Street food e Kebab

Musso di porco, frutti di mare crudi, olive all'ascolana, piadina romagnola, focacce, gnocchi fritti, castagnacci toscani, porchetta, pani ca' meusa, crepes piemontesi, panini col lampredotto, polpo bollito, stigghiole, sfincione, ricci di mare, fichidindia, pane e panelle, arancine, pizze a portafoglio, frittatine di pasta sono solo alcuni degli esempi del cibo di strada all’italiana (alcuni di questi presenti da tempo immemore), un elenco completo riempirebbe pagine e pagine.
Non solo in Italia – dove pare che i nomadi abbiano diffuso questa pratica alimentare forse tremila anni fa accolta molto bene dai nostri antenati romani: da Berlino a Bangkok, da New York a Shangai, mangiare per strada è un’abitudine comune, tradizionale e pratica, che offre al consumatore/passeggiatore un momento di condivisione collettiva (mangiare per strada è un fatto pubblico, anche se si è soli), detta mode e tendenze ed è capace, come in passato, di mescolare e fondere gli usi e i consumi alimentari più disparati, tanto da riadattare e occidentalizzare (nel nostro caso) molti cibi.
E se un tempo l’abitudine di consumare i pasti in piedi, velocemente, sostando in locali semi-aperti adiacenti alla strada (strutture, tra l’altro, ancora presenti tra le vestigia di Pompei) era prerogativa quasi esclusiva delle classi popolari che vivevano la strada, con l’avvento dell’industrializzazione e dell’entrata nel mondo del lavoro delle donne, il fenomeno aumenta. E se ai tempi dei romani mangiare per strada o mangiare velocemente era un sacrilegio, un fatto poco serio, oggi la pratica fa tendenza e ultimamente, con la crisi che avanza, è quasi una necessità!
Pensiamo ai Fast Good di Ferran Adrià ideati per offrire un servizio rapido, economico e di qualità, ai Pret a Manger londinesi o all’Atelier di Joel Robuchon. Ma al di là delle novità lanciate da cuochi affermati e non per garantire qualità e rapidità low cost o dar fastidio agli ammazza/fegato Mc Donald’s, il cibo di strada più affascinante e più vero rimane quello degli ambulanti o dei piccoli locali che affacciano sulla strada delle città. Al musso di porco o alle pizze a portafoglio da anni ormai e un po’ dappertutto si accompagna il kebab.

Un fenomeno dilagante anche in Italia dove, seppure arrivato in ritardo rispetto agli altri paesi occidentali, non ha tardato a diventare una star! Oltre ad essere buono il piatto arabo/turco/persiano a base di carne è stato al centro delle cronache nazionali per essere diventato l’emblema della xenofobia italiota. Additato come cibo minaccia per il made in Italy è riuscito a diventare motivo di vera e propria lotta politica. Tutti ricordano il divieto (nato dietro la spinta della Lega, per arginare il “fenomeno kebab” dello scorso aprile 2009) di consumare cibo sui marciapiedi fuori dai locali, con sanzioni fino a 3 mila euro, per combattere “gli assembramenti” sui marciapiedi, fuori dai ritrovi etnici. Il kebab o meglio, il “doner kebab” o “kebab che gira”, come lo conosciamo noi, è quel grande ammasso di carne (solitamente agnello e manzo, montone o pollo) tagliato a fettine, condite o marinate, sagomato e poi infilato nello spiedo verticale in modo da diventare un grosso cilindro, alla sommità del quale vengono infilzate parti grasse che servono a evitare l'eccessivo abbrustolimento ed essiccamento. Il tutto viene poi messo a ruotare vicino a una fonte di calore dove la carne viene tagliata dal basso verso l'alto e servita all'interno di panini o in un piatto vero e proprio (ma raramente), con verdure miste e varie salse come l’harissa piccante, l'hummus di ceci, il tahine e il tzatziki. Una delle capitali dello Street food è Napoli, famosa per le sue friggitorie e prima ancora per i “carnacottari” o i “maccarunari” (i quali vendevano il piatto in bianco con formaggio e pepe che costava due soldi ed era detto 'o doje allattante, e i maccheroni al sugo di pomodoro che costavano tre soldi ed erano detti 'o tre garibbalde con riferimento alle camicie rosse garibaldine), ha invece ben accolto l’esotico piatto. Il kebab, la cui versione classica è diventata quella con lo sfilatino (baguette), maionese e patatine fritte, nella capitale partenopea ha vari indirizzi di richiamo. Uno dei più storici, dove si respira un’aria mediorientale è El Marhaba in via Torino 121, alle spalle della stazione centrale.
Ottimo anche Aladdin in via Sant’Anna dei Lombardi, nel cuore del centro storico di Napoli a pochi passi dalla facoltà di architettura. Ormai i kebab fanno parte dei menù di pub e birrerie più disparate, tanto che c’è anche chi, come lo storico Babette in via Caravaglios 27, a Fuorigrotta, tra i crostoni e i fritti all’italiana, ha inserito nel suo menù l’esotico panino. Mentre chi vuole osare la fusion completa pare esista la pizza al Kebab alla pizzeria Cerveza a Saviano (Na), proprio all’entrata del paese: una pizza bianca con mozzarella, kebab, patatine e aggiunta di salsette piccanti. Ce n’è per tutti i gusti insomma. E se dobbiamo ricordarci, al momento di ordinare il nostro kebab, di specificare che non vogliamo la versione “classica” bensì quella “antica” servita nel pane arabo, dobbiamo altresì ricordare di rispettare un piatto che ci ha permesso di scoprire, per quanto occidentalizzati, gusti e sapori nuovi e che rappresenta, come un tempo furono la pizza e gli spaghetti, un esempio di integrazione culturale, scambio e incontro tra popoli lontani e diversi.

Iggy Pop - The Passenger -

Adele Chiagano

posted by Mauro Erro @ 08:33,

2 Comments:

At 22 giugno 2010 alle ore 12:25, Blogger Giovanni Romito said...

Come al solito Adele sei stata puntuale e interessante.
Mi permetto di suggerire il Neapolis in Via Palladino, nei pressi di Piazzetta Nilo, ideato e gestito da una famiglia greca.

 
At 26 giugno 2010 alle ore 18:51, Anonymous adele said...

Ciao Giovanni!
Grazie mille per la segnalazione:)

 

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