Aglianico e Aglianico: Speciale enolaboratorio sulle piccole vigne del Vulture
mercoledì 18 novembre 2009
Partiamo con alcuni dati demografici dei paesi più piccoli che rientrano nella denominazione di origine dell’Aglianico del Vulture, confrontando i numeri del censimento del 1961 e quello del 2001. Paesi come Maschito, vedono la propria popolazione scendere dalle circa 3.500 unità alle 1800, Barile dalle 4.200 unità alle 3.000, Ripacandida dalle 4.000 a poco più di 1.700, Ginestra dalle 1.600 unità a circa settecento anime.
Se continua così, paesi come Ripacandida o Ginestra tra quarant’anni saranno paesi fantasma e le loro vigne saranno inesorabilmente divorate dai boschi.
È per questo che l’Enolaboratorio, (una rassegna nata tre anni fa dall’idea di Fabio Cimmino e Tommaso Luongo, oltre che del sottoscritto che la cura con Adele Chiagano in collaborazione con la delegazione di Napoli dell’Associazione Italiana Sommeliers), un progetto nato per valorizzare la diversità vitivinicola non poteva non incontrarsi con le Piccole Vigne, manifestazione ideata da Luciano Pignataro e diretta dallo scrivente, che della diversità si fa strenua difensora. E quale migliore occasione per parlare del re dei vitigni del sud, ad Aglianico e Aglianico?
È per questo, per la rilevanza culturale del discorso, che questo post è in diretta a reti unificate (Rai 1, Rai 2, Rai 3 :-)
Diversità, scrivevamo, antropologica, culturale, colturale e agricola che difendiamo e tentiamo di valorizzare.
Ed è da qui che siamo partiti nel racconto, nell’affrontare il tema agricolo partendo dai dati, per difendere e valorizzare il piccolo, il prodotto autentico, che solo ideologicamente si contrappone ad un ipotetico concorrente più grande, ma che in realtà, sapendo guardare ad un orizzonte più ampio che il proprio piccolo orticello, si misura(no) con un mercato globalizzato.
Lasciando ad altre occasioni più consone gli approfondimenti in tema, passando agli argomenti tecnici che più ci riguardano, ricordiamo a chi ci legge che è soltanto di qualche giorno fa la notizia che la Giunta regionale della Basilicata ha approvato la proposta per ''Lo stato di crisi di mercato del comparto agricolo lucano”, a supporto della richiesta da avanzare al Governo per usufruire dei benefici ex art.1 bis della legge 71/2005.
Rimanendo al discorso vino, basti pensare, per avere solo in parte un’idea di ciò che diciamo, alla mancanza di un mercato di prossimità in Basilicata per questo prodotto agricolo. Il capoluogo di regione, Potenza, conta a stento 70.000 abitanti, quanto all’incirca il quartiere Vomero di Napoli, uno dei meno popolosi del capoluogo partenopeo. In Basilicata le enoteche specializzate si contano su una mano e, se non fosse per uno sparuto gruppo di ristoranti, l’aglianico del Vulture verrebbe commercializzato quasi esclusivamente “all’estero”.
È per questo che consigliamo chi ci legge di visitare la Basilicata più volte durante l’anno, per godere delle sue bellezze infinite e per comprare i suoi vini ché, se ben scelti, rappresentano spesso, anche per noi, un buon affare.
Se continua così, paesi come Ripacandida o Ginestra tra quarant’anni saranno paesi fantasma e le loro vigne saranno inesorabilmente divorate dai boschi.
È per questo che l’Enolaboratorio, (una rassegna nata tre anni fa dall’idea di Fabio Cimmino e Tommaso Luongo, oltre che del sottoscritto che la cura con Adele Chiagano in collaborazione con la delegazione di Napoli dell’Associazione Italiana Sommeliers), un progetto nato per valorizzare la diversità vitivinicola non poteva non incontrarsi con le Piccole Vigne, manifestazione ideata da Luciano Pignataro e diretta dallo scrivente, che della diversità si fa strenua difensora. E quale migliore occasione per parlare del re dei vitigni del sud, ad Aglianico e Aglianico?
È per questo, per la rilevanza culturale del discorso, che questo post è in diretta a reti unificate (Rai 1, Rai 2, Rai 3 :-)
Diversità, scrivevamo, antropologica, culturale, colturale e agricola che difendiamo e tentiamo di valorizzare.
Ed è da qui che siamo partiti nel racconto, nell’affrontare il tema agricolo partendo dai dati, per difendere e valorizzare il piccolo, il prodotto autentico, che solo ideologicamente si contrappone ad un ipotetico concorrente più grande, ma che in realtà, sapendo guardare ad un orizzonte più ampio che il proprio piccolo orticello, si misura(no) con un mercato globalizzato.
Lasciando ad altre occasioni più consone gli approfondimenti in tema, passando agli argomenti tecnici che più ci riguardano, ricordiamo a chi ci legge che è soltanto di qualche giorno fa la notizia che la Giunta regionale della Basilicata ha approvato la proposta per ''Lo stato di crisi di mercato del comparto agricolo lucano”, a supporto della richiesta da avanzare al Governo per usufruire dei benefici ex art.1 bis della legge 71/2005.
Rimanendo al discorso vino, basti pensare, per avere solo in parte un’idea di ciò che diciamo, alla mancanza di un mercato di prossimità in Basilicata per questo prodotto agricolo. Il capoluogo di regione, Potenza, conta a stento 70.000 abitanti, quanto all’incirca il quartiere Vomero di Napoli, uno dei meno popolosi del capoluogo partenopeo. In Basilicata le enoteche specializzate si contano su una mano e, se non fosse per uno sparuto gruppo di ristoranti, l’aglianico del Vulture verrebbe commercializzato quasi esclusivamente “all’estero”.
È per questo che consigliamo chi ci legge di visitare la Basilicata più volte durante l’anno, per godere delle sue bellezze infinite e per comprare i suoi vini ché, se ben scelti, rappresentano spesso, anche per noi, un buon affare.
Il Territorio
Il Vulture è una zona che si estende nella parte nord della provincia di Potenza, a ridosso del monte Vulture, un vulcano dormiente, attivo fino al Pleistocene (da 1,8 milioni di anni fa a 11.700 anni fa) superiore. Potendo con sicurezza affermare di conseguenza che la matrice dei terreni è vulcanica, osserviamo che vi sono da zona a zona, da comune a comune interessati dal disciplinare di produzione, alcune differenze.
Differenze dovute, ovviamente, alle diverse epoche di eruzione del vulcano, alla mutazione nel tempo, in seguito a processi chimici, del magma e, conseguentemente, del tipo di roccia vulcanica, delle diverse bocche o caldare d’uscita (come quelle ad esempio ricoperte oggi da acqua, ossia i laghi di Monticchio), dei tipi di attività, sia di natura eruttiva che effusiva: tanto è che la storia del Vulture, viene suddivisa dai geologi sulla base dell’ordine di successione stratigrafica dei prodotti e dei caratteri petrografici degli stessi in tre periodi (Vulture Primordiale, Vecchio Vulture, Giovane Vulture).
Le altimetrie sono importanti, in media sono abbastanza alte quelle delle vigne (tra i 400 e i 600 metri s.l.m.), le precipitazioni non rilevanti come lo è, invece, l’escursione termica, che porta la notte il termometro a temperature fresche d’estate e molto rigide d’inverno.
Il Vitigno
Originario della Magna Grecia, l’Aglianico ha foglia media, pentalobata, pagina superiore glabra, grappolo medio, abbastanza compatto, non sempre alato, cilindrico o conico, acino medio-piccolo, forma sferica; buccia molto pruinosa, di colore blu-nero, di poca consistenza e medio spessore. La pianta ha buona capacità di sintesi zuccherina, il vitigno cospicua materia colorante e ottima acidità, vigoria medio-alta, produttività abbondante e costante. L’epoca di vendemmia è media o tardiva (sino ai primi di novembre).
Si contano almeno 4 cloni nel Vulture: il VCR 11 e il VCR 14 del 1997 e il VV 401 e il VV 404 del 2005, senza contare i cloni taurasini che, talvolta, anche qui trovano dimora. Circa i portainnesti non disponiamo, ahinoi, d’informazioni sufficienti. Non si tratta di sola colpa, ma anche del fortuito caso: la quantità di vigna di età avanzata, dai trenta ai sessant’anni, è ancora cospicua. A quell’epoca determinate informazioni risultavano spesso irrilevanti e non sono giunte a noi che ci “accontentiamo” della superiore qualità del vino prodotto da queste piante, godendone in questa beata ignoranza.
Il Vulture è una zona che si estende nella parte nord della provincia di Potenza, a ridosso del monte Vulture, un vulcano dormiente, attivo fino al Pleistocene (da 1,8 milioni di anni fa a 11.700 anni fa) superiore. Potendo con sicurezza affermare di conseguenza che la matrice dei terreni è vulcanica, osserviamo che vi sono da zona a zona, da comune a comune interessati dal disciplinare di produzione, alcune differenze.
Differenze dovute, ovviamente, alle diverse epoche di eruzione del vulcano, alla mutazione nel tempo, in seguito a processi chimici, del magma e, conseguentemente, del tipo di roccia vulcanica, delle diverse bocche o caldare d’uscita (come quelle ad esempio ricoperte oggi da acqua, ossia i laghi di Monticchio), dei tipi di attività, sia di natura eruttiva che effusiva: tanto è che la storia del Vulture, viene suddivisa dai geologi sulla base dell’ordine di successione stratigrafica dei prodotti e dei caratteri petrografici degli stessi in tre periodi (Vulture Primordiale, Vecchio Vulture, Giovane Vulture).
Le altimetrie sono importanti, in media sono abbastanza alte quelle delle vigne (tra i 400 e i 600 metri s.l.m.), le precipitazioni non rilevanti come lo è, invece, l’escursione termica, che porta la notte il termometro a temperature fresche d’estate e molto rigide d’inverno.
Il Vitigno
Originario della Magna Grecia, l’Aglianico ha foglia media, pentalobata, pagina superiore glabra, grappolo medio, abbastanza compatto, non sempre alato, cilindrico o conico, acino medio-piccolo, forma sferica; buccia molto pruinosa, di colore blu-nero, di poca consistenza e medio spessore. La pianta ha buona capacità di sintesi zuccherina, il vitigno cospicua materia colorante e ottima acidità, vigoria medio-alta, produttività abbondante e costante. L’epoca di vendemmia è media o tardiva (sino ai primi di novembre).
Si contano almeno 4 cloni nel Vulture: il VCR 11 e il VCR 14 del 1997 e il VV 401 e il VV 404 del 2005, senza contare i cloni taurasini che, talvolta, anche qui trovano dimora. Circa i portainnesti non disponiamo, ahinoi, d’informazioni sufficienti. Non si tratta di sola colpa, ma anche del fortuito caso: la quantità di vigna di età avanzata, dai trenta ai sessant’anni, è ancora cospicua. A quell’epoca determinate informazioni risultavano spesso irrilevanti e non sono giunte a noi che ci “accontentiamo” della superiore qualità del vino prodotto da queste piante, godendone in questa beata ignoranza.
La Degustazione
Iniziamo da un aspetto tecnico ed organolettico affrontato subito durante la serata, che riguarda i vini, visto il tipo di “terroir” in questione. Nella letteratura di settore, il termine mineralità è paragonabile all’immagine della Madonna di Pompei nell’iconografia sacra: c’è sempre. Non c’è nota degustativa in cui manchi, persino ad un “vino” novello la si attribuisce. Pur riconoscendo il valore letterale del termine nell’identificazione e definizione di alcuni caratteri organolettici, sottolineiamo, per un uso più consapevole e privo di effetti indesiderati, che non esiste ad oggi alcuno studio scientifico che dimostri la diretta corrispondenza tra minerali presenti nel terreno e nel vino. Tale associazione è frutto dell’immaginazione del degustatore, un’ipotesi se volete, sicuramente romantica.
In un malinteso concetto di terroir, pur riportando i dati acquisti per dovere di cronaca (oltre il materiale fotografico ci limitiamo, in modo molto superficiale, scrivendo che si va dai Tufi chiari subaerei - le formazioni piroclastiche più antiche - generalmente non stratificati, colore da grigio chiaro a giallo bruno chiaro, a materiali coerenti caratterizzati da pomici in quantità variabile, frammenti di minerali di rocce ignee e sedimentarie, riferibili alle manifestazioni iniziali (Pleistocene Inferiore), alle rocce di colore variabile dal grigio scuro al nero, compatte di Rapolla, ai tufi scuri a Rionero e Barile, fino alle sabbie grigie, gialle e rossastre, con incrostazioni e livelli travertinosi con presenza di lapilli grossolani di Venosa di epoca più recente), i dati non trascurabili in relazione ai terreni sono la granulometria, per capire il rapporto tra acqua e pianta, la pendenza, le altimetrie e soprattutto il ph dei terreni per un corretto assorbimento dei nutrienti e perché non si verifichino carenze. In questa zona si tratta di un ph da mediamente ad altamente alcalino.
Quanto ai vini, abbiamo scelto etichette che rappresentassero al meglio le differenze territoriali, scelte in annate diverse, con filosofie o affinamenti diversi: dal legno piccolo, a quello grande, fino al cemento. Tutti si sono mostrati abbastanza immediati, ben eseguiti, anche se alcuni seguivano uno sviluppo prevedibile, un po’ demodé se volete. Ed è questo il lavoro prioritario che attende le aziende vulturine, tutte queste nate dopo il 2000, con qualcuna che ha alle spalle solo una o due vendemmie: colmare il gap temporale che le separa da buona parte della vitivinicoltura italiana.
L’ordine delle note segue quello di servizio.
Zimberno 2005, Michele Laluce
Rosso rubino cupo di belle trasparenze, abbisogna più degli altri di ossigenare. Dopo le note di riduzione si apre su un affascinante timbro minerale ematico a cui si affiancano note di frutta appena accennate, floreali e di spezie, una scia agrumata un po’ sfrangiata ed erbe aromatiche. Buono lo sviluppo al palato giocato sulla bevibilità, corpo stretto e acidità sostenuta. Nell’evoluzione nel tempo speriamo per una maggiore complessità.
Eleano 2004, Eleano
Si mostra più immediato del precedente, con maggiore consistenza materica al naso, risultato imputabile, con buone probabilità, anche all’annata felice, nonostante sia stata non facile. Ottimo equilibrio di un prodotto classicheggiante tra frutta succosa e sviluppo terziario. Al palato ha ottima dinamica, chiude il sorso sapido e abbastanza lungo.
Camerlengo 2005, Camerlengo
Buona pulizia olfattiva e netto il sentore di prugna matura, preponderante che sovrasta i flebili rimandi di gas, sottobosco, tabacco, legna arsa e camino. Fatto di chiaroscuri, ha sicuramente buona materia, un po’ imprigionata dal legno che lo priva di slancio rendendolo nel tempo un po’ monocorde. Al palato ha comunque buona agilità, sapidità nel finale, dove chiude con un leggero sbuffo alcolico. Netta la nota di polvere di caffè a bicchiere vuoto.
Shesh 2006, Lelusi
Il colore è quello meno vivace della batteria. Aspettiamo una nuova occasione per assaggiarlo, soprattutto in altra annata. Questo, per adesso, al naso non è andato oltre l’ingerenza del legno e un deciso sbuffo alcolico, mentre al palato, dopo un ingresso anche di buona tensione si è perso nel suo sviluppo gustativo per via di un’acidità elevata, rigida, citrina, che ha chiuso il sorso “limonoso” prima di un deciso ritorno alcolico.
Serra del Prete 2007, Musto – Camerlitano
È il più concentrato nel colore raggiungendo toni purpurei. È divertente il suo modo di raccontarsi visto l’affinamento in solo acciaio e cemento, che colpisce la platea più di tutti nei suoi toni freschi di frutta e di tabacco biondo dolce. Al palato è fresco di buona dinamica, di corpo consistente, lasciandosi andare solo nel finale per un pizzico di alcol. Tannino non del tutto domo.
400some 2006, Carbone
È quello che ha bisogno di maggior tempo per esprimersi insieme allo Zimberno. Tra tutti è sicuramente quello più indietro nella sua evoluzione e paga soprattutto il legno non ancora integrato. Oltre le note fumé e di legna arsa, un interessante sentore di cuoio, di frutto scuro, poi tabacco e funghi. Al palato si riverberano le impressioni avute al naso, il sorso si chiude sapido. A bicchier vuoto, netta e pulita la nota di frutta.
Iniziamo da un aspetto tecnico ed organolettico affrontato subito durante la serata, che riguarda i vini, visto il tipo di “terroir” in questione. Nella letteratura di settore, il termine mineralità è paragonabile all’immagine della Madonna di Pompei nell’iconografia sacra: c’è sempre. Non c’è nota degustativa in cui manchi, persino ad un “vino” novello la si attribuisce. Pur riconoscendo il valore letterale del termine nell’identificazione e definizione di alcuni caratteri organolettici, sottolineiamo, per un uso più consapevole e privo di effetti indesiderati, che non esiste ad oggi alcuno studio scientifico che dimostri la diretta corrispondenza tra minerali presenti nel terreno e nel vino. Tale associazione è frutto dell’immaginazione del degustatore, un’ipotesi se volete, sicuramente romantica.
In un malinteso concetto di terroir, pur riportando i dati acquisti per dovere di cronaca (oltre il materiale fotografico ci limitiamo, in modo molto superficiale, scrivendo che si va dai Tufi chiari subaerei - le formazioni piroclastiche più antiche - generalmente non stratificati, colore da grigio chiaro a giallo bruno chiaro, a materiali coerenti caratterizzati da pomici in quantità variabile, frammenti di minerali di rocce ignee e sedimentarie, riferibili alle manifestazioni iniziali (Pleistocene Inferiore), alle rocce di colore variabile dal grigio scuro al nero, compatte di Rapolla, ai tufi scuri a Rionero e Barile, fino alle sabbie grigie, gialle e rossastre, con incrostazioni e livelli travertinosi con presenza di lapilli grossolani di Venosa di epoca più recente), i dati non trascurabili in relazione ai terreni sono la granulometria, per capire il rapporto tra acqua e pianta, la pendenza, le altimetrie e soprattutto il ph dei terreni per un corretto assorbimento dei nutrienti e perché non si verifichino carenze. In questa zona si tratta di un ph da mediamente ad altamente alcalino.
Quanto ai vini, abbiamo scelto etichette che rappresentassero al meglio le differenze territoriali, scelte in annate diverse, con filosofie o affinamenti diversi: dal legno piccolo, a quello grande, fino al cemento. Tutti si sono mostrati abbastanza immediati, ben eseguiti, anche se alcuni seguivano uno sviluppo prevedibile, un po’ demodé se volete. Ed è questo il lavoro prioritario che attende le aziende vulturine, tutte queste nate dopo il 2000, con qualcuna che ha alle spalle solo una o due vendemmie: colmare il gap temporale che le separa da buona parte della vitivinicoltura italiana.
L’ordine delle note segue quello di servizio.
Zimberno 2005, Michele Laluce
Rosso rubino cupo di belle trasparenze, abbisogna più degli altri di ossigenare. Dopo le note di riduzione si apre su un affascinante timbro minerale ematico a cui si affiancano note di frutta appena accennate, floreali e di spezie, una scia agrumata un po’ sfrangiata ed erbe aromatiche. Buono lo sviluppo al palato giocato sulla bevibilità, corpo stretto e acidità sostenuta. Nell’evoluzione nel tempo speriamo per una maggiore complessità.
Eleano 2004, Eleano
Si mostra più immediato del precedente, con maggiore consistenza materica al naso, risultato imputabile, con buone probabilità, anche all’annata felice, nonostante sia stata non facile. Ottimo equilibrio di un prodotto classicheggiante tra frutta succosa e sviluppo terziario. Al palato ha ottima dinamica, chiude il sorso sapido e abbastanza lungo.
Camerlengo 2005, Camerlengo
Buona pulizia olfattiva e netto il sentore di prugna matura, preponderante che sovrasta i flebili rimandi di gas, sottobosco, tabacco, legna arsa e camino. Fatto di chiaroscuri, ha sicuramente buona materia, un po’ imprigionata dal legno che lo priva di slancio rendendolo nel tempo un po’ monocorde. Al palato ha comunque buona agilità, sapidità nel finale, dove chiude con un leggero sbuffo alcolico. Netta la nota di polvere di caffè a bicchiere vuoto.
Shesh 2006, Lelusi
Il colore è quello meno vivace della batteria. Aspettiamo una nuova occasione per assaggiarlo, soprattutto in altra annata. Questo, per adesso, al naso non è andato oltre l’ingerenza del legno e un deciso sbuffo alcolico, mentre al palato, dopo un ingresso anche di buona tensione si è perso nel suo sviluppo gustativo per via di un’acidità elevata, rigida, citrina, che ha chiuso il sorso “limonoso” prima di un deciso ritorno alcolico.
Serra del Prete 2007, Musto – Camerlitano
È il più concentrato nel colore raggiungendo toni purpurei. È divertente il suo modo di raccontarsi visto l’affinamento in solo acciaio e cemento, che colpisce la platea più di tutti nei suoi toni freschi di frutta e di tabacco biondo dolce. Al palato è fresco di buona dinamica, di corpo consistente, lasciandosi andare solo nel finale per un pizzico di alcol. Tannino non del tutto domo.
400some 2006, Carbone
È quello che ha bisogno di maggior tempo per esprimersi insieme allo Zimberno. Tra tutti è sicuramente quello più indietro nella sua evoluzione e paga soprattutto il legno non ancora integrato. Oltre le note fumé e di legna arsa, un interessante sentore di cuoio, di frutto scuro, poi tabacco e funghi. Al palato si riverberano le impressioni avute al naso, il sorso si chiude sapido. A bicchier vuoto, netta e pulita la nota di frutta.
Nota: Foto 1: Piani dell'Incoronata; foto 3: In senso orario dalla foto in alto a sinistra Rionero, Ginestra e Maschito
posted by Mauro Erro @ 08:29,
1 Comments:
- At 25 novembre 2009 alle ore 21:08, Unknown said...
-
Bel post, complimenti!