Brunellopoli, tra apparire ed essere
sabato 19 aprile 2008
La cosa è semplice semplice: pare siano state riscontrate irregolarità nei vini (e tra i vigneti) di alcune aziende, tra l’altro anche nomi importanti e storici, che avrebbero aggiunto vitigni non permessi dal disciplinare (che prevede l’utilizzo esclusivo in purezza del sangiovese grosso) nel proprio Brunello di Montalcino (merlot e cabernet). Questo è quanto.
Considerazioni
Innanzitutto registro lo sconforto e l’abbandono avvertito da “Don Chisciotte Ziliani”, il primo a svelare dell’affaire, ma mi permetto un’osservazione e un invito: un giornalista dovrebbe scrivere per amore della verità e per i suoi lettori (io tra i suoi tantissimi). Capisco le sue parole, ma lo invito a proseguire. Scritto questo, il punto credo stia tutto qui. Nella voglia diffusa che io avverto, tra giornalisti ed operatori del settore (figuriamoci i produttori), nel loro atteggiamento “pompieresco”, di voler minimizzare, se non addirittura tacitare, la notizia. Ora, ripeto, non entrerò nel merito, non spetta a me, ma ho alcune considerazioni da fare e delle domande da porre. Perché si fa un gran parlare di cambiamento di disciplinari, definiti troppo rigidi? (ieri notte sconsolato ho ascoltato le parole di Andrea Muccioli patron di San Patrignano che più o meno parlava di ciò, bah….). Semplice, signori miei, per vendere, nulla più. Per quanto ognuno di noi sia mosso da passione, sia un romantico idealista bevitore di vini, ciò che a tutti i produttori interessa, è vendere, e c’è chi pur di vendere se ne frega di disciplinari e quant’altro. Ma perché il Brunello non si vendeva comunque? Più o meno. Il primo mercato al mondo è quello Nord-americano, dove riviste come Wine-spectator e Wine-advocat (di quel fenomeno di Parker) hanno un’influenza da non sottovalutare. Mi chiedo, ma perché un americano dovrebbe dire a me (e figuriamoci ad un toscano) cosa è o cosa dovrebbe essere un Brunello di Montalcino? Beh, questo lo ignoro. I gusti cambiano, è storia, dirà qualcuno. Cosa su cui tra l’altro c’è poco da discutere, ma se il Brunello di Montalcino era buono così com’era, che c’entra con i gusti che cambiano? E poi di qual gusto parliamo? Vedete, al di là di ipotesi che forse non sono dimostrabili, e che cioè le due principali riviste americane e del mondo abbiano lo scopo di imporre un determinato gusto (che è palesemente ben diverso dal nostro) per avvantaggiare i vini del proprio paese, mi chiedo, ma se agli americani non piaceva il gusto del Brunello così com’era, e ci volevano più merlot o cabernet, non potevano accontentarsi dei supertuscan di cui abbondiamo? Ora, sono ben consapevole del fatto che il vino viene prodotto per essere venduto, e pur non condividendole, posso capire se un enologo o un produttore adduce motivazioni che riconducono a discorsi del genere. Ma ad un giornalista o un comunicatore del vino, del mercato che gli frega? Il mercato esiste in quanto tale con le sue regole, le sue leggi (e le sue distorsioni), un giornalista dovrebbe limitarsi a raccontare ciò che è, o sbaglio? Ciò che è, e che mi spaventa, è quel fenomeno che viene chiamato acculturazione. Ciò che mi spaventa è l’omologazione del gusto e del pensiero perché il mercato questo ha deciso (più che il mercato e le persone che lo compongono, io credo che ciò esista per i produttori biechi che vogliono fare cassa). Il mercato è sì, un’entità reale, ma allo stesso tempo è qualcosa di astratto, fatto di milioni di persone e di svariati gusti. I disciplinari (giusti o sbagliati) esistono per preservare la qualità di un prodotto, così come il suo sapore ed il suo gusto o no?
Ipotetico discorso con un produttore di Brunello di Montalicino
M: Mi scusi, ma al di là di tutto, ne faccio un discorso prettamente commerciale, ma a voi non conviene insistere nella diversità, su un qualcosa di unico e irripetibile come può essere il Brunello di Montalcino?
P: Si ma richiederebbe troppo tempo far capire ciò che è il Brunello di Montalcino, e poi non è detto che possa piacere a tutti, lì invece (Stati uniti d’america, n.d.i.), vogliono un certo tipo di vino.
M: Sì, d’accordo, ma sul lungo termine siete destinati a perdere, prenda un bel merlot australiano, quelli con i prezzi vi stracciano….
P: Si sbaglia, noi ci abbiamo il Brand.
M: Sarebbe?
P: Vuole mettere il nome altisonante di un principe o conte toscano, e poi quello del Brunello di Montalcino?
M: Svuotato di ogni significato però?
P: E che ci frega, vende benissimo.
La differenza tra apparire ed essere.
Ciò che mi spaventa è che un giorno i miei figli sapranno che i tali produttori avevano sì commesso un illecito, ma il reato è caduto in prescrizione, e berranno, ahimè, vini tutti uguali (un unico vino, quindi). Signori, questo è il mondo in cui viviamo, quello delle apparenze, dove forse un bel (per modo di dire) giorno, Brunello di Montalcino sarà solo un bel nome (o Brand) e nulla più. O sbaglio?
De Gregori, non a caso questa canzone, metafora del fallimento e della perdita dei sogni di un'intera generazione.
posted by Mauro Erro @ 11:33,
3 Comments:
- At 20 aprile 2008 alle ore 11:30, RoVino said...
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Per quanto riguarda Franco, difficile che smetta di parlarne, devi tenere presente però che in questo momento i produttori incinesi si sono chiusi a riccio, hanno rotto tutti i contatti con noi, anche quelli che abbiamo sempre creduto amici. Questo è un segnale indicativo della situazione. Aggiungi che le ripercussioni per chi scrive sono a volte pesanti, si chiudono porte, il tam tam passa da un luogo all'altro e rischi di trovarti in poco tempo senza riuscire a lavorare, o quantomeno ad avere ridotte le opportunità.
Non è un caso che gli enogiornalisti più famosi si siano ben guardati dal fare commenti critici su quanto è accaduto.
Per il resto posso dire che le tue conclusioni sono le mie. Sono tanti anni ormai che sottolineo quanto il fenomeno business abbia deturpato completamente il significato più profondo e allo stesso tempo semplice del vino.
Basta vedere le numerose griffe, il passaggio da bevanda ad oggetto di culto, la strumentalizzazione del suo contenuto a fini speculativi. Cambiare un disciplinare? E che problema c'è. Siamo nel mercato globale, nella sua espressione peggiore.
Avrebbe dovuto significare esaltazione delle differenze e diffusione delle stesse nel mondo, invece, come era prevedibile, è diventato come una grossa centrale di smistamento di prodotti standardizzati, industrializzati, sempre meno sicuri e affidabili.
E questo vale per tutto, dall'alimentazione all'abbigliamento, dalla musica commerciale ai format televisivi, dalla stampa al turismo, alla gdo ecc.
E tutto questo sembra preoccupare poche, pochissime persone. - At 20 aprile 2008 alle ore 11:51, Mauro Erro said...
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Al di là delle osservazioni su cui concordiamo, cito questo tuo passo estremamente significativo:
"devi tenere presente però che in questo momento i produttori incinesi si sono chiusi a riccio, hanno rotto tutti i contatti con noi, anche quelli che abbiamo sempre creduto amici. Questo è un segnale indicativo della situazione."
...quel che segue è ancor di più significativo (ma se volessi dargli un valore, allora scriverei agghiacciante)...
"Aggiungi che le ripercussioni per chi scrive sono a volte pesanti, si chiudono porte, il tam tam passa da un luogo all'altro e rischi di trovarti in poco tempo senza riuscire a lavorare, o quantomeno ad avere ridotte le opportunità." - At 20 aprile 2008 alle ore 21:51, RoVino said...
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Purtroppo è così, non meritano che ci si dia da fare per ottenere il rispetto delle regole quando sono i primi a preferire il silenzio piuttosto che prendere una posizione decisa.