Gennaro Esposito, la minestra di pasta e l'alta ristorazione
martedì 23 settembre 2008
Gennarino stava preparando La minestra di pasta, che poco più di un mese fa Marco Bolasco ha definito il suo piatto dell’anno. Ora, perché raccontarvi di un fatto in fin dei conti personale? Ci arrivo subito, prima, vi racconto del piatto. La minestra di pasta è l’insieme di paste diverse (mmescafrancesca o pasta mista) rigorosamente calate nell’acqua bollente una ad una e via via rispettando i tempi di cottura di ciascuna, conditi da una zuppa di pesce: scorfano, pettine, murena ecc. ecc.
Il piatto che mi è arrivato davanti gli occhi, il naso ed a portata di palato, aveva le sembianze di una pasta mista con fagioli, ma i fagioli non c’entrano un ficco secco. Mangio, faccio il bis e dopo, lacrime di gioia. La leggerezza, il sapore, la semplicità. Tutto perfetto.
Veniamo ora alle motivazioni di questo scritto. L’altro giorno leggevo le parole che condivido in toto di Luciano Pignataro a proposito dell’alta ristorazione e della cucina della mamma, partendo dall’esempio di Mauro Uliassi.
Aggiungo a quelle parole alcune piccole considerazioni personali. In questo periodo di crisi economica, parlare di alta ristorazione, di una ristorazione sicuramente elitaria può sembrare folle. Ma in fondo non è così. E ne parlo io che sono sempre stato un tipo più da trattoria che da cucina stellata. Certo i 120 euro per un menù degustazione da Ciccio Sultano, vini esclusi, o i 90 che spendereste da Gennaro non sono alla portata di tutti, ma in giro di vere occasioni e di esperienze uniche ce ne sono. A Napoli, tranne qualche isolata e lodevole eccezione, per mangiare una pizza con un antipasto di frittura all’italiana (per due) e una bottiglia d’acqua spendo intorno i venti euro (a testa). Se vado al ristorante e voglio mangiare pesce ne spendo 40 o 50 e mi mangio il solito spaghetto ai frutti di mare e qualche pesce che spesso mi viene spacciato per fresco e non lo è, o addirittura, un pangasio che mi viene venduto per spigola o chissà che. Il vino è quello della casa nell’improponibile brocca e visto che qui nessuno naviga nell’oro, ho, più o meno, buttato 50 eurini come se niente fosse. Se parliamo di carne la solfa non cambia: Angus, Kobe o Chianina di dubbia provenienza che pago una cifra blu e mi arriva cotta male.
Dunque, la cultura della cucina come del vino da noi, rispetto ai francesi, è arrivata molto dopo, e quindi istruire le persone a tale cultura, al mangiar meglio, più sano, e meno è e sarà opera difficile. Ma fatevi due conti, piuttosto che spendere male 40 euro e mangiar peggio, perché non andare da Lino Scarallo di Palazzo Petrucci a Napoli o da Maurizio Somma e Mimmo Vicinanza al Papavero di Eboli, due amici che cito come esempio (cercando ne trovate degli altri) dove per 40 euro mi faccio il menu degustazione: un’esperienza più unica che rara?
posted by Mauro Erro @ 12:47,
8 Comments:
- At 23 settembre 2008 alle ore 14:04, Francesco Annibali said...
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Mauro, mi fai la tua personale classifica delle cucine della costiera amalfitana? Io rimasi colpito soprattutto dalla Taverna
- At 23 settembre 2008 alle ore 15:00, said...
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Ecco, perché? Ora l'altra domanda è: cosa hai bevuto sulla minestra di Gennarino?
in bocca al lupo per stasera! ;)
voc - At 23 settembre 2008 alle ore 15:20, Mauro Erro said...
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@ voc: crepi. Era una serata tra amici, quindi niente di trascendentale, qualcuno ha portato il nuovo rosato di Marisa Cuomo, altri le birre de Il Chiostro.
@ Francesco: Sai è difficile per me rispondere alla tua domanda. Io ho un’idea dell’alta ristorazione che difficilmente si coniuga con la costiera, ma che trova più spazio nelle province interne della Campania dove si è più disposti ad osare e dove la creatività in cucina come nella carta dei vini è forse maggiore. Oltre quelli citati nel post potrei farti i nomi di Taverna estia o del Foro dei Baroni di Raffaele D’Addio. Il problema della costiera è la clientela. Alta stagione, prezzi molto alti che tradotto significa turisti russi e americani. Per rendermi chiaro, se apro una carta e, ad esempio, mi vado a vedere i bianchi piemontesi, mi scoccia trovare sauvignon e chardonnay di Gaja a cui preferirei, che so, un Timorasso di Mariotto o di Walter Massa. Detto questo, i nomi sono comunque quelli, l’eccezioni e le punte massime: Torre del saracino, Taverna del Capitano dei Caputo e Don Alfonso 1890, soprattutto per la squisitezza di Alfonso Iaccarino e di sua moglie Lidia. Ce ne sono altri di cui si parla un gran bene (vedi il faro di capo d’orso) e da cui mi riprometto di andare, altri, invece, che mi hanno deluso. Ma i nomi di questi, se vuoi, te li faccio in privato. :)
Comunicazione di servizio: a Francè’, la tua newsletter non mi arriva più! - At 23 settembre 2008 alle ore 15:27, Mauro Erro said...
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Ah, Luigino, quasi dimenticavo, mi sono appena arrivati il dolcetto e la barbera di un certo Giuseppe Rinaldi e a giorni il 2004 Brunate-Le Coste, ti dice niente...per non parlare della verticale di un certo Gabutti che stiamo mettendo in piedi per la mia e la tua gioia...:)
- At 24 settembre 2008 alle ore 10:43, il maiale ubriaco said...
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Condivido .. e condivido pure Luciano.
Ho mangiato di recente da Don Alfonso ed è stato sublime. Ste- - At 24 settembre 2008 alle ore 16:43, said...
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Finalmente il mitico citrico ti ha inviato i vini!!! Ma manca ancora all'appello il Brunate Le Coste :)
riesci davvero a fare una verticale di Cappellano? Il piè franco o il rupestris?
voc - At 24 settembre 2008 alle ore 16:56, Mauro Erro said...
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Rupestris....
- At 28 settembre 2008 alle ore 23:50, said...
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sottoscrivo in pieno.
E il rapporto qualità prezzo peggiora drasticamente in città, salvo rare eccezioni. (almeno a Roma è così).