Io sono parte nopeo e parte napoletano*

La tragedia di Atrani, dove ha trovato la morte il 44enne Chef Carmine Abate, sarà definita come annunciata.
Non so.
Quello che sicuramente so, perché già visto, è come proseguirà la storia nei successivi atti fino all’amaro epilogo. In scena entreranno, lo hanno già fatto, i giornali. Poi i politici, chiamati in causa dagli articoli incalzanti, quelli che non hanno rilasciato sulle prime alcuna dichiarazione, tranne che un vago cordoglio durante l’immediato sopralluogo ai luoghi. Un cordoglio indefinito. Fatto di parole sostanzialmente vuote, di “vicinanza” alla famiglia, ai due figli e alla moglie.
L’opposizione attaccherà la maggioranza. Le minoranze estreme attaccheranno l’opposizione connivente e la maggioranza. I giornali le daranno un po’ qua e un po’ là. Le persone, la gente, attaccheranno tutti. Si cercheranno le cause della tragedia, si parlerà di malapolitica.
Si viaggerà attraverso 50 anni di storia e si mostrerà ciò che era la costiera amalfitana un dì: piccoli borghi di quattro case cadute di pescatori.
Poi arriverà la distensione, il momento dei funerali, qualche fischio dal mare di folla che si presenterà davanti la chiesa all’indirizzo delle alte (o basse) cariche dello stato, ma poca cosa, in fondo. Si evocherà il senso di responsabilità, “che sia un monito” dirà qualcuno: la tragedia diventerà un aneddoto da raccontare durante un comizio elettorale. La gente dimenticherà tutto. Un senso di vuoto rimarrà incollato ad una donna e due bambini, attori non protagonisti, per lungo, lunghissimo tempo. E la rappresentazione, più o meno simile, sarà messa in scena, speriamo il più tardi possibile, altrove.
Le persone, piano piano, si abitueranno nuovamente alla loro vita, condurranno la loro quotidianità come hanno sempre fatto. Guarderanno me, come io guarderò l’altro, il politico, l’imprenditore, il costruttore che mette in piedi quattro lamiere e le fa diventare ristorante, come si è sempre fatto, esclamando: pure isso addà campà.
Condannabile?
Non so.
D’altronde noi siamo quello che siamo e che siamo sempre stati: sudditi. Figli di dominazioni che si sono alternate, figli della nostra storia di soprusi e vessazioni, figli e vittime di noi stessi, capaci di far divenire un’arte il semplice bisogno della sopravvivenza: arrangiarsi in qualche modo per arrivare al giorno dopo. Cos’è la nostra proverbiale fantasia, infine, se non la capacità di rielaborare, mischiare e far rinascere le idee e le culture che a Napoli si sono susseguite e scontrate?
Badate bene, voi lettori di Roma in su, voi siete tale e quali a noi, con la differenza di esser capitati sotto gli austriaci piuttosto che i Borboni. Voi, con noi, avete eletto nuovo Re d’Italia un pianista da nave da crociera che, dopo una piccola eredità paterna, in qualche anno è diventato tra gli uomini più ricchi del pianeta. Il sogno americano. Ma noi non siamo americani.
Foste meno provinciali vi accorgereste di come gli Italiani, tutti, indistintamente, sono visti all’estero: me lo comfermava, per l'ennesima volta, qualche giorno fa un amico che risiede in altra nazione. Siamo “simpatici”. Noi, noi meridionali e noi partenopei in special modo, meno riservati e più esibizionisti, teatranti, folkloristici, non siamo altro che una maschera. Nel caso non ve ne siate accorti nel’immaginario collettivo mondiale, pizza, mandolino e spaghetti, rappresentano gli Italiani come i napoletani. Ridurla alla battuta che siamo come le gramigne, ci riproduciamo ovunque, tranquillizza il vostro senso d’insicurezza, tutto qui.
Ma non nascondiamoci dietro questo stereotipo. In fondo cosa è il pure isso addà campà, il motivo psicologico che si nasconde dietro questa affermazione, che si esprime, anche, attraverso l’umanità e la solidarietà per cui siamo conosciuti? Non è altro che un legame ancestrale che esiste da sempre e che unisce i popoli deboli: noi proviamo un innato sentimento verso l’altro in difficoltà perché ci appartiene, noi difendiamo noi stessi o almeno crediamo di farlo. Una forma di egoismo, di individualismo che, in questi tempi estremi di crisi dove la lotta è per la sopravvivenza, diventa, e quanto siano isolati i casi non so, cattiveria vera e propria verso l’altro o il prossimo.
Questa la verità nuda e cruda: noi siamo ancora individui, animali allo stato brado comandati da sentimenti e stati d’animo, non da un raziocinio, un senso indistinto di responsabilità civile, manca completamente a noi il vero senso di appartenenza ad una comunità che si regge su delle regole, perché esse sono le uniche a tutelarci e tutelare gli altri.
Oltre il senso di sopravvivenza non ci rimane altro che la speranza che non i nostri figli, né i nostri nipoti, perché una rivoluzione culturale richiede lo spreco di generazioni e generazioni, ma che prima o poi qualcuno sia capace di dire “io sono parte nopeo e parte cittadino”, chè nel frattempo noi, non siamo capaci di esclamare altro che: addà passà ‘a nuttata.

* Celebre frase dell’Attore Antonio De Curtis, detto Totò
Foto di Carmine Abate, tratta dal sito di Luciano Pignataro

posted by Mauro Erro @ 12:50,

3 Comments:

At 4 gennaio 2010 alle ore 12:58, Anonymous Francesco Annibali said...

Grazie di questo post Mauro!

 
At 4 gennaio 2010 alle ore 21:11, Blogger Mauro Erro said...

:-)

 
At 6 gennaio 2010 alle ore 20:01, Anonymous Anonimo said...

Concordo pienamente con la tua stringata analisi, caro Mauro: resta, ancora una volta, il brivido esistenziale al sapere di una giovane moglie e due figli piccoli che, esaurite le lacrime, si porranno, per tutta la vita, un "perche?" tanto più grande di loro.
Luca Miraglia

 

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