Viaggio nel Tempo: verticale di Taurasi Gmg
giovedì 12 marzo 2009
La scrittura, come l’arte del bere e del coltivare la vigna, raramente è un atto lineare, talvolta è un viaggio a ritroso nei ricordi; a sprazzi squarci di luce, flashback il cui ordine cronologico è deciso dall’emozioni: dapprima le più intense.
Le vigne e la storia
Sulla collina più alta di Taurasi, in contrada Carazita ammiro parte della vigna discendere e guardare il promontorio innanzi, i filari allevati a cordone speronato schierarsi in direzione del paesino di Sant’Angelo all’Esca dove svetta l’alto campanile della chiesa trecentesca di San Michele Arcangelo. Alle spalle, al di là della vallata, si erge la mole imponente della Montagna di Chiusano San Domenico e immagino alla mia sinistra la strada risalire verso Paternopoli, lo stendersi della valle fino al limite massimo dei monti Picentini, stupendomi nel guardare le cime innevate del Cervialto e del Terminio. A intense folate il vento freddo sferza il viso, il cielo è tinto di grigio perla e c’è silenzio.
Tuttavia, è bene partire dal principio di questo viaggio e dare ordine agli appunti.
È la seconda metà degli anni novanta, un gruppo di viticoltori usciti dalle due cooperative Le Contrade e la Vinicola Taurasi si riunisce creando l’azienda che sarà denominata Gmg vinicola Taurasi. L’avventura dura poco, dopo una serie di disaccordi e di diversità d’opinioni solo due famiglie rimarranno alla guida dell’azienda: i Di Placido e i De Matteis, mentre gli altri scriveranno nuove vicende o perseguiranno la vita da conferitori. A curare la vigna e seguire le pratiche di cantina Emilio Di Placido, uomo caparbio alla ricerca filologica del sapore che fu, di quel Taurasi tanto buono da essere famoso.
Emilio dorme poco. A questo vizio aggiunge quello del pensiero e quello del sogno. Così pensa al suo vino, il vino della pazienza come egli lo definisce: ragiona sui cloni d’aglianico, sulle vigne, sui legni d’affinamento, sull’epoca di raccolta, cerca documenti, chiede ai vecchi, s’affida alla loro memoria storica, ai ricordi.
La vigna di Carazita, oltre l’appezzamento che assorto si rivolge al campanile, ne comprende altri due di leggerissima pendenza separati da una serie di splendidi ulivi. Le piante, giovani sette, otto anni sono innestate su un Paulsen 1103. Il terreno, in alcuni punti in fase di lavorazione, mostra umori di nero vulcanico e affioramenti di pietra calcarea. Tre ettari e mezzo che vedono sorgere e morire il sole a poco più di 360 metri d’altezza.
È a Case d’alto però, che vedo le piante allevate a starse. I tralci vecchi 40 anni si allungano fino ai due metri e mezzo, noi ci passiamo sotto ammirandoli, camminando il mezzo ettaro di piante messe sparse. Le più belle le vediamo tuttavia a Paludisi, in contrada Piano: anche qui in poco più di mezzo ettaro tralci di 100 anni d’età a piede franco allevati alla vecchia maniera locale (quando li si maritava a qualche albero, solitamente pioppi) salire in alto e aggrovigliarsi in linee barocche, contorcersi disegnando fiabesche visioni. Producono poco più di niente.
Poco distante da qui, in zona Fango, l’ultimo fazzoletto di terra, alcuni filari di giovani piante di sette, otto anni di una vigna più grande che si rivolge verso Mirabella Eclano, allevata a cordone speronato. Alla destra dei filari di Guastaferro e di Antonio Caggiano.
Da questi siti arriva l’aglianico che concorre alla produzione delle seimilaseicentosessantasei creature di Emilio. Vendemmiato come un tempo, mai prima del giorno dei morti, il 2 novembre, e a più riprese, se necessario, sino a Natale. Con le sole uve migliori in grado di resistere che diverranno, dopo attenta vinificazione e il giusto affinamento, il Taurasi che, dal 1999, è etichettato sono nella versione riserva.
Sulla collina più alta di Taurasi, in contrada Carazita ammiro parte della vigna discendere e guardare il promontorio innanzi, i filari allevati a cordone speronato schierarsi in direzione del paesino di Sant’Angelo all’Esca dove svetta l’alto campanile della chiesa trecentesca di San Michele Arcangelo. Alle spalle, al di là della vallata, si erge la mole imponente della Montagna di Chiusano San Domenico e immagino alla mia sinistra la strada risalire verso Paternopoli, lo stendersi della valle fino al limite massimo dei monti Picentini, stupendomi nel guardare le cime innevate del Cervialto e del Terminio. A intense folate il vento freddo sferza il viso, il cielo è tinto di grigio perla e c’è silenzio.
Tuttavia, è bene partire dal principio di questo viaggio e dare ordine agli appunti.
È la seconda metà degli anni novanta, un gruppo di viticoltori usciti dalle due cooperative Le Contrade e la Vinicola Taurasi si riunisce creando l’azienda che sarà denominata Gmg vinicola Taurasi. L’avventura dura poco, dopo una serie di disaccordi e di diversità d’opinioni solo due famiglie rimarranno alla guida dell’azienda: i Di Placido e i De Matteis, mentre gli altri scriveranno nuove vicende o perseguiranno la vita da conferitori. A curare la vigna e seguire le pratiche di cantina Emilio Di Placido, uomo caparbio alla ricerca filologica del sapore che fu, di quel Taurasi tanto buono da essere famoso.
Emilio dorme poco. A questo vizio aggiunge quello del pensiero e quello del sogno. Così pensa al suo vino, il vino della pazienza come egli lo definisce: ragiona sui cloni d’aglianico, sulle vigne, sui legni d’affinamento, sull’epoca di raccolta, cerca documenti, chiede ai vecchi, s’affida alla loro memoria storica, ai ricordi.
La vigna di Carazita, oltre l’appezzamento che assorto si rivolge al campanile, ne comprende altri due di leggerissima pendenza separati da una serie di splendidi ulivi. Le piante, giovani sette, otto anni sono innestate su un Paulsen 1103. Il terreno, in alcuni punti in fase di lavorazione, mostra umori di nero vulcanico e affioramenti di pietra calcarea. Tre ettari e mezzo che vedono sorgere e morire il sole a poco più di 360 metri d’altezza.
È a Case d’alto però, che vedo le piante allevate a starse. I tralci vecchi 40 anni si allungano fino ai due metri e mezzo, noi ci passiamo sotto ammirandoli, camminando il mezzo ettaro di piante messe sparse. Le più belle le vediamo tuttavia a Paludisi, in contrada Piano: anche qui in poco più di mezzo ettaro tralci di 100 anni d’età a piede franco allevati alla vecchia maniera locale (quando li si maritava a qualche albero, solitamente pioppi) salire in alto e aggrovigliarsi in linee barocche, contorcersi disegnando fiabesche visioni. Producono poco più di niente.
Poco distante da qui, in zona Fango, l’ultimo fazzoletto di terra, alcuni filari di giovani piante di sette, otto anni di una vigna più grande che si rivolge verso Mirabella Eclano, allevata a cordone speronato. Alla destra dei filari di Guastaferro e di Antonio Caggiano.
Da questi siti arriva l’aglianico che concorre alla produzione delle seimilaseicentosessantasei creature di Emilio. Vendemmiato come un tempo, mai prima del giorno dei morti, il 2 novembre, e a più riprese, se necessario, sino a Natale. Con le sole uve migliori in grado di resistere che diverranno, dopo attenta vinificazione e il giusto affinamento, il Taurasi che, dal 1999, è etichettato sono nella versione riserva.
Troverete di seguito le note di degustazione del Taurasi Docg dell’azienda Gmg vinicola Taurasi, nelle annate 1995, 1996, 1998 e 1999, 2000 e 2001 versione riserva. La degustazione è stata effettuata domenica 8 marzo nei locali del wine bar Vino e caffè di Taurasi, negli anni ’40 cinema, gestito oggi da Oscar Santosuosso che ringrazio. Alcune di queste annate sono state da me bevute a più riprese negli ultimi due mesi. Intendo inoltre ringraziare il produttore Emilio Di Placido per la caparbietà, il fervore delle idee, la tenacia e per la disponibilità, Luciano Pignataro per l’idea di questo viaggio e l’amico Giovanni Ascione, Sommelier Master Class, Relatore ai corsi Ais, per averne tracciato il sentiero, condividendo con noi le sue puntuali osservazioni e impressioni sui vini. Infine, ringrazio tutti coloro che hanno voluto partecipare, tra cui ricordo, scusandomi con gli altri per i difetti della mia memoria, i giornalisti Isao Miyajima, Paolo De Cristofaro (anche per le informazioni gentilmente fornitemi), Dagmar Gross, Annibale Discepolo, Adele Chiagano, Monica Piscitelli, il presidente dell’Ais Campania Antonio Del Franco, il Delegato di Napoli Tommaso Luongo, i sommeliers Marina Alaimo, Michela Guadagno, Liliana Pagano.
1995: La fermentazione è avvenuta in acciaio a temperatura non controllata utilizzando l’inoculo di lieviti selezionati Maurivin. La macerazione sulle bucce si è protratta per circa 10/15 giorni. Dopo la svinatura il primo affinamento è avvenuto in acciaio, dopo vari travasi, ha continuato l’affinamento in Barrique di secondo passaggio per circa un anno. Infine in bottiglia ha riposato in attesa di essere commercializzato. Il colore è di un rubino rarefatto, di veli trasparenti che ondeggiano nel calice fino all’unghia di granato tono. L’umore è terroso, sanguigno, note terziarie di tabacco e spezie, di funghi e sottobosco fanno da sfondo a echi floreali d’intatta bellezza ed un frutto sussurrato ed ancora croccante che s’abbraccia amorevolmente ai toni minerali. Al palato l’ingresso è snello, il corpo agile e fluido, l’acidità è ancora nerboruta, il tannino risolto, l’eleganza affermata. In equilibrio perfetto.
1996: Le pratiche di cantina seguono quelle dell’anno precedente, con la differenza della fermentazione avvenuta a temperatura controllata e dell’affinamento in Barrique, dopo i travasi, di terzo passaggio e nuove per il 30%.
Più cupo già nel tono, meno vivo e brillante. Rispetto al campione precedente si mostra più vecchio e al naso rivela poco che non dica frutta matura e aure balsamiche, con un leggero sospiro etereo di ceralacca. Il palato è leggermente diluito all’ingresso, in maniera scomposta si alternano aromatici toni fruttati e floreali, chiude in una persistenza corta. Nel tempo il naso vira su affascinanti effluvi floreali.
1998: Da questa annata i legni d’affinamento, della Veneta Botti, divengono di rovere di Slavonia, dalla capacità di 20 e 30 ettolitri. In quest’annata, il vino vi ha sostato circa un anno.
Sarà che nelle annate sofferte alcuni vini hanno un’anima sfuggente, uno scarto di lato che a me piace particolarmente, ma questo 1998 mi ha sempre attratto. È l’emozione di qualche attimo, una rincorsa contro il tempo, perché a due ore che lo si è versato nel bicchiere perde la sua battaglia con l’ossigeno. Ma l’incipit è di tutto rispetto. Di frutto carnoso e godereccio, di sfumature speziate e di foglie di tabacco, di echi balsamici. Al palato è immediato, non concettuale, niente di intellettuale, sano e gaudente. La scia amara di un tannino da annata capricciosa è un peccato che gli perdono volentieri.
1999 Riserva: Da quest’annata il Taurasi è prodotto solo nella versione riserva dopo aver svolto l’affinamento nelle Botti di Rovere di Slavonia per circa 18 mesi.
Tende al violetto nel colore, dalla modulazione cupa e più concentrata. Al naso non ha ancora dispiegato in maniera sicura tutte le sue doti. È ancora una fanciulla, acquisirà nel tempo la sicurezza di donna. Il frutto scuro prepotente emerge, le note minerali di grafite sono più evidenti che nei campioni precedenti e allegramente giungono flebili aneliti di geranio. Il tutto è composto, armonico ed equilibrato. Le misure, quelle giuste. Il palato è prorompente, di grande forza, la trama tannica, seppur giovane, mostra una stoffa di sicuro pregio. L’acidità gagliarda fa da scheletro ad una massa consistente. Non fosse per il ritorno dell’alcol leggermente sopra le righe dopo la deglutizione aspirerebbe alla perfezione.
2000 Riserva: Le pratiche di cantina seguono quelle dell’annata precedente. L’affinamento in legno è durato 20 mesi.
Meretrice. Si dona con tutte le sue grazie immediatamente senza chieder conto. Popputo nel frutto non surmaturo come l’annata calda farebbe sospettare, ma succoso, nelle aure balsamiche trova la fuga ardente dall’abbraccio procace che potrebbe soffocare. Alla beva tiene l’acidità a compensare il probabile residuo zuccherino che continua le impudiche tentazioni. Tannino completamente svolto. Per chi ama “tanta roba”.
2001 Riserva: Le pratiche di cantina seguono quelle dell’annata precedente.
Ne ho bevuti vari campioni, allineati nell’idea, ma che si differenziavano in alcuni particolari. Il colore è di un meraviglioso rubino che pensa al viola. Il naso è incentrato su sensazioni di terra e humus che ricordano il primo calice da cui si è mosso questo viaggio. Continua nei suoi profumi su un frutto maturo di amarena, su note di spezie, di cuoio e tabacco, adagiandosi su un sentore di liquirizia. Al palato è caldo, spazioso, largo, lungo nell’acidità e nella sapidità, dal tannino rustico che chiude il sorso su una sensazione amaricante. Nelle capacità di tenuta del frutto e del tempo di levigare il tannino, sostano le nostre speranze di una futura grandezza.
Foto 1: filari di vigna a Carazita, sullo sfondo il paesino di Sant’Angelo all’Esca. Alessandro Caggiano, viticoltore, una delle memorie storiche di Taurasi. Umori neri di natura vulcanica.
Foto 2: in alto le starse a Case d’Alto. In basso, grovigli barocchi di tralci vecchi 100 anni allevati a starse a Paludisi.
Foto 3: in alto a destra, Giovanni Ascione e Emilio Di Placido. A sinistra, Luciano Pignataro, Giovanni Ascione e Isao Miyajima. In basso le bottiglie degustate.
foto di Adele Chiagano
1996: Le pratiche di cantina seguono quelle dell’anno precedente, con la differenza della fermentazione avvenuta a temperatura controllata e dell’affinamento in Barrique, dopo i travasi, di terzo passaggio e nuove per il 30%.
Più cupo già nel tono, meno vivo e brillante. Rispetto al campione precedente si mostra più vecchio e al naso rivela poco che non dica frutta matura e aure balsamiche, con un leggero sospiro etereo di ceralacca. Il palato è leggermente diluito all’ingresso, in maniera scomposta si alternano aromatici toni fruttati e floreali, chiude in una persistenza corta. Nel tempo il naso vira su affascinanti effluvi floreali.
1998: Da questa annata i legni d’affinamento, della Veneta Botti, divengono di rovere di Slavonia, dalla capacità di 20 e 30 ettolitri. In quest’annata, il vino vi ha sostato circa un anno.
Sarà che nelle annate sofferte alcuni vini hanno un’anima sfuggente, uno scarto di lato che a me piace particolarmente, ma questo 1998 mi ha sempre attratto. È l’emozione di qualche attimo, una rincorsa contro il tempo, perché a due ore che lo si è versato nel bicchiere perde la sua battaglia con l’ossigeno. Ma l’incipit è di tutto rispetto. Di frutto carnoso e godereccio, di sfumature speziate e di foglie di tabacco, di echi balsamici. Al palato è immediato, non concettuale, niente di intellettuale, sano e gaudente. La scia amara di un tannino da annata capricciosa è un peccato che gli perdono volentieri.
1999 Riserva: Da quest’annata il Taurasi è prodotto solo nella versione riserva dopo aver svolto l’affinamento nelle Botti di Rovere di Slavonia per circa 18 mesi.
Tende al violetto nel colore, dalla modulazione cupa e più concentrata. Al naso non ha ancora dispiegato in maniera sicura tutte le sue doti. È ancora una fanciulla, acquisirà nel tempo la sicurezza di donna. Il frutto scuro prepotente emerge, le note minerali di grafite sono più evidenti che nei campioni precedenti e allegramente giungono flebili aneliti di geranio. Il tutto è composto, armonico ed equilibrato. Le misure, quelle giuste. Il palato è prorompente, di grande forza, la trama tannica, seppur giovane, mostra una stoffa di sicuro pregio. L’acidità gagliarda fa da scheletro ad una massa consistente. Non fosse per il ritorno dell’alcol leggermente sopra le righe dopo la deglutizione aspirerebbe alla perfezione.
2000 Riserva: Le pratiche di cantina seguono quelle dell’annata precedente. L’affinamento in legno è durato 20 mesi.
Meretrice. Si dona con tutte le sue grazie immediatamente senza chieder conto. Popputo nel frutto non surmaturo come l’annata calda farebbe sospettare, ma succoso, nelle aure balsamiche trova la fuga ardente dall’abbraccio procace che potrebbe soffocare. Alla beva tiene l’acidità a compensare il probabile residuo zuccherino che continua le impudiche tentazioni. Tannino completamente svolto. Per chi ama “tanta roba”.
2001 Riserva: Le pratiche di cantina seguono quelle dell’annata precedente.
Ne ho bevuti vari campioni, allineati nell’idea, ma che si differenziavano in alcuni particolari. Il colore è di un meraviglioso rubino che pensa al viola. Il naso è incentrato su sensazioni di terra e humus che ricordano il primo calice da cui si è mosso questo viaggio. Continua nei suoi profumi su un frutto maturo di amarena, su note di spezie, di cuoio e tabacco, adagiandosi su un sentore di liquirizia. Al palato è caldo, spazioso, largo, lungo nell’acidità e nella sapidità, dal tannino rustico che chiude il sorso su una sensazione amaricante. Nelle capacità di tenuta del frutto e del tempo di levigare il tannino, sostano le nostre speranze di una futura grandezza.
Foto 1: filari di vigna a Carazita, sullo sfondo il paesino di Sant’Angelo all’Esca. Alessandro Caggiano, viticoltore, una delle memorie storiche di Taurasi. Umori neri di natura vulcanica.
Foto 2: in alto le starse a Case d’Alto. In basso, grovigli barocchi di tralci vecchi 100 anni allevati a starse a Paludisi.
Foto 3: in alto a destra, Giovanni Ascione e Emilio Di Placido. A sinistra, Luciano Pignataro, Giovanni Ascione e Isao Miyajima. In basso le bottiglie degustate.
foto di Adele Chiagano
posted by Mauro Erro @ 14:10,