Del vino...

Ho lasciato che il post precedente fosse all’attenzione dei lettori di questo blog per tutta la settimana e che si sviluppasse la discussione con i vari commenti anche ben al di là del merito, di una degustazione sui cosiddetti supertuscan. Adesso qualche considerazione personale di sintesi lasciata al fine settimana, quando solitamente calano gli ascolti, cercando di essere meno noioso possibile ed offrire, nel mio piccolo, qualche spunto di riflessione.
La prima cosa che ho notato spesso e che ogni disquisizione inerente al vino, al suo giudizio ed alla sua comunicazione pare non riesca a svincolarsi dal mero approccio mercantilistico. Le osservazioni riguardanti il vino come un bene (anche) di consumo e sul mercato che, oggi, è molto più stratificato di quanto non fosse dieci anni fa, mi sembrano sicuramente di buon senso, ma cosa c’entrano? Ne prendiamo atto, va bene, ma con l’aspetto degustativo, la valutazione e la conseguente comunicazione, ripeto, cosa c’entrano? Il paradosso è che sia io a dirlo che il vino lo vendo in quanto bottegaio.
Spesso la conseguenza di questo tipo di approccio porta poi a considerare il buono o la “piacevolezza” come unico giudice supremo nella valutazione di un vino. Sinceramente, osserverei, che il buono attiene all’estetica del gusto: relativismo puro.
L’altro giorno parlavo al telefono con un amico che fa l’importatore di vini italiani a New York che mi spiegava come il mercato americano fosse cambiato e come si fosse maggiormente complicato. Si cerca eleganza, verità, ma allo stesso tempo il Pinot Grigio di aziende come Santa Margherita o Cavit sono i prodotti più venduti. Ora, senza mancare di rispetto i consumatori americani, né eccedere in uno snobismo "palatale", io credo che chi si assume il compito di divulgare e comunicare il vino debba slegarsi da certi discorsi, a meno che non voglia risolvere la propria mansione in puro e semplice marketing. Perché secondo me è di questo che si tratta. Ho imparato nel tempo e nei miei studi giovanili che se si sceglie più o meno consapevolmente di scrivere – in questo caso di vino – ci si dovrà pur porre nobili principi, tanto per capirci, citando Alessandro Manzoni “l'utile per iscopo, il vero per oggetto e l'interessante per mezzo”. Ove l’utile, in questo caso, è il ruolo pedagogico di educatore che, forse anche presuntuosamente, si vuole svolgere. Quindi, un conto, in base all’esperienza accumulata in questi anni, è ridiscutere i parametri secondo cui giudichiamo i vini introducendone di nuovi, come i concetti di bevibilità o aderenza al territorio o di naturalezza espressiva di un vino, un conto è limitarsi a dire che tutto ciò che risulta piacevole è di conseguenza un grande vino o che a decidere è il mercato, arrivando di conseguenza, citando l'amico Paolo De Cristofaro, ad un relativismo valutativo ed enologico [...] un supposto democraticismo modello talk show, che finisce con l'essere un riduttivo, volemose bene.
Forse sbaglio, ma un vino non lo si valuta con i dati delle sue vendite alla mano.
Ovviamente il discorso è ancora molto lungo ed ha tantissime altre implicazioni che forse di volta in volta affronterò.

E adesso abballate, Earth Wind & Fire, Jupiter.
Buon fine settimana.

posted by Mauro Erro @ 11:49,

10 Comments:

At 7 febbraio 2009 alle ore 13:52, Blogger Paolo De Cristofaro said...

Molti spunti come al solito quindi obbligatoriamente dei punti-flash:
1) Non mi è chiaro chi è che ha proposto un approccio mercantilistico nella precedente discussione. Anzi, se proprio vogliamo essere filologici, il primo ad utilizzarlo sei stato tu quando dici "c’è ancora qualcuno di voi, che si chiede perché questi vini rimangono invenduti in buona parte delle cantine dei ristoranti italiani?". Anche tu, come vedi, hai proposto una chiave di lettura che chiama in causa la risposta del mercato, mettendo in relazione i limiti progettuali ed estetici del modello supertuscan con le difficoltà di vendita di oggi. Secondo me giustamente.
2) Cosa c'entrano gli aspetti "mercantilistici" con la valutazione-comunicazione? Secondo me c'entrano parecchio nella misura in cui pensiamo al mercato non solo come ad un meccanismo di scambio merci regolato da domanda e offerta ma come un luogo complesso dove si confrontano esprienze e sensibilità molto diverse. Un qualcosa che ha molto più a che fare con l'estetica di quanto si possa pensare perché il nostro apprezzamento di una cosa nasce raramente dall'oggetto in sé e molto più spesso da un confronto e da una contestualizzazione. Se io e te amiamo il brunello di soldera lo amiamo non solo perché ci è piaciuto in sé e ci ha regalato delle emozioni sensoriali, ma anche perché ci dice tutta una serie di cose in rapporto agli "altri". Se lo consideriamo la quintessenza della tipicità, bevibilità e aderenza territoriale, per usare dei tuoi "criteri", è perché siamo in grado di misurarli anche e soprattutto in rapporto ad altre espressioni. La mia domanda è: esite il grandissimo vino in sé oppure la sua grandezza si forma anche e soprattutto rispetto ad una "superiorità" che gli viene riconosciuta in base ad una serie di parametri rispetto ai suoi simili?
3) Il mio unico relativismo in campo non c'entra niente né con l'universalismo del buono né con "è il mercato che decide". Penso però che non esista un unico modo "giusto" di valutare e comunicare il vino e che i parametri che utilizziamo sono talmente soggetti ogni giorno a cambiamenti ed influenze, prima di tutto di carattere culturale, che sarebbe un errore imperdonabile non tenerne conto. Anche perché, e su questo c'entra poco il cinismo, la mia esperienza nel mondo del vino mi ha insegnato che il 99% del quadro è fatto di grigi. E anche chi non produce espressamente per "vendere", come un pittore o un musicista, quasi mai è un santo in tutto e per tutto. Alcuni dei nostri "miti" enologici sono stati e sono tra i più grandi consumatori di diserbanti, trattamenti chimici e solforosa. Altri sono tra le persone più arroganti, presuntuose, maleducate che abbia mai conosciuto. E con il loro atteggiamento fanno del male alla loro storia e al loro territorio esattamente come fa male un industria del vino gestita dal supermanager a cui metteresti le mani addosso dopo tre secondi.
4) Sto cercando di capire il tuo concetto di comunicazione "giusta". Il mio è che per sua stessa natura comunicare significa mettere a disposizione un pensiero e accertarsi che questo venga recepito da un destinatario finale. Ho sempre pensato che comunicare un vino in sé senza contestualizzarlo in un tempo, in uno spazio, in una variabilità di espressioni e di stili ha veramente poco senso. Ecco che ritorna la parte buona e l'aiuto del famigerato "mercato"... Se io oggi ti scrivo un pezzo su un vignaiolo del magadascar e della sua bottiglia che magari ho trovato buonissima cosa ti arriva se non parto prima da tutto il resto? Diverso sarà il discorso se tu del Madagascar conosci tutto e sei interessato a sapere qual'è il meglio, secondo un interlocutore di cui ti fidi, che puoi trovare lì. E' per questo che le guide non avrebbero alcun senso senza dei divulgatori e dei raccontatori. Ma così come non sarebbe completa la divulgazione senza qualcuno che si assuma la responsabilità di esprimere una visione critica. Il relativismo si addita anche cento bellissimi articoli dove il messaggio implicito sembra essere che tutto sommato tra la coda di volpe fatta in casa e il Tba di Egon Muller non c'è poi una "gerarchia".
5) Alla luce di tutto questo, il concetto che contesto di più è proprio quello del ruolo "pedagogico". Per me un comunicatore, e ovviamente anche del vino, deve dare informazioni, strumenti, punti di vista, senza nascondersi dietro i paraventi del buono o del mercato. Ma educare è un'altra cosa e non spetta a lui perché così daremmo per scontato che la sua visione e la sua sensibilità degustativa sia quella "giusta". Ma chi lo stabilisce questo? E in base a quali parametri "oggettivi", universali e immodificabili?

Proprio proprio flash non sono stati i miei ma il discorso è veramente interessante e mi pare che qui dentro si possa parlare con una certa tranquillità...

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 16:03, Anonymous Anonimo said...

Io penso che il ruolo educativo della comunicazione sia fondamentale o almeno dovrebbe esserlo. E' proprio perchè la comunicazione - in ogni campo - ha perso ormai del tutto questo suo carattere che viviamo in una societa' pessima. Se pensiamo che perfino chi fa l'educatore per mestiere cerca sempre più di sfuggire al suo ruolo...
"Educare significa "tirar fuori" ciò che è dentro alla persona: significa cioè valorizzare quanto di meglio ci sia potenzialmente in un individuo. ..."
Di certo non significa indottrinare... se questo é il rischio cui si puo' giustamente pensare.
Fabio

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 17:17, Blogger Mauro Erro said...

@ Paolo:
1) la mia era una constatazione. Facevo un discorso generico, dove spesso si focia solo ed esclusivamente nel mercantilismo.
2)Un conto è che ognuno di noi nella propria esperienza si confronti con tutti, un altro è quando si comunica. La grandezza di un vino si poggia sul giudizio in base a dei parametri fissati e sull'esperienza maturata. Quando si scrive il mercato non può essere l'alibi per giustificare la manchevolezza di un prodotto o per esaltarlo quando non c'è nulla da esaltare. Intendevo semplicemente questo. Si scrive ciò che si sente nel bicchiere e si può anche sbagliare ovviamente.
3)Pienamente d'accordo con te.
4)il mio concetto di "giusto" nella comunicazione? Citando nuovamente Manzoni: il vero per oggetto. In ogni caso scelgo Egon Muller :-)
5)Io, invece, confermo. Il che non vuol dire che esista un'unica via e che sia quella giusta. Poi scegliere come, offrendo informazioni o punti di vista o chiavi di lettura come scrivi tu, dire la propria opinione piuttosto che maieuticamente vestire i panni di Socrate è scelta individuale.

P.S. La prossima volta me lo scrivi sottoforma di poemetto in versi il commento? :-)

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 17:18, Blogger Paolo De Cristofaro said...

@Fabio. E' esattamente quello che intendo io quando dico che comunicare significa dare informazioni, fornire strumenti, mettere in condizione i propri interlocutori di capire e seguire la propria strada, la propria indole, il proprio gusto. Non significa invece, sempre secondo me, pensare di trasmettere una verità o un percorso "giusto" che qualifica il comunicatore e lo rende speciale rispetto ad altri. Esperienza, conoscenza e capacità come un mezzo, non come un'arma.

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 17:25, Blogger Mauro Erro said...

Caro Paolo, quello significa svolgere un ruolo pedagogico. I dogmi appartengono ai preti. Rassegnati "pedagogizzi" pure tu, anche se non vuoi prenderti sul serio.

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 17:33, Blogger Paolo De Cristofaro said...

@ Mauro. Penso che è la parola mercato ad essere fuorviante e ad innescare delle resistenze che, a mio avviso, sono smentite nella prassi da tutto quello che facciamo e diciamo. Sul tuo punto 2:
ripeto, io credo che scrivere del bicchiere in sé non abbia alcun senso e non dica niente a chi mi legge. Quando tu assaggi per la prima volta un vino fatto con un certo vitigno in una certa zona con un certo processo con un certo stile, di cui immaginiamo tu non sappia niente, che cosa puoi comunicare? Potrai certamente parlare delle sensazioni che ti ha dato, degli altri vini a cui assomiglia, di uno stile che ti ha ricordato. Ma finirà lì e saremo molto vicini al relativismo del buono (o del cattivo). Mancherà totalmente la visione critica, la consapevolezza del progetto culturale, la possibilità di valutare tipicità, aderenza territoriale, bevibilità, ecc. ecc. Se è vero che il tempo e la storia dà la misura e l'importanza delle cose (e il vino non sfugge a questa legge), lo stesso vale per la sua collocazione in un ambito spaziale e valoriale. E' la parola mercato che spaventa, non la sua essenza. Anche perché ditemi cosa c'è di più bello di un mercato magrebino o un suk...
Sul punto 4): che cos'è il vero? chi lo stabilisce? Di quante cose false rischiamo di diventare cassa di risonanza perché magari riferiteci da persone che stimiamo e di cui amiamo i vini? e di esempi potrei fartene tanti...

ps la prossima volta mi esprimerà direttamente in endecasillabi. Promesso. :-))

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 17:35, Blogger Paolo De Cristofaro said...

@ Mauro: dammi pure del Patrimista, ma ti prego, pedagogo nooooooooooooo! :))

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 17:49, Blogger Mauro Erro said...

@ Paolo: sient' a me, è meglio che ti tieni del pedagogo :-)

 
At 7 febbraio 2009 alle ore 20:32, Anonymous Anonimo said...

Visto che sembra che siamo tutti d'accordo pur con sfumature diverse... mi chiedo se questo di cui parliamo sia stato fatto o venga fatto... Secondo me, no !
Io sono il primo a fare mea culpa.
Mi sforzo di farlo, vorrei farlo, ma mi accorgo di farlo poco e male per tutta una serie di motivi con i quali non voglio annoiarvi...
fabio

 
At 8 febbraio 2009 alle ore 10:57, Blogger Mauro Erro said...

@ Fabio: ma si può sempre migliorare o sforzarsi di farlo. Farlo insieme mi sembra già un buon inizio.

 

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