di Ottobre, di un vino “ottimo come aperitivo” e che “ben si accompagna con antipasti e piatti di pesce”.
Ma anche capace di regalare un brivido inatteso a una sonnacchiosa sera d’estate in cui non hai voglia di niente, fiaccato dall’afa assassina e dal pensiero di ferie ancora lontane.

Da una terra di cui Francesco Biamonti ha descritto tramonti ineffabili, un vino che di questa stessa terra racconta qualcosa di intramontabile, l’eleganza dell’essenzialità.


Vino bianco da tavola “Antea” (2008), Tenute Anfosso

Giampiero Pulcini

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posted by Mauro Erro @ 09:11,

2 Comments:

At 21 luglio 2010 alle ore 13:07, Anonymous AAA said...

I vecchi bevevano in cantina nei pomeriggi della festa.



Parlavano

dei muri a secco, delle ardenti terrazze.



Riconoscevano le sabbie, le argille ( il silicio, il calcare), nei retrogusti del vino, i suoli cavernosi o compatti.

Ricordavano quasi soddisfatti la fatica di aver scavato e piantato.

Erano uomini di gioia e di pena.

Prendevano dal vino toni fiabeschi. Se la raccontavano.

- Prendi quella bottiglia dallo scaffale più alto.



E' Masaira.



Era un vino che veniva dall'Aprico, un bianco.



La vite era piantata nei muretti; per venire ben matura l'uva aveva bisogno del calore della pietra, altrimenti restava acida, ma se era al punto giusto faceva un vino che era un sogno, un'incarnazione dei profumi della macchia mediterranea.

La bottiglia spariva in un attimo, e si passava al rossese, vino nero.

- Non si può insistere con il bianco.

Credevano che il bianco, se di Masaira, facesse impazzire perchè eccitava l'immaginazione.

Il nero invece placava.

Aveva un colore viola scuro, un fondo mandorlato, rendeva la vita simile ad un lieve sogno, non faceva delirare. Si poteva bere all'infinito.

Medicava.

Medicava a tal punto che si poteva parlare con calma e senza dolore delle cose più efferate: guerre, incesti, delitti, malattie.

L'infanzia passata a pascolare le capre per i dirupi, l'adolescenza consumata per il duro lavoro sulle terrazze, a dissodare con la zappa, sembravano età felici.



Ogni tanto davano un'occhiata fuori dalla porta.

- Guarda un po' com' è il cielo?

- Color Genziana.

- Si sta meglio qui che su un crinale al vento e nell'arsura.

- Lascia che il mondo giri.

Era l'ora di passare al Vermentino.



Si faceva tardi.

Bisognava concentrarsi per gustarlo fino in fondo.

- E' troppo delicato.

- Che fragranza.

- Va consumato giovane.

- Sa di bosco e di pini.

- E' meglio di una donna.

- Andrebbe bevuto a digiuno.



Intanto fuori veniva la notte a poco a poco, il color genziana anneriva sopra i tetti.

Il vermentino lavorava dentro i cervelli.

I nomi delle vigne uscivano ostentati: Arcagna, Pian dei morti, Pini, Pinella, Buscarra, Curli.

Se ne andavano come potevano, aggrappati alle pietre dei vicoli.

- Lo sapevo che l'ultimo bianco era di troppo.

- Un altra volta...

- L'altra volta cosa?

- Inverto l'ordine.



_________________

Francesco Biamonti

 
At 21 luglio 2010 alle ore 16:29, Blogger Mauro Erro said...

No so chi sia l'autore del commento, ma lo ringrazio con Giampiero (e un comune amico che mi ha appena chiamato) per una scoperta che, proprio oggi, è un regalo particolare visto che non conoscevo Francesco Biamonti.

 

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